Remo Rinaldi – L’Asilo, la conquista dell’Impero, i Leoni

Commenti (0) Racconti

L'immagine è stata gentilmente concessa da Roberto Neri

Piazza Costituente 0007web

Remo Rinaldi – L’Asilo, la conquista dell’Impero, i Leoni

La domenica si faceva sempre lo struscio sul listone della piazza Grande. A proposito del listone udii dai grandi un rac­conto molto irriverente, una pasquinata mirandolese. L’Am­ministrazione comunale aveva fatto porre all’estremità del listone, appena terminato, in fondo alla piazza, una marmetta con il fascio in rilievo. Una notte, l’emblema venne profanato e una scritta accanto spiegava: “Qui la faccio e qui la lascio, mezza al duce e mezza al fascio”. Per non correre altri rischi, il podestà fece togliere il simbolo. Ma dopo parecchio tempo, quando tutto pareva dimenticato, nello stesso luogo, accanto al corpo del reato si lesse: “Qui la faccio e qui la lascio, tutta al duce e niente al fascio”. A me sembrò una cosa grave, an­che perché udii raccontare il misfatto sottovoce, con risolini strozzati, con strane rotazioni degli occhi all’intorno. In ogni caso, è l’unico indizio di antifascismo, negli anni Trenta, di cui serbo memoria.

Dunque, si passeggiava sul listone su e giù parecchie vol­te. La gente mangiava i semi di zucca abbrustoliti e salati venduti da Snàr (Gennaro), claudicante ma instancabile. Durante la stagione calda, dietro la chiesa della Madonnina, al di là dell’angolo di viale Circonvallazione con viale Martiri, c’era la baracchina delle granite, con i tavolini all’aperto. La suprema felicità di noi bimbi era la granita con lo sciroppo di lampone. Sul terreno a fianco del chiosco, ultimo segno della potenza mirandolese, s’allungava verso la stazione delle fer­rovie provinciali un breve tratto del fossato che circondava le mura della Mirandola, che in seguito sarà interrato. Incon­trata sulla piazza, l’Ermelìnda ad Bacarèn faceva i compli­menti a mia madre perché eravamo sempre ordinati e puliti, perché mio fratello era un bel bambino, con i capelli lunghi riccioluti. Di me diceva solo che avevo du bèi uciòn.

Per avere lavoro, allora, ci si doveva iscrivere al fascio, sennò con che si manteneva la famiglia? Mio padre Celo, venne assunto dalla fonderia Focherini, in fondo alla via. I ricordi sono scarsi. Riguardano un pollo arrosto e una ba­nana. Erano venuti a trovarci gli zii di Merano, andati là per via dell’italianizzazione culturale forzata dell’Alto Adige voluta da Mussolini. I miei cugini Livio e Sauro portavano calzettoni bianchi alla tirolese in maglia di cotone lavorata. I bimbi di Mirandola li guardavano divertiti, come fosse una stramberia. Io e mio fratello Paolo ci sentivamo superiori e ricambiavamo con un’occhiata altezzosa. Nel pomeriggio mia madre Santina preparò un infuso di karkadé, importato dall’Africa in sostituzione del the, il cui commercio era mo­nopolizzato dagli inglesi e, alla sera, un pollo arrosto. Una cosa molto straordinaria, mai mangiata prima.

L’anno dopo, andammo ad abitare nella casa accanto, già acquistata da mia nonna, contrassegnata dall’attuale numero civico 50 della via Montanari. Nella casa abitavano: al pri­mo piano mia nonna con la figlia nubile Rina, la magliaia; al secondo piano, mio padre Riziero, detto Celo, mia madre Santina, io e mio fratello Paolo; al piano terreno: mia zia Pia col marito Biagio e i figli Mario, Maria, Marino, che avevano la stanza da letto al secondo piano, separata da noi dal piane­rottolo della scala.

D’estate, qualche volta, un tuono lontano preannunciava il temporale. La zia Pia si affrettava a porre il mastello sotto il tubo che scendeva dalle grondaie, per raccogliere l’acqua piovana ottima per il bucato. Seguivano scoppi di tuono as­sordante. L ’è al diàvul in caròsa, diceva mia madre. Il cielo era in breve coperto da nuvoloni neri, orlati di bianco spor­co. Le foglie degli alberi fremevano inquiete. Era il segnale della grandine. La timpèsta rendeva inquieta mia madre, per i danni che arrecava in campagna. Posava sul pavimento del terrazzino al sampinèn e la muiéta in forma di croce. Bru­ciava qualche foglia dell’ulivo benedetto. Si chiudevano le imposte di legno e si aspettava che passasse. Ondate di vento portavano raffiche rabbiose di grandine a rimbalzare sulle te­gole. Non durava molto. In un angolo del cortile si ammuc­chiavano chicchi di ghiaccio grigio macchiati di bianco al centro. Il fogliame degli alberi nell’orto di Brani e di Ferra­resi era rovinato. Giorni dopo, cercavamo negli angoli umidi in fondo al cortile qualche lumaca. La spostavamo al sole e cantavamo la filastrocca:

Lumàga, lumaghèn

Tira fóra i tri curnèn

Un par mè, un par tè

Un par la vècia ad san Martèn

Tratto da: Via Montanari e dintorni – Ricordi di un Mirandolese invecchiato in esilio

Autore: Remo Rinaldi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *