E’ tempo di pcarìa !

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Prima della macellazione, che di solito avve­niva il mattino presto, il maiale era tenuto a digiuno dalla sera precedente per avere poi le budella vuote, non sporche di feci. Il mattino, di buon’ora, la massaia doveva far bollire l’ac­qua nel paiolo, posto all’esterno. Quando l’ac­qua bolliva, il maiale veniva sacrificato impie­gando diversi sistemi di uccisione. Tuttavia, rispetto allo sgozzamento o al colpo di stiletto al cuore, si preferiva il metodo rapido del colpo alla testa, inferto con una punta di ferro che rag­giungeva il cervello mediante un colpo di mazza. In questo modo l’animale moriva all’istante, mantenendo solo delle contrazioni muscolari di tipo convulsivo. Subito dopo il norcino colpiva al cuore l’animale con un lungo coltello a punta. Il sangue usciva così a spruzzo e veniva raccolto con una larga teglia. Per favo­rire l’uscita, vi era chi “pompava” con la gamba anteriore sinistra per ottenere il massimo della fuoriuscita del sangue. In questo modo le carni rimanevano più chiare e meno impregnate di sangue. L’animale veniva ribaltato su una scala a pioli e lo si poneva, sollevato da terra, a ridosso di due cassette da uva, per avviare la pelatura. L’acqua bollente veniva fatta scorrere sulle diverse zone di pelle dell’animale e subito su esse si faceva passare, in modo radente, la lama affilata di uno speciale col­tello. Questa operazione asportava le setole e le parti più superficiali della pelle. In seguito si dovevano togliere le unghie: per far questo si immergevano i piedi del maiale nell’acqua bol­lente, per alcuni minuti, poi con un uncino dotato di presa manuale si uncinavano le unghie e si asportavano. Immediatamente il sott’unghia doveva essere ancora lavato con acqua bollente, per togliere i residui di sangue e far rimanere bianco il piedino. Il maiale, a questo punto, doveva essere appeso a testa in giù per essere squartato. Per far ciò, si incideva la pelle a livello del calcagno per esternare il tendine d’Achille inserito sul calcagno. Lì veni­vano inserite le estremità di una sorta di bilan­ciere in legno, bloccando l’uscita con un chiodo o un perno di legno. Con una carrucola si innal­zava l’animale fino a che fosse penzolante. Il norcino cominciava a tagliare la pancia dell’ani­male, partendo dall’alto, dall’inguine. Le budella venivano raccolte su un telo di cotone, bianco e pulito, teso davanti al ventre e tratte­nuto da due aiutanti. Dopo aver reciso il retto e l’esofago, le viscere erano raccolte nel telo e poste a parte, ben avvolte al caldo. Con alcuni colpi di mannaia si recideva la gabbia toracica e si asportavano, in un unico ammasso, fegato, milza, polmoni, cuore, trachea, lingua e i resti dell’esofago. Questi venivano appesi per farli scolare dal sangue residuo. A questo punto il maiale doveva essere sezionato anche poste­riormente: si incideva col coltello intorno al codino e, con un seghino, si tagliava l’osso sacro. Si proseguiva nel taglio del rachide, detto osso della schiena, impiegando una man­naia dal manico lungo e colpendo le vertebre con colpi secchi e decisi. Si lasciava attaccata l’ultima parte del muso, in modo che le due mezzene fossero unite. Il maiale rimaneva appeso a scolare l’ultimo sangue per un paio d’ore. Nel frattempo gli uomini andavano a pranzo mentre qualcuno si attardava in quanto doveva pulire, al loro interno, le budella. Dopo pranzo le due mezzene andavano portate al fresco, nel solaio, per lasciar riposare le carni almeno una notte, prima di essere lavorate. Le carni venivano poste a scolare gli umori su di un ampio tagliere di legno inclinato, per favo­rire lo scorrimento dei liquidi. Per meglio por­tarle sulle rampe delle scale, era possibile anche che il macellaio le dividesse in grandi pezzi fin da subito. Separava i due prosciutti, tagliava le due mezzene di grasso, le spalle, il torace, la testa, la pancia. Il giorno dopo, di buon mattino, il macellaio ed i suoi assistenti si mettevano al lavoro per iniziare, con la divi­sione delle carni, l’ultima e più importante fase della lavorazione del maiale. Si rifilavano i pro­sciutti e si recideva lo zampino. Le spalle, cioè le zampe anteriori, un tempo venivano conser­vate intere, trattate come i prosciutti, stagio­nate poi affettate normalmente. Si dava forma alle coppe ed alle pancette mentre il lardo della schiena, quello più pregiato del maiale, un tempo veniva conservato in mezzena, posto a salare, aromatizzato e affettato, nel corso del­l’anno, per i diversi usi della cucina. La massaia aveva così a disposizione due larghe parti di grasso (di circa cm. 60 x 30) che l’avrebbero aiu­tata a cucinare al meglio per il resto dell’anno Prosciutti, spalle, coppe, pancette e lardo veni­vano poi messi sotto sale, nel fresco del solaio per essere trattati ancora nei giorni a venire Negli ultimi decenni (anni ’70-’80 del ‘900), le spalle venivano distrutte e la carne impiegata per far salami oppure si poteva fare un salume che altro non era se non una sorta di gran noc­ciolo di carne che veniva avvolto con ur budello spesso e mangiato affettato. Ultima­mente, poi, il lardo della schiena veniva maci­nato e conservato in vasi di coccio, già pronte per gli usi della cucina. Ancora più di recente il grasso macinato veniva avvolto in carta oleata impiegato affettandolo al bisogno e conservato per tutto l’anno. Un’altra delle prime operazoni era il predisporre la cottura dei ciccioli. Il nor­cino separava i vari tipo di grasso, mettendo da parte quello bianco e sodo per i salami, quello un po’ meno pregiato per i cotechini e quello sporco di sangue (la gola, il grasso di coppa per fare i ciccioli. Il grasso avanzato da questa oculata ed accorta divisione finiva nel paiolo dei ciccioli.

