Tradizioni di Aprile nella Bassa

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Carabattola

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Secondo le antiche tradizioni di origine agricola, i primi giorni di aprile erano da considerarsi determinanti per conoscere bene le future condizioni atmosferiche per tutta la primavera da poco ini­ziata. Particolare attenzione era rivolta al 4 di aprile, poiché si rite­neva che il tempo che interessava questo giorno si sarebbe ripetu­to per altri quaranta giorni. Ma la maggiore attenzione era sempre rivolta al ciclo lunare che, come si è detto, è strettamente legato al­le ricorrenze che precedono e seguono la Pasqua.

Nella domenica delle Palme, in tutte le chiese si distribuivano un tempo ai fedeli (ma questo avviene ancora) le cosiddette “Pal­me”, cioè ramoscelli di ulivo che andavano gelosamente conserva­ti in casa per proteggere la casa stessa e la campagna circostante dalle avversità, soprattutto da quelle meteorologiche: la minaccia di qualche grosso temporale era sempre preceduta dall’esposizio­ne sulla porta di casa di due ramoscelli di ulivo benedetto a forma di croce. Ma in questo caso, anche le campane delle chiese batte­vano lenti rintocchi quando il cielo diventava livido e la minaccia del temporale si faceva più ravvicinata. Adesso tutto è reso più facile, si fa per dire, dai cosiddetti cannoni anti-grandine che appena vedono una nuvoletta grande come un francobollo cominciano a trasformare tutto in una specie di Vietnam.

A partire dal Giovedì Santo fino al sabato successivo le campa­ne delle chiese e dei conventi venivano “legate” e i crocefissi vela­ti di viola, rito che avviene ancora oggi. Ma la stranezza dei tempi antichi stava nel fatto che, mentre le campane restavano mute, i sacrestani e i chierici segnalavano l’inizio e la fine delle cerimonie religiose con uno stranissimo strumento assai rumoroso, che a Mi­randola, ad esempio, si chiama “carabattola”, ma che può anche assumere nomi diversi. Pochissime persone sanno che questo stru­mento, in italiano, si chiama “bàttola”.

Ma quando le campane restavano mute, in campagna si lavora­va ugualmente: uno dei riti, si fa per dire, più celebri era quello della “legatura” degli alberi, che nulla ha a che vedere con gli in­nesti: è vero il fatto che i contadini, spesso accompagnati dai figli più piccoli, si recavano in campagna muniti di cordicelle fatte con rametti verdi intrecciati con cui legare strettamente (ma non trop­po) il tronco delle piante da frutto. Questa operazione, a giudizio dei contadini, era in grado di garantire un’abbondante produzione di frutta, che allora era tutta biologica, come si usa dire adesso.

Secondo alcuni esperti di frutticoltura, la spiegazione di questa curiosa usanza, ormai del tutto scomparsa, sembra da attribuirsi ad una certa assonanza fra i verbi “legare” e “allegare”, dove allegare sta a significare la fase in cui l’ovario del fiore già fecondato si tra­sforma in un minuscolo frutto, che poi crescerà. È infatti noto che le piante da frutto, durante il periodo solitamente interessato dalla Settimana Santa, sono spesso in fioritura, specie le piante cosiddet­te pomacee, come le mele e le pere.

A proposito di pere, la crescente diffusione di questo eccellente frutto ha il quasi magico potere di trasformare il paesaggio della “Bassa”, non sempre poetico, durante il mese di aprile. Infatti, se a Vignola risplende la fioritura, peraltro molto bella, dei ciliegi, an­che la “Bassa” sembra avvolta, nello stesso periodo, da una sorta di nuvola bianca per merito della stupenda fioritura dei peri.

    E anche sulla coltivazione della frutta sarebbe forse importante aprire un piccolo discorso su come sono cambiate le cose in que­sti ultimi decenni: mentre un tempo (parliamo del periodo che va dall’Ottocento fino all’ultima guerra mondiale) la “Bassa” era nota per la sua caratteristica produzione di mele “campanine”, per qual­che raro pereto e per la coltivazione delle mele renette e delle me­le cotogne, oggi tutto il panorama della frutticoltura è cambiato. Dopo l’ultima guerra, quando il motto nazionale era “ricostruire”, grazie in particolare alle iniziative dei cosiddetti “tedeschi”, che erano poi bravissimi imprenditori agricoli dell’Alto Adige e della Val di Non, venne il momento delle “nuove” mele e si cominciò ad impiantare frutteti di mele dai nomi forestieri, come le Delicious, le Golden, le Granny Smith e così via.

Sembrava una sorta di “rivoluzione culturale” per la frutta, poi con il passare degli anni, ci si accorse che la terra della “Bassa” (parliamo soprattutto di quella più vicina alla riva destra del fiume Secchia) non era molto vocata per le mele e si passò alla più for­tunata e redditizia coltivazione delle pere, che non erano le vec­chie “butirre” di un tempo, ma le nuove varietà dai nomi esotici, come le Abate Fetel, le Kaiser, la Decana del Comizio, le Williams e via dicendo.

Anche in questo settore le vecchie tradizioni sono andate per­dute, in nome del progresso. Ma è vero che oggi le pere prodotte in alcuni comuni della “Bassa” sono fra le migliori del mondo.

Tornando alla “legatura” delle piante da frutto, qualcuno soste­neva che questa operazione era in qualche modo legata alla vo­lontà di fissare i frutticini appena nati alle piante; altri ancora, ver­so la metà dell’Ottocento, vollero azzardare la teoria che la legatu­ra del tronco rallentasse un po’ la risalita della linfa lungo il tron­co, impedendo così la naturale “cascola” dei piccoli frutti.

