Remo Rinaldi – L’economia di via Montanari

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Via Francesco Montanari nei primi novecento

Via Francesco Montanari

Regolarmente, una volta a settimana, per via Montana­ri passava un ometto di mezza età con la bicicletta tenuta a mano. Sul portapacchi davanti al manubrio stava un ce­sto coperto con un largo tovagliolo bianco. Suonava con una trombetta ammaccata: pe – peee! E gridava: La ricotta fresca e dolce! Le donne di casa dicevano: “A ghè quél dlapuìna!”, uscivano a comprarne un paio d’etti e il problema del pasto serale era risolto. Tanto per variare il piatto a noi bambini, a volte mia zia, la Rina, amalgamava alla ricotta un po’ di caffè macinato e zucchero o un po’ di cacao. A me e a mio fratello Paolo piaceva tanto al rìs sùt, che non era il risotto, ma riso cotto nell’acqua salata, scolato e condito con il ragù di salsiccia.

Le donne del popolo praticavano la virtù del risparmio in modo esasperato. Si rammendava, si rattoppava tutto, si ri­suolavano e si riparavano le scarpe all’inverosimile, si rifa­cevano ai ferri punte e talloni delle calze, si rivoltavano abiti e cappotti, si passavano indumenti e scarpe tra il parentado, dai bimbi grandi ai più piccoli, si riparavano gli ombrelli rot­ti. Si sbucciavano le patate con molta attenzione: “Na bràva rasdóra la s’véd da cum la péla al patàti”, diceva la nonna Anna. Le vecchie maglie venivano disfatte, riannodando il filo di lana che si rompeva. Dal gomitolo ottenuto, si rifaceva ai ferri un altro capo di vestiario. Il senso della parsimonia arrivava a limiti assurdi: si lavavano il meno possibile maglie e camicie perché: na lavàda l’è na frustàda.

Mio prozio Carlo rimproverava mio padre ragazzo: “Guar­da, in un anno hai già rovinato gli scarponi che tuo cugino Franco ha portato per tanto tempo!”. I miei nonni e zii ave­vano tutti un solo paio di scarpe, buono per tutte le stagioni, calzate la domenica e nelle occasioni importanti. Per i giorni feriali si portavano ciabatte, zoccoli – i supèi -, sandali fatti con pezzi di copertone o si stava scalzi. Si chiodavano gli scarponi con borchie e le scarpe con mezzelune di metallo alle punte e ai tacchi per non consumare il cuoio. Il calzo­laio Rino in via Fulvia aveva scarpe in abbondanza da ripa­rare. Accanto a lui c’era Bordini che produceva tini, botti, botticelle per l’aceto, mastelli d’ogni dimensione, secchi di legno: una meraviglia. All’inizio della via Fulvia, non lonta­no dalla chiesa di S. Francesco, c’era Puviani, che riparava le moto. Terminata la riparazione, sfrecciava rombando per via Fulvia e via Montanari per provare la tenuta della riparazione alle moto Guzzi.

Poco prima dell’angolo di via Castelfidardo con via Montanari, c’era Menotti, il sellaio. Non aveva l’uso delle gambe, per via della poliomielite infantile e camminava con le stampelle di legno tenute sotto le ascelle. Fabbricava o riparava i finimenti per gli animali da tiro con una maestria incredibile. Praticamente serviva tutta la cam­pagna del Comune e oltre. Ripensandoci, mi vien da riflettere sull’iniziativa della gente di allora, per rimediare all’assenza del cosiddetto welfare pubblico. I genitori l’avevano affidato coraggiosamente a un artigiano perché imparasse un mestie­re da poter fare stando seduto. Un artigiano aveva accettato di addestrarlo nel mestiere pur avendo a bottega un soggetto disabile. E così un invalido grave, senza bisogno di verbale d’invalidità, di indennità di accompagnamento, di assistenza pubblica, campava decorosamente in modo autonomo.

Mia nonna Anna, nei pomeriggi nevosi o piovosi, per te­nerci quieti con i nostri cugini, ci riuniva nella cucina a pian terreno della zia Pia, all’attuale numero 50. Ci raccontava, con innumerevoli varianti, sempre la stessa fòla ad Pirim- pinpèn. Il quale se ne stava sull’albero delle pere. Passò la strega e: “Pirimpinpèn, am butat sò un pirèn?”. “No veh bruta vècia, parchè t’um magn!”. Poi cedette alle insistenze, allungò la mano per offrile una pera, ma la vècia lo agguantò al polso, lo trasse giù dall’albero e lo mise nel sacco. Mentre lo portava a casa sua nel bosco, gridava da lontano alla stre­ga apprendista: “Mariéta, Mariéta mét su la paruléta che a son chè ca vegn!”. Ma Pirimpinpèn era buono, con uno stra­tagemma riuscì a liberarsi e a evitare di finire lessato. Non ricordo altro.

Oppure, di fronte a noi, seduti su un sofà sgangherato, ci faceva stendere le gambe, toccava ritmicamente con l’attizzatoio i piedi, recitando la filastrocca: 

Stanga barlànga
La fórca t’impànga,

Strìca barlìca
La forca t’impìca,

Spròn, leòn, tudésk
Manda fóra e dèntar quést.

L’ultimo piede toccato doveva posarsi a terra piegando la gamba. Poi la ripeteva. Vinceva chi restava con una gamba tesa in avanti, mentre tutte le altre erano piegate. C’erano alterchi tra noi per sederci in un posto ritenuto favorevole.

Tratto da: Via Montanari e dìntorni – Ricordi di un mirandolese invecchiato in esilio.

Autore: Remo Rinaldi

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