Qui una lenta cottura permetteva l’uscita dello strutto dal grasso e lasciava così il tessuto fibroso svuotato e pronto, a fine cot­tura, per essere salato ed aromatizzato come cicciolo. Dal maiale si ricavava anche un altro tipo di grasso: era l’omento, cioè il grasso che era nell’intestino a ridosso delle budella. Questo grasso tenero, chiamato sugna, e quello adeso al mesentere un tempo veniva conser­vato in parte per lucidare le scarpe e gli scar­poni o per scopi medicamentosi. Era un grasso poco pregiato perché aveva il sapore delle budella. Ultimamente questo grasso veniva aggiunto al pentolone dei ciccioli solo in fase di cottura molto avanzata. Le carni del maiale venivano attentamente divise in tre mucchi: due per i salami e uno per i cotechini. I salami che meritavano carni pregiate (lonza, filetto, ritagli del prosciutto) erano i fiorentini e i gen­tili, mentre per gli altri servivano carni meno pregiate, cioè carni miste, come la carne di spalla, ritagli della coppa, muscoli delle grandi ossa. Per la salsiccia, per i cotechini e i cappelli da prete serviva la carne più dozzinale, fibrosa o sporca di sangue, proveniente dalla gola e dalla pulitura delle ossa. Il grasso per i salami era grasso bianco tagliato a dadini, mentre quello per i cotechini era più dozzinale e veniva macinato. Nel ripieno per i cotechini confluivano anche le cotenne le quali venivano prima tagliate grossolanamente con una man­naia, poi macinate. La prima operazione, che veniva affidata di solito ai garzoni più giovani e senza esperienza, veniva chiamata proprio pestare le cotiche. Un altro salume di pochissimo valore, che si consumava cotto come i cotechini, erano i sanguinacci: questi venivano preparati macinando insieme quei tessuti intrisi di sangue come i polmoni, l’esofago, la milza e carne di scarto. Fino a poco prima del­l’ultima guerra, invece, il norcino macinava pol­moni, fegato, milza, cuore e li faceva cuocere lentamente in una parte dello strutto ricavato dalla cottura dei ciccioli. Quello che ne ricavava era la frittura, ovvero un grasso salato, aroma­tizzato e intriso di queste carni che veniva con­servato nei vasi di coccio. Si utilizzava, raccolto a cucchiaiate e scaldato, per condire la polenta. Un altro salume che si poteva preparare era la cosiddetta coppa di testa: si prendevano i pezzi di carne derivati dalla pulizia del cranio e dalla gola, si facevano cuocere a parte e con questi, dopo adeguata salatura e aggiunta di spezie, si riempiva la vescica o un budello par­ticolarmente grande. Questo salume si man­giava freddo, quando la carne era tutta raggru­mata insieme e condensata nel proprio colla­gene, tagliato a fette. Si poteva mangiare così come tale, oppure si poteva rifondere la carne in un tegame, aggiungendo un poco di con­serva di pomodoro, e condire con esso la polenta.

Tratto da “La cucina mirandolese” di Giuseppe Morselli. Edizioni  CDL 2010

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