Ed ecco un’altra tradizione diventata quasi leggenda: essa si ri­ferisce al cosiddetto “nido del cuculo”, fissato da secoli intorno all’8 aprile e comunque ai giorni prossimi alla Domenica delle Pal­me: erano questi i giorni in cui di solito tornava dalle migrazioni il cuculo, un piccolo uccello dal verso inconfondibile, chiamato an­che nelle nostre campagne semplicemente “cucù”. Il cuculo, secondo la leggenda, faceva ritorno proprio quando tutti gli altri uc­celli avevano già completato il loro nido. Così, se il cuculo arriva­va entro questa data, era chiaro segno che la stagione stava vol­gendo al bello, altrimenti il “meteo” contadino non poteva che prevedere pioggia a catinelle.

D’altra parte quella specie di correlazione fra la Domenica delle Palme e la nidificazione degli uccelli si spiega col fatto che la festi­vità delle Palme, precedendo di una settimana la Pasqua, anticipa sempre di qualche giorno il primo plenilunio dopo l’equinozio di primavera, periodo durante il quale gli uccelli, praticamente tele­guidati dalla luna, decidono di mettere su casa.

Lo stesso Venerdì Santo, sempre secondo le antiche tradizioni contadine, che in fondo sfociavano spesso nella superstizione, era un tipico giorno dedicato alle seminagioni: con la luminosa compli­cità del plenilunio, tutto quello che veniva seminato in quel giorno, soprattutto ortaggi e fiori, otteneva un singolare sviluppo. Ma atten­zione: sempre nel venerdì santo era sconsigliato, anzi era pratica­mente vietato, pettinarsi; il rischio era quello di perdere in brevissi­mo tempo tutti i capelli. Non a caso, agli uomini calvi (e anche a qualche sfortunata donna) veniva rinfacciata la colpa di essersi pet­tinati proprio in quel giorno in cui Gesù saliva sulla croce.

Il giorno dopo, Sabato Santo, quando si slegavano le campane e la “bàttola” tornava a essere relegata nell’armadio della sacrestia, molte donne spalancavano le porte e le finestre di casa, nonché le cassapanche e gli armadi, per verificare in primo luogo la validità delle consuete pulizie pre-pasquali, ma anche per fare posto al Cri­sto risorto e per allontanare gli spiriti maligni che si fossero introdot­ti nella casa nel periodo della Quaresima, che, come è noto, ricor­dava le tentazioni subite da Gesù nel tormentato ritiro nel deserto. Addirittura, in qualche località si facevano rotolare i bambini nel let­to matrimoniale, affinché non soffrissero di dolori alla pancia nel corso dell’anno. Inoltre le donne, che non di rado erano considerate sempre un po’ impure, si lavavano il viso per purificarsi dagli even­tuali peccati, mentre ai bambini, per preservarli dalle malattie cosid­dette esantematiche, come morbillo, orecchioni, scarlattina e “tosse cattiva”, si faceva il bagno, mettendo nell’acqua un po’ di aceto.

Un’altra credenza superstiziosa, abbastanza diffusa dalle nostre parti, era anche quella di far muovere i primi passi ai bambini che non sapevano ancora camminare. D’altra parte era difficile che questi bimbi potessero camminare, perché restavano abbondante­mente fasciati parecchio tempo dopo aver compiuto l’anno di vita. Altro rito del periodo pasquale, sempre riguardo ai bambini picco­li, era un empirico controllo della possibile lussazione dell’anca, una disfunzione molto frequente nei tempi passati, eloquentemen­te dimostrata dal cospicuo numero di persone zoppe già in tenera età, problema che oggi non esiste quasi più. Il controllo veniva ef­fettuato con un attenta verifica delle pieghe nelle gambette del bambino, tenuto sdraiato con la pancia in basso: se le pieghe del­le due gambe combaciavano luna con l’altra, il bambino era a po­sto. Il tentativo di far camminare i piccini nel periodo pasquale era giustificato dalla credenza che, “slegandosi” le campane, doveva “slegarsi” anche il fanciullo.

Un rito decisamente laico, ma quasi obbligatorio per il giorno di Pasqua, era la convinzione che per questa festa ognuno dovesse rinnovare qualcosa in tema di vestiario: magari anche un solo faz­zoletto o un modesto paio di calze, ma qualcosa doveva essere rinnovato, anche perché questo obbligo era molto utile a conser­vare la salute, e se non si “spianava” qualcosa avrebbero potuto esserci dei problemi.

Sul piano alimentare, il giorno di Pasqua era veramente festoso, non c’erano ancora le moderne “colombe”, erano rarissime le uova di cioccolato (roba da signori), ma si rimediava a queste modernità consumistiche con una bella fetta di “busulan” o facendo cuocere le uova di gallina (talvolta anche di tacchina) con alcune verdure come gli spinaci o addirittura con l’erba medica che qui era nota soprattutto come l’”erba Spagna”. In questo modo l’uovo sodo as­sumeva un bel colore verdognolo, molto accattivante. Ma l’uovo sodo (in dialetto l’”ov cott”), sempre secondo l’antichissima tra­dizione bassaiola, era quasi un oggetto di culto gastronomico: tutte le osterie e i caffè tenevano sul bancone, in bella vista, un vassoio pieno di uova sode. Il cliente lo ripuliva dal guscio (che poi torna­va utile per preparare una sorta di liquore comunemente detto “vov”), lo intingeva nel sale e poi lo ingoiava, grazie anche alla preziosa, anzi indispensabile, collaborazione di un buon bicchiere di lambrusco.

Tratto da: Antiche Tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno: 2006

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