Remo Rinaldi – Nei Favolosi Anni Trenta

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NEI FAVOLOSI ANNI TRENTA

Mio padre, conosciuto come Célo, abitava in via Monta­nari sin dagli anni Venti del secolo scorso.

Era un ragazzo fin troppo vivace, cresciuto senza papà e con una mamma – Anna Franchini – paziente all’inverosimile, che aveva pian­tato il marito, ubriacone, portandosi dietro una squadra di otto figli tra maschi e femmine. L’ultima era ancora in fasce e mio padre – il penultimo – di un anno e un po’ di mesi. Quindi nel 1909-1910. S

Si stabilì a San Giacomo Roncole, non lontano dalla chiesa parrocchiale, sulla strada statale. Il lettino di papà era il grande cassetto della madia: la spartóra. Si dormiva come si poteva, allora: i giovani scapoli dormi­vano spesso nel fienile; molti giovani sposi si trastullavano dormendo su un letto formato da due cavalletti, alcune assi sovrapposte sulle quali stava un saccone ripieno di foglie di pannocchia – i scartòss. Sul retro delle case, dai davanzali del primo piano colavano le tracce dell’abitudine contadina di svuotare i vasi da notte lanciandone il contenuto dalle fi­nestre. Il vaso da notte era un attrezzo indispensabile della vita di allora. La gente, specie i bambini, quando era freddo o pioveva, mica potevano scendere nella latrina a piano terra.

I vasi da notte erano recipienti tanto utili che, sovente, un bel paio, bianchi, orlati di azzurro, venivano regalati ai neosposi come dono di nozze. Non c’è niente da ridere, è una cosa seria, certificata dal cantastorie Taiadèla, che in certi sabati rallegrava la gente del mercato, raccontando che una volta il pignattaio (al pgnatàr) s’era sentito chiedere un paio di vasi con l’orlo dorato, perché dovevano intonarsi al servizio dei piatti.

Il fratello maggiore di mio padre, Valmiro, era un giovane di carattere scherzoso, che faceva anche un po’ da capofami­glia. Tornato dal lavoro, una sera distribuiva la pietanza nei piatti dei fratelli: cotiche di maiale in umido. Per scherzare, fingeva di distribuire pezzi di pollo. “A te una coscia”, diceva a una sorella, “a te l’altra”. “A te un’ala e a te l’altra”. “A te al magòn e alfégat”. Mio padre, dopo aver un po’ rovistato nell’intingolo, cominciò a piangere: “A me al ma da sól na códga!”. Era ancora un fanciullino. Mi raccontava che sua madre, cosa da non credere, aveva la sveglia, e venivano i ragazzini di San Giacomo a dire: “L’ha dit me màdar, par piasér, che ora l’è”, poi ritornando si fermavano caso mai a giocare e, giunti a casa, ripetevano l’ora detta da mia nonna.

Da ragazzo, invece, mio padre era uno scavezzacollo, le­sto di gambe, rubava frutta e uva nei campi. Una sola volta gli andò buca e si buscò una cinghiata da un contadino. Si vendicò attirandolo su un terreno favorevole, per colpirlo più volte con pezzi secchi, durissimi (i lòt) della nostra terra argillosa raccattati correndo. Le birbonate le faceva da solo perché, se fatte in compagnia, – mi confidava quando ero già grande -, si viene a sapere, presto o tardi, chi le ha combinate.

Giovanotto, per le donne era il classico tipo dell’adorabile mascalzone in chiave rusticana: non gli resistevano. Quando fu sorpreso in intimità con la figlia, in un fienile, il padre di lei, impossibilitato ad acciuffarlo, perché il seduttore si assi­curava sempre una via di fuga, gli scagliò contro il martello per battere la falce fienaia, lo colpì alla fronte. Gli restò per sempre una piccola cicatrice. Una giovane vedova si inna­morò perdutamente di lui, cercò di allettarlo offrendogli la sua proprietà, ma lui non ne volle sapere, non gli piaceva. La donna si uccise. Mio padre non ne voleva parlare, troncava subito l’argomento, diceva che era una squilibrata.

Una notte d’estate, passando a fianco della casa di tolle­ranza, in via delle Mura, stizzito dalla bolletta che gli impe­diva di entrare, infilò la cicca accesa nella tenda annodata che pendeva fuori della finestra a piano terra. La tenda andò a fuoco. Nella sala d’attesa c’erano alcuni fascisti. Uscirono a inseguire un giovane che correva. Era notte, l’illuminazione elettrica inesistente. Mio padre conosceva bene il luogo, si diresse al campo sportivo, allora recintato da rete metallica con filo spinato. Con un balzo e un salto a pesce scavalcò il recinto e si salvò nei campi. I fascisti si ferirono urtan­do contro la recinzione. Erano infuriati, fecero indagini, non vennero a capo di nulla. La tenutaria della casa, la signora Ines, venne a sapere chi era stato, lo conosceva, lo aveva in simpatia, non lo tradì mai. La signora esibiva il giornalino di don Zeno: Piccoli Apostoli, nella sala d’attesa, perché i clienti lo leggessero. Un giorno, con le sue ragazze vestite decorosamente, andò, con carrozza e cavallo, a San Giacomo Roncole, per consegnare una somma di denaro per i ragazzi sventurati di don Zeno. Il quale aveva organizzato, con l’au­silio di sua sorella Nina, gli esercizi spirituali per le meretri­ci di Carpi, trasportandole con la sua auto. Passando per la piazza, uno gridò: “Don Zeno, non convertirle tutte!”.

Tratto da: Via MONTANARI e DINTORNI – Ricordi di un mirandolese invecchiato in esilio.

Autore: Remo Rinaldi

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