Mirandola negli anni 50 – Una speranza chiamata Sabbioncello – Lo spopolamento delle campagne. Cap.I°

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Una speranza chiamata Sabbioncello

All’inizio degli anni Cinquanta la situazione non è granché migliorata rispetto all’immediato dopoguerra. La disoccupazione bracciantile raggiunge punte del 20% sul totale degli attivi, creando grande apprensione nelle autorità. Nel 1952, di fronte ad una folta platea di tecnici, amministratori e cittadini, riuniti sul problema dell’irrigazione, il sindaco Oreste Gelmini sottolinea come la mancan­za di lavoro provochi «inevitabilmente un abbassamento del tenore di vita generale e un’accentuata miseria per le categorie più povere e disagiate, le quali sono costrette a ricorrere in misura sempre più grande alla pubblica assistenza».

In quell’anno un mirandolese su quattro è a carico del Comune o dell’Ente Comunale di Assi­stenza (ECA), che «si trovano spesso in difficoltà di fronte alle tante giustificate richieste di aiuto che vengono inoltrate dai poveri e dagli indigenti». Altrettanto sfavorevole è la situazione abitativa. Se­condo Gelmini mancano un migliaio di alloggi per dare «una sistemazione civile a tutti i cittadini». Vi è poi il problema del rifornimento idrico per l’alimentazione di uomini e animali. L’acqua che si può attingere dalle falde «attraverso i normali pozzi è praticamente imbevibile, quand’anche non sia inquinata da germi di malattie infettive.

Infatti laddove l’acquedotto non è ancora arrivato a portare acqua potabile», come a Mirandola, che attende l’ultimazione dell’opera da una ventina d’anni, «si manifestano, specialmente nei mesi estivi, focolai di tifo». La situazione di «regresso e di miseria progressiva» in cui vive Mirandola, causata anche dall’assenza di un moderno sistema di irrigazione dei campi, colpisce tutte le categorie. Come osserva Gelmini:

«Se noi facessimo il calcolo del danno che una azienda agricola subisce negli anni di siccità […], noi vedremmo come le categorie che concorrono alla produzione agricola quali i braccianti, mezzadri, fittavoli, proprietari piccoli e medi, siano impoverite in modo notevole e progressivo, con conseguenze negative che si ripercuotono sui cicli produttivi futuri e sull’economia in generale. Anche i grandi proprietari subiscono perdite notevoli di profitti che potrebbero utilmente servire per incrementare e migliorare la produzione, con beneficio per loro e per tutta la popolazione. […]

Il diminuito potere d’acquisto di tante categorie legate direttamente alla produzione agricola, ha sensibilmente diminuito [anche] il volume di affari dei commercianti, ha provocato crisi fra gli artigiani, ha messo in difficoltà i bottegai e le cooperative di consumo, che sono costretti a concedere crediti notevoli ai clienti aggravando i loro bilanci, quando non venga addirittura minacciata la loro stabilità economica».

È da considerazioni come queste che prende forza l’idea di far arrivare le acque del canale Sabbioncello a tutte le terre del comprensorio di pianura del Consorzio di Burana. Sulla costruzione dell’impianto di sollevamento, progettato dall’ingegner Carlo Alberto Baroni nel 1949 e attivato nel 1958, si appuntano tante speranze. «Con il compimento di questa opera, che potenzierà e trasfor­merà la nostra agricoltura», sottolinea con ottimismo il sindaco Gelmini nel 1952, «noi vedremo la progressiva scomparsa della disoccupazione e della miseria, nuovi e più abbondanti prodotti creeranno nuove fonti di lavoro, nuove fonti di ricchezza, nuove correnti di scambio: permetteranno il sorgere di nuove industrie di lavorazione e trasformazione dei raccolti».

Lo spopolamento delle campagne

La situazione di debolezza in cui versa l’economia mirandolese è ben rappresentata dall’an­damento della popolazione. Tra il 1951 ed il 1961 i residenti calano drasticamente, passando da 24.325 a 22.528 (-1.797), per una riduzione pari al 7,4%. L’emorragia di abitanti si verifica mentre la provincia modenese, nel suo complesso, aumenta di 13.209 unità (+2,7%). Il saldo naturale (nati meno morti) è positivo, ma è la differenza tra emigrati ed immigrati a determinare il calo complessivo. Prendendo ad esempio l’anno 1960, i nati vivi risultano 358 e i morti 211 (con un saldo quindi di +147 residenti), ma gli immigrati sono 965 e gli emigrati ben 1,433 (-468). La popolazione, in quell’anno, cala dunque di ben 321 unità.

Lo spopolamento riguarda soprattutto le campagne, che nel corso di 10 anni perdono gran parte degli addetti. Nel 1951 nel settore primario lavora il 62% della popolazione attiva, mentre dieci anni dopo il dato scende al 45%. La manodopera che se ne va dalle campagne non riesce ad essere assorbita dall’industria e dal terziario, ancora relativamente deboli e la popolazione è così costretta a cercare opportunità di lavoro fuori dal Comune, l’esodo verso le fabbriche delle città del “triangolo industriale” si fa intenso e così pure l’emigrazione temporanea per le risaie piemontesi (al punto che il Comune è costretto ad aprire un asilo per i figli delle mondariso). Riprendono con vigore anche le partenze per l’estero: Francia, Belgio e Germania, soprattutto.  

L’esodo dalle campagne determina anche il declino della famiglia “estesa”: nonostante il calo della popolazione, le famiglie aumentano di numero (da 5.495 nel 1951 a 6.078 nel 1961 ) ma dimi­nuisce la loro consistenza (da 4,4 persone a nucleo si passa a 3,7). Scompaiono progressivamente le “piantate e i doppi filari” con le viti. Pioppi, olmi e aceri campestri che facevano da sosteqno alle viti, vengono inesorabilmente tagliati, lasciando “nuda” la campagna. Chiudono cantine e ca­seifici, mentre le piccole stalle cominciano a vuotarsi.

Un altro effetto delle trasformazioni agricole è la scomparsa della piccola proprietà a favore di aziende di maggiori dimensioni, nelle quali prosegue il modello produttivo che coniuga coltivazione ed allevamento. I capi di bestiame, a riprova di ciò, non conoscono un sensibile calo, se si eccet­tuano gli equini. Mirandola, anche per le difficoltà di collegamento col capoluogo provinciale, in un epoca in cui ha ormai preso sempre più piede il trasporto su gomma, perde tuttavia il mercato bestiame, che aveva assunto una grande importanza, anche al di fuori dei confini provinciali.

Nelle zone vallive si impongono sempre di più le coltivazioni ortofrutticole, soprattutto barbabie­tole, piselli, pomodori, cocomeri e meloni. Ciò determinerà la crescita di importanti industrie agro­alimentari quali lo Zuccherificio, I’Aiproco di San Martino Spino e la Mon Jardin Italiana, emanazione di un azienda belga che nel 1959 crea due moderni stabilimenti a Mirandola e Medol’la. La Mon Jardin, che tratta legumi, verdure, frutta sciroppata, pelati e concentrato di pomodoro rappresenta l’ evoluzione delle attività di trasformazione del prodotto agricolo presenti già dall’inizio del secolo a Mirandola. Alla fine degli anni Sessanta gli addetti nei due stabilimenti Mon Jardin della Bassa sono 175, ma d’estate si arriva anche ai 600. L’organizzazione della produzione è a ciclo completo dall’invio nelle campagne di operai specializzati per la semina e l’assistenza tecnica fino al confe­zionamento del prodotto, pronto per essere immesso sul mercato coi marchi “Mirandolina” “Mon Jardin”, “Marie Thumas” e ‘Le Soleil”.

L’immediato dopoguerra è anche un periodo di grande sviluppo per la forma di lavoro coope­rativa. Nel giugno 1948 nasce a San Martino Spino la Cooperativa “Odoardo Focherini”, ad opera d’un gruppo di lavoratori aderenti al sindacato cattolico. Nei successivi sei anni il numero dei soci aumenta fino a toccare quota 150, ma il lavoro scarseggia, la svolta avviene nell’agosto del 1954, quando la Cooperativa raggiunge quello che da sempre era il suo obiettivo primario: l’acquisizione dei 600 ettari demaniali della tenuta del Centro Quadrupedi, dove l’esercito aveva insediato da tem­po l’allevamento di cavalli e muli. Tra il 1949 ed il 1951 si costituiscono poi a Mirandola altre due cooperative di ispirazione cristiana: la Parva Domus e la Cooperativa di lavoro e agricola “La Fenice”.

 Di particolare importanza, nel settore cooperativo, è anche la già citata Aiproco (Associazione Inter­provinciale Produttori Cocomeri ed Ortofrutticoli), che nasce nel 1964 quando dieci produttori d cocomeri decidono di autogestire la commercializzazione del frutto del loro lavoro, svincolandosi in tal modo da un mercato privato ormai in mano a grossisti che impongono i prezzi, la prima sede è situata in un piccolo locale ma la crescita esponenziale della base sociale (700 produttori nel 1971 ) porta alla costruzione di una nuova sede, che inizia a funzionare nel 1974.

Da segnalare, sempre nel settore alimentare, l’affermazione della ditta Gorfer. Rilevato nel 1955 lo stabilimento, che all’epoca si trovava in viale Gramsci e funzionava come distilleria, Giuseppe Miotto si trasferisce dieci anni dopo in una sede più ampia, dedicandosi alla produzione di liquori, in particolare di prugna, dotandosi di una robusta struttura produttiva e commerciale.

Fabio Montella

Tratto da: Un secolo di imprese – 100 Anni di attività economica a Mirandola attraverso i documenti.

Edito da: Comune di Mirandola e Centro Studi Numismatici e Filatelici di Mirandola.

Anno 2013

One Response to Mirandola negli anni 50 – Una speranza chiamata Sabbioncello – Lo spopolamento delle campagne. Cap.I°

  1. enrico says:

    molto interessante. Una istantanea di grande attualità nei suoi elementi essenziali… il rapporto tra lavoro, uso del territorio e delle sue risorse, capacità di superare il mercato con la cooperazione e qualità di vita e salute che ne discende… grazie ragazzi, grazie Fabio Montella.

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