La Befana – “La Veccia”

Commenti (0) Racconti

La notte fra il 5 e il 6 gennaio era interamente riservata alla tra­dizione della Befana: era, ed è ancora, la festività religiosa dell’Epi­fania, una delle non molte feste sopravvissuta (dopo qualche peri­pezia) all’ondata della modernità. Anzi, quel fenomeno che viene chiamato consumismo ha reso ancora più importante la festa della Befana regalando ai bambini tonnellate di giocattoli più o meno utili; e la ricorrenza è stata allargata anche agli adulti che si vedo­no arrivare da amici e parenti ondate di capi d’abbigliamento, per­fino gioielli e pellicce. Facendo arrossire la povera Befana che no­toriamente non dispone di un guardaroba molto fornito.

Ma da dove arriva la festa della Befana? In modo molto sintetico possiamo dire che la ricorrenza dell’Epifania (parola greca che si­gnifica “apparizione”), nella tradizione religiosa cattolica, celebra il riconoscimento e l’adorazione del neonato Bambino Gesù da parte dei mitici tre Re Magi recanti in omaggio oro, incenso e mirra. I Magi, almeno secondo una tradizione più recente rispetto alle Sa­cre Scritture, sarebbero giunti fino a Betlemme da un imprecisato Oriente, guidati da una nuova lucente e splendente stella cometa. Però suona strano che in alcuni paesi stranieri la vecchia Befana sia ancora oggi rappresentata con un fantoccio da esporre alle fi­nestre della casa.

Nella nostra “Bassa” questa Befana è sempre stata denominata “La veccia”, ossia la “Vecchia”, unica portatrice di regali ai bambini buoni, mentre Babbo Natale (o Papà Natale) non era affatto cono­sciuto, ma giunse dalle nostre parti assieme al più profano albero natalizio, che fino all’ultimo dopoguerra non era mai arrivato dalle nostre parti.

Stranamente, però, la “Vecchia” aveva la possibilità di portare le sue modeste calze solo ai bambini che vivevano nel Modenese e nel Mirandolese e dintorni, perché, poco più a nord, nel Mantova­no, i regalini li portava Santa Lucia, così come avveniva alla sini­stra del fiume Secchia, cioè nel Carpigiano. Nella “Bassa” vera e propria, Santa Lucia era soltanto la protettrice contro i mali della vista.

I regali per i bambini buoni, dunque, li portava solo la “Vec­chia” che ovviamente arrivava di notte, con le scarpe tutte rotte, non sempre vestita alla moda. Il suo unico mezzo di trasporto era una bella scopa e questo dettaglio, in un certo senso, faceva asso­migliare la befana alle streghe che, come è noto, percorrevano le vie del cielo, allora libere da satelliti e aerei, a cavallo di una robu­sta scopa, nota in dialetto con i nomi di “granata” oppure “massarina”, oppure ancora “granadell”.

Un tempo, comunque, i regali che la Befana portava di notte ai bambini buoni e anche a quelli un po’ più vivaci erano abbastanza modesti: la vecchia calza che ogni bambino appendeva con cura al camino prima di andare a letto, durante la notte, per effetto di una secolare magia di cui il beneficiario non doveva rendersi conto, veniva riempita con regali assai meno importanti di quelli che i ra­gazzi ricevono oggi: c’era infatti nella calza qualche mandarino, un’arancia, un pugno di castagne secche, alcuni fichi secchi e an­che qualche carruba, uno strano frutto a forma di baccello, origi­nario dell’Italia del Sud, che in genere era destinato all’alimentazio­ne dei cavalli e dei somari. La stranezza di questo frutto stava nel fatto che le carrube, in dialetto assumevano i nomi più diversi: a Mirandola si chiamavano “carabattole”, a San Possidonio “caratule”, a Cavezzo, chissà perché, “scornecchie veneziane”, pur essen­do originarie dell’Italia meridionale.

Nelle calze poteva arrivare anche un pugno di caramelle, ma anche qualche pezzetto di carbone, ma era carbone vero, non quel carbone dolce che adesso viene messo scherzosamente nelle calze.

Come si è accennato più sopra, la tradizione della Befana è arri­vata fino ai giorni nostri in modo trionfale, perché forse è l’unica tradizione che si è salvata, anche se oggi ha assunto un carattere veramente consumistico. Tanto è vero che in quasi tutti i paesi del­la “Bassa”, nella giornata del 5 gennaio, vengono allestite bancarel­le piene di giocattoli e dolciumi. Il bello è che la maggior parte dei giocattoli, specie quelli di minor costo, in ossequio alla tradizione, provengono da Hong Kong, dalla Corea o dalla Cina, mirabile esempio di globalizzazione.

Una cosa, tuttavia, certamente non è cambiata, nel corso dei de­cenni: la speranza nell’attesa e la gioia dei bambini nel ricevere i regali della Befana. Specialmente i bimbi più piccoli manifestano un entusiasmo e un’eccitazione quasi febbrili. Almeno fino quan­do non cominciano ad andare a scuola, perché là trovano sempre un compagno più grande che afferma con sicurezza che la Befana non esiste, che la Befana sono i genitori e i nonni. Tuttavia il dub­bio resta: d’altra parte chi può giurare che la “Vecchia” non esiste? È tanto poetico crederci.

Per chiudere con la festività della Befana, è doveroso aggiunge­re che un tempo, nelle nostre campagne, c’era l’abitudine, vera­mente singolare, di percuotere con dei lunghi bastoni le piante da frutto: era il modo per stimolare le piante a produrre di più nel­l’annata che stava per cominciare. Nella “Bassa” c’era anche l’abi­tudine per “Pasquetta” (come si chiamava di solito l’Epifania) di dare alle galline delle fave da mangiare, una pratica che le rende­va più prolifiche nella produzione delle uova.

Ma per completare veramente il discorso sulla festività della Be­fana (o della “Vecchia” o di “Pasquetta”) si potrebbe fare una bre­ve escursione sul terreno impervio della meteorologia: perché nel­le nostre campagne si pensava che il giorno più corto dell’anno, cioè quello con il minor numero di ore di luce, fosse il 15 dicem­bre, giorno di Santa Lucia. È invece vero che il giorno più breve è quello del 22 dicembre, giorno in cui cade il solstizio d’inverno, e più avanti vedremo il motivo di questa credenza antica. Ma i vec­chi di un tempo erano convinti che a partire da Santa Lucia le ore del giorno cominciassero ad aumentare e nel solco di questa tradi­zione una vecchia filastrocca suggeriva che le ore di luce poco per volta si allungassero in questo modo: “Par Santa Lucia un pè da stria (cioè lo spazio minimo equivalente al piede di una strega), par Nadal un pè ad gali (un piede di gallo), par Pasquetta un’oretta (cioè un’ora scarsa), par Sant’Antoni un’ora tonda”.

Tratto da: Antiche tradizioni mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *