Lambrusco – I “lambruschi: dalle origini della viticoltura al declino dell’impero Romano

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Antica vasca di pigiatura (palmento)

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Il termine “labrusca” (poi divenuto lambrusca), come dimostrano numerose cita­zioni di epoca latina, veni­va riservato ad un nume­roso gruppo di vitigni per individuare genericamente le viti selvatiche (Virgilio, Ecloghe). Il loro utilizzo era certamente anteriore e risale all’epoca preistorica, come dimostra il ritrovamento di semi di Vitis vinifera silvestris in varie aree padane, nonché reperti attestanti la coltivazione della vite abbi­nata all’olmo. La loro domesticazione è attribuibile alle popolazioni paleoliguri da cui deriva il nome che significava rupestre (lab/lap significava pietra, rupe). Infat­ti, grazie a queste popolazioni, la famiglia dei lambruschi si diffonde nelle aree dell’attuale Piemonte, Lombardia ed Emilia popolate in età protostorica (1000-2000 a.C.).

In particolare, semi di uva (Vitis vinifera silvestris) sono stati rinve­nuti in insediamenti palafitticoli del mantovano, bresciano, varesotto, trentino, parmense e modenese in un periodo che va dall’eneolitico (età del rame, 3.000 a.C. in Europa) alla fine dell’età del bronzo, dove l’uva veniva usata fresca e fermentata con altri frutti.

Nella successiva età del ferro (1000-800 a.C.) compaiono semi di Vi­tis vinifera sativa (Fontanellato, presso Parma) e a Bologna roncole per vite risalenti all’800-900 a.C., mentre nel sottosuolo di Modena si sono rinvenuti resti di vite domesticata maritata all’olmo. Questa affiliazione tra vite e piante ad alto fusto (protoviticoltura) può ritenersi come un significativo segnale di evoluzione verso una vera viticoltura, frutto essenzialmente dell’insediamento e dello sviluppo di popolazio­ni etnische che espandono la loro civiltà dalle originarie aree toscane e dell’alto Lazio. In particolare dalle precedenti età protostoriche in cui l’uomo selezionò nei boschi alberi con viti selvatiche, iniziandone la fase di domesticazione (lambruscaie) per l’autoconsumo, si passò a forme organizzate in vigneti esterni ai boschi, di viti selezionate ma­ritate ad alberi (fase etnisca dal VI secolo al IV a.C.) abbinate alla trasformazione e commercializzazione del vino, per giungere ad una vera viticoltura specializzata in epoca romana (III secolo a.C., Ili se­colo d.C.).

Particolare successo ebbe questo primo esempio di viticoltura espan­sa a tralcio lungo maritata all’albero soprattutto nell’Etruria Padana, tanto da determinarne la conquista e lo sfruttamento da parte dei Galli ( come i Romani chiamavano i Celti), sostituiti poi dal III secolo avanti Cristo dai coloni Romani.

Si può dire quindi che gli Etruschi introdussero elementi di specializ­zazione colturale (ad es. potatura) nell’esperienza agricola delle popo­lazioni originarie, ed avviarono il più razionale sfruttamento della vite selvatica che nei secoli futuri avrebbe generato, nelle stesse aree, la viticoltura dei lambruschi.

Essi crearono e diffusero nell’area padana il substrato tecnico che per­mise ai colonizzatori Romani di avviare una coltivazione specializzata ad alto reddito ed estremamente produttiva (introduzione dello scasso, tracciamento del vigneto ecc.).

Possiamo affermare che lo sfruttamento della vite selvatica, unito alla logica pianificatoria del territorio e alla conseguente colonizzazione che era propria della cultura agronomica e militare romana, ha per­messo di gettare le basi per il ruolo preminente assunto dall’Emilia nei secoli futuri ed ha formato popolazioni nella cui memoria si radicò quel patrimonio culturale-agronomico che permise di superare, con relativo minor disagio che altrove, gli anni difficili dell’alto Medioe­vo. Al pari di quello viticolo si ebbe un ugual sviluppo enologico con la creazione delle tipiche cantine romane, suddivise in locali specializzati con le caratteristiche vasche di fermentazione in terracotta (dolia, pithoi), interrate per tre quarti e con attrezzature di torchiatura assai sofisticate, completate da botti in legno di origine celtica (cupae).

Non è azzardato ritenere che lo sviluppo di una viticoltura incentra­ta sulla labrusca e di una olivicoltura specializzate, determinarono il rilancio politico ed economico dell’area e lo sviluppo dei commerci, favorendo nel contempo le città costiere come base di partenza degli scambi commerciali via mare.

Curiosamente questo lungo periodo di specializzazione viticola e di sviluppo di un assetto fondiario ordinato, funzionale ad aziende agri­cole orientate al mercato, è delimitato ai due estremi da scelte similari in tema di pigiatura dell’uva: nella fase precedente alla colonizzazione romana, questa avveniva in prossimità dei vigneti o di insediamen­ti spontanei di viti selvatiche (lambruscaie) all’interno di due vasche quadrangolari comunicanti attraverso un foro, scavate nella roccia (soprattutto in aree collinari) o costruite in muratura, dove nella prima si pigiava l’uva coi piedi e si raccoglieva il mosto per caduta nella sottostante.

Tali vasche di pigiatura venivano definite palmenti dal latino palmes palmitis: tralcio di vite o palmentum che rappresentava l’atto di pi­giare. Nella tecnologia di pigiatura romana esso assume il nome di canale, di pietra scavata, laterizio o legno, di forma anch’esso qua­drangolare integrato o affiancato dal torchio, ma inserito nella cantina o in prossimità della casa colonica.

Successivamente in epoca medievale ricompare il canale, spesso  ac­compagnato  da una copertura a volte ben strutturata (casa da canali, pag. 41), in prossimità del vigneto.

In entrambe i casi, rispetto all’esperienza romana, si tratta di una for­ma di destrutturazione dell’attività di trasformazione che separa la pigiatura dalle altre operazioni, conseguente anche ad una certa fram­mentazione della proprietà terriera.

Entrambi hanno rappresentato una forma di continuità tra l’evo anti­co e i periodi successivi ad iniziare dal Medioevo, ma il canale e le attrezzature collegate hanno accompagnato il progresso dell’enologia della Pianura Padana ed assieme alla piantata ne hanno determinato lo sviluppo successivo. I palmenti hanno caratterizzato la viticoltura del­la Magna Grecia e sono stati impiegati fino all’800, ma hanno anche visto l’involuzione di un modello viticolo greco che solo nell’ultimo secolo sta dando segni di grande ripresa.

L’importanza della diffusione di varietà mediorientali da parte dei Greci resta comunque fondamentale anche in rapporto all’evoluzione genetica dei lambruschi, ai quali, per ovvi motivi di adattamento ad un ambiente molto più umido di quello di provenienza, non si sono sostituiti, ma hanno probabilmente contribuito col loro polline allo sviluppo di questa grande famiglia di vitigni autoctoni.

Tratto da: Il Lambrusco, la lunga storia di un vino di successo

Autore: Mauro Catena

A cura del Consorzio Marchio Storico dei Lambruschi Modenesi

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