Remo Rinaldi – Il Mercato, la Maestra Berni e le Canzoni

Commenti (0) Racconti

I fratelli Mascheroni al mercato del sabato a Mirandola

New Phototastic Collage

Il mercato del sabato mattina era favoloso.

In piazza Maz­zini, vicino alla grande edicola dei giornali, c’era Mascaròn con un cesto, a vendere limoni, al lùstar “furmìgon”, lacci per le scarpe, naftalina e, verso fine anno, al Barnardòn.

Sul­la piazzetta c’era pure Ribuoli con il banco del formaggio grana e ce ne dava sempre una scaglia da assaggiare.

Sul listòn incontravi il cinese che vendeva clavatte. Ricordo i ranari con il loro cumulo di rane spellate su una vasca di legno foderata di lamiera zincata posta su un carretto, oppure i pe­scatori di Revere e Ostiglia che, in certe stagioni dell’anno, vendevano a tranci lo storione pescato nel Po.

Nella piazzetta del Pistrino c’era il mercato del pollame e delle uova. A volte mia madre comprava una tacchinella o un pollo per fare il
brodo, con l’aggiunta di un po’ di polpa bovina e un osso ac­quistati nella macelleria Artioli. Il lesso si doveva consumare alla svelta, non c’era il frigorifero. Il pollo si mangiava tutto, meno le budella che erano una festa per i gatti. Si mangiava­no anche le parti molli della testa, anche le zampe, ripulite della parte cornea della pelle. Restavano il teschio e le ossa accuratamente ripulite.

Di lunedì si mangiava spesso un po’ di lesso sminuzzato condito con olio, aceto, sale e pepe: una leccornia. Poteva capitare che si facessero pure polpette per il martedì. Ne deduco che le porzioni di carne assegnate a ogni pasto fossero piuttosto scarse.

Al mercato incontravamo la nonna Aldegarda, venuta a vendere le uova a un’anziana grossista che ne faceva incetta e le pagava con monete tratte da un borsellino appeso al collo con una catenella.

Mia nonna portava i capelli gonfi a coro­na intorno al capo come usava nella belle epoque. Dava due soldi (dieci centesimi) di mancia a me e due a mio fratello, raccomandando di non dirlo a nessuno. Dopo, la seguivamo nella drogheria Pinotti, in piazza, a comprare lo zucchero, il caffè e un surrogato catramoso da mescolare al caffè, chia­mato “l’olandese”. Nel tardo autunno comprava pure una scorta di caramelline di mela per la tosse. Se andava nel ne­gozio della frutta e verdura dei fratelli Galavotti, all’angolo della piazza con il portico della tela, per acquistare qualche limone, ci regalava una carruba.

Pressappoco tra il listone e il portico della verdura, a volte c’era un ampio cerchio di gente incuriosita dallo spettacolo dell’orsaro, che faceva compiere qualche esercizio a un vecchio orso provvisto di una robusta museruola e tenuto alla catena. A volte c’era un suonatore ambulante a intrattenere il pubblico con la fisarmonica e sto­rielle divertenti. Alla fine passava col piattino a raccogliere le offerte.

Ogni tanto com­pariva un imbonitore che decantava il suo unguento a base di grasso di marmotta buono per qualsiasi dolore articolare. O uno che offriva una bottiglia di amaro a base di erbe, buono per digeri­re anche i sassi. Il vecchio Scadinèla sosteneva che era vero perché l’aveva provato. Questi ciarlatani, però, non comparivano mai due sabati di seguito.

Poteva capitare di incontrare Bruno Vecchi, al bel Bruno, che offriva per pochi soldi l’ultima sua sirudèla: 

Mè muiér l’è mèta in dla tèsta
parchè tut i gióran la cèmbia la vèsta,
la mét al bust, la guarda sl’è giùst.

Era un tipo originale. Mia madre diceva che da giovanotto andava a morosa da una contadina. I genitori della ragazza gli offrivano sempre una merenda di pane, prosciutto e lambrusco, sperando si arrivasse al matrimonio prima della fine del prosciutto. Ma quando il prosciutto finì, terminò anche il fidanzamento: “Fini al parsùt, fini anch l’amór”, sentenziò Bruno. Più del prosciutto gli rincrebbe la fine del Lambrusco, della cui privazione soffriva molto.

In prima elementare, con la maestra Egide Berni, erava­mo una cinquantina. Numero incontestabile, foto ricordo alla mano, scattata dal fotografo Pacchioni, – un omino con le gambe storte che aveva laboratorio in castello -, con il capo sotto un velo nero che copriva anche i fianchi e la sommi­tà della macchina fotografica.

Una scolaresca terrorizzante per le maestre di oggi. Eppure la maestra Berni – una don­na di bellezza giunonica – ce la faceva benissimo, aiutata da qualche energico scapaccione. Portava sempre un grembiule nero lucido, con il colletto bianco. Nelle solennità civili in­dossava la divisa femminile imposta dal regime. L’adesione all’ideologia imperante era in gran parte di facciata. I fascisti autentici, a Mirandola, non erano più di una cinquantina. La documentazione fotografica è inoppugnabile.

