Il dialetto è mantovano, essendo l’autore di Poggio Rusco
La vendemmia
Due settimane prima si toglievano le botti dalla cantina, si mettevano in una zona d’ombra, si buttavano 5-6 secchi d’acqua perchè i era andadi un po’in fàs.
Per noi ragazzi era già una festa: si saliva in piedi su una botte coricata e la s’fava rutulàr par la cort: restare in equilibrio era abbastanza difficile. Si faceva a gara a chi restava sopra alla botte per il percorso più lungo.
Dentro la botte, dopo qualche anno, si formava uno spesso strato di tannino (quello per la concia delle pelli), in dialetto chiamato grép. Allora veniva il bottaio che, una volta tolto il fondo con una zappetta ricurva e tagliente, lo asportava e lo metteva nel sacco: come compenso riceveva una bottiglia di vino e il pranzo, a mezzogiorno.
As tirava fora li manastri, li s’cargàva su la baròsa e cun la sumèra is’purtava long a la piantàda.
La prima uva che si vendemmiava era qualla bianca, la precoce; as fava al vin nòf par la féra parchè quél vec l’era fnì. (Na persona ansiàna ch’ac piaséva busàr par la fnéstra, quand al vdéva che su la tàula a ghéra sol dl’aqua al géva “Biancafernanda ).
Le qualità coltivate erano: l’uva d’or, la carmuné§a che davano una gradazione bassa, 8-10 gradi al massimo, la basgàna, che di solito veniva mangiata.
Tutta la famiglia era impegnata nella vendemmia, dóni, vec e putlét. Tutte le sere as purtava a cà l’uà e prima at sèna as fulava (bisognava daspgnàr li manastri per il giorno dopo): al mós-c cun li graspi as butava in dal tinas.
Dopo qualche giorno si levava il vino che si metteva a maturare nelle botti: li graspi li gneva misi in dal torc, li’s lasava sgusulàr e dopo cena venivano torchiate: as fava al vin turcià, che era un po’amaro, ma con un po’d’acqua l‘andava só cl’era unpiasér.
Si faceva anche al mes vin: si buttavano un paio di secchi d’acqua sulle graspe e la mattina seguente si toglieva al burón della botte, veniva giù un vinello chiaro leggero, leggero (bevendone un bicchiere as capava na bota in cò, a gneva mal ad testa!).
Con le diverse qualità d’uva, qualche anno si faceva un buon vino e allora purtroppo qualche botte veniva venduta per realizzare alcune migliaia di lire: facevano sì comodo, ma si rimaneva senza vino.
La basgana è sempre stata l’uva migliore e veniva venduta come uva da tavola ai commercianti locali i quali inviavano alcune donne a sfurbsinar i grappoli più belli e pulirli dagli acini non commerciabili.
Quand al vin al s’éra fat, i puvrét in cana, caricavano sulla carriola una damigiana e andavano nelle corti a chiedere un bicer at vin: a sira agh n’éra un bel gós!
Con il mosto si faceva al sugul: strizzando gli acini bolliti si faceva al sugul cun la carpada (perchè dopo alcuni giorni aveva la superficie screpolata), buono il primo, eccezionale il secondo, dolce, corposo da mangiarsi a qualsiasi ora. A volte faceva una specie di muffa, ma era buono lo stesso.
Vino cotto. La mattina presto si riempiva di mosto metà paiolo, si metteva a bollire su la furnasela. Durante la bollitura si metteva una chiave di ferro per evitare il sapore di rame. Si faceva bollire molto lentamente fino a sera: ne rimaneva un terzo, denso, dolce, pront par far i turtèi sguasaròt, gros at cmè na man, bon da far gnir li vói! (D’inverno si faceva la granita riempiendo un bicchiere di neve e aggiungendo un goccio di vin còt).
Al savòr. Si faceva bollire nel vino cotto zucca, mele campanine, pere cotogne a dadini, fichi secchi, uva passa e si riempivano due o trevasetti. Serviva per il ripieno di turtèi sguasarot.
Col vino cotto si preparava al pan ad Nadàl.
Tratto da: Giochi, lavori, ricordi di un tempo
Autore: Ado Lazzarini
Anno: 2017