La sorella di mio padre, Maria, era maestra a Mortizzuolo con il marito Gino, maestro pure lui. Una sistemazione invi­diabile: due stipendi e appartamento all’ultimo piano della scuola, più gli omaggi dei contadini. Anche mio zio Gino vestiva l’uniforme fascista nelle solennità del regime. Una volta era a Mirandola in divisa, in casa della zia Pia. Arrivò un pacco postale, chiuso da una robusta funicella di canapa. Lo zio estrasse il pugnale per tagliare lo spago. Provò più volte con energia, senza successo. Imprecò contro il regime, il pugnale non affilato, facendo un paragone caustico tra il fasci­smo e l’inefficienza della lama. Io restai impressionato, perché il manico del pugnale terminava alla sommità con una testa d’aquila dallo sguardo inutilmente truce. Era un tipo abbastan­za brusco il maestro. Quando il bimbo Benito Poltronieri con­seguì lodevolmente il diploma di quinta, glielo porse dicendo: “Ciàpa, par guarnàr dal vàchi at sa anch ad tròpi”.

Alcuni di noi erano molto bravi e buoni. Ricordo Ago­stino Galavotti, andato missionario in Eritrea. Anch’io ero molto bravo, ma un po’ chiacchierone. La maestra lo disse a mia madre, ammettendo d’avermi punito anche con una scopola. Mia mamma, in sovrappiù, mi diede una sberla di fronte a tutti dicendomi “Acsè t’impàr!”. Sentivo l’orecchio surriscaldato. Non c’era dissidio tra docenti e famiglia. Altri tempi. Non mi risulta che sberle e scapaccioni mi abbiano causato complessi. Il permissivismo non era ancora stato teorizzato e il depotenziamento dell’autorità dei docenti non era immaginabile. I rapporti tra adulti e bambini non erano di amicizia e di complicità. Ruoli chiari: gli adulti erano adulti e i bambini, bambini. Il maestro era l’adulto che sapeva, lo scolaro il bambino che doveva imparare, poche storie!

I miei voti, molto buoni, non erano sempre eccezionali, perché la maestra era sorella di mia zia Celestina, moglie di Valmiro, fratello di mio padre, e non voleva che si sospettas­sero preferenze nei miei riguardi. Da lei iniziai ad apprende­re l’amore per la scrittura. Una volta in un pensierino scrissi “scattola”. Vissi la correzione fulminea con la matita rossa come un’onta vergognosa. Un’altra volta ci lesse una “crona­ca” (la didattica del tempo vietava – chissà perché – la parola “tema”) di suo figlio Lino sugli animali, nella quale scriveva delle poppe gonfie di latte di una capretta. Così imparai che, in italiano, si chiamano “poppe”. Facevo i compiti subito dopo aver mangiato, perché avevo ancora in mente “quél che a t’a dit la mìstra”, ripeteva mia madre. Ero un lettore instancabile dei libri forniti dalla biblioteca scolastica. Divoravo un roman­zo di Salgari in due pomeriggi. Vivevo in un mondo fantasti­co, popolato di tigri, corsari, vascelli, foreste. Quando venne l’ispettore, con don Cesare Boccafoli di San Martino Cara- no, per indagare sull’insegnamento della religione, la maestra chiamò me per raccontare la resurrezione di Lazzaro. Me la cavai bene, terminando col dire che Lazzaro uscì dalla tomba tutto fasciato, come era in uso presso gli ebrei. L’espressione “come era in uso presso”, scritta sul “sussidiario”, per me era misteriosa, non sapevo proprio cosa significasse, ma fece ef­fetto. Don Cesare disse all’ispettore: “Andiamo, andiamo, qui la religione la insegnano bene”. La maestra mi premiò con il biglietto di lode grande, che valeva dieci di quelli piccoli.

I primi due o tre anni delle scuole elementari li ricordo come gli anni delle canzoni. Non so come il regime riuscisse a indottrinare noi fanciulli delle scuole elementari, ma ricor­do benissimo certi testi, un po’ insolenti un po’ beceri, delle canzoni popolari che furoreggiavano tra noi bambini:

Osteria dei tre moschetti
in Italia siamo stretti
allungheremo lo stivale
sino all’Africa Orientale.

Oppure altre dal testo che sottintendeva un fanatismo idiota:

Con i baffi del Negus
faremo spazzolini
per lucidar le scarpe
di Benito Mussolini.

Naturalmente queste canzoni non le apprendevamo dal­la maestra Berni che, tuttavia, infervorata dal discorso del duce che annunciava “la rinascita dell’impero sui colli fatali di Roma”, ci aveva insegnato l’inno:

Sole che sorgi libero e giocondo
sui sette colli i tuoi cavalli doma.
tu non vedrai nessuna cosa al mondo
maggior di Roma, maggior di Roma!

Il mal di denti era ritenuto ineluttabile. Quando non se ne poteva più, si andava dal dentista, il dottor Maggi, a estirpare il dente ormai devastato dalla carie. Molti bambini ne sof­frivano, tra i quali anch’io. La prevenzione, il controllo dei denti, la cura tempestiva dei primi segni di carie, erano cose impensabili e impossibili.

Tratto da: Via Montanari e dintorni – Ricordi di un Mirandolese invecchiato in esilio

Autore: Remo Rinaldi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *