La “Corriera Fantasma”

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Monumento alle vittime della "Corriera Fantasma", situato a San Possidonio in via Mazza sulla strada per Concordia.

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“L’esplosione di violenza nella zona di Concordia, Cavezzo e Medolla, con­fermata anche dai dati sui fascisti uccisi nei giorni successivi alla Liberazione, è spiegabile col fatto che, in quell’area, ancora pochi giorni prima della Liberazione, aveva operato con estrema ferocia la Brigata Nera mobile ‘Pappalardo’, provocando odii e risentimenti che erano ancora troppo recenti perchè si riuscisse a impedire una resa dei conti immediata e, in alcuni casi, altrettanto feroce” Dichiarazioni di Claudio Silingardi, direttore dell’Istituto Storico della Resistenza di Modena.

Massacro di civili e di ex militari a San Possidonio e a Concordia

La guerra era già terminata. Dalla Germania e dal Nord Italia rientra­vano alla spicciolata i reduci dai campi d’internamento, gli ex militari e i civili. Migliaia di persone erano in movimento e, poiché la rete ferroviaria era semidistrutta, cercavano disperatamente un mezzo qualsiasi di tra­sporto, quasi sempre di fortuna. La Pontificia Opera di Assistenza (POA), che aveva sede a Brescia presso il Vescovado, aveva costituito una propria rete di trasporto persone e disponeva di autocarri che venivano inviati lungo le direttrici principali di spostamento.

La scomparsa.

In questa situazione, a metà maggio del ‘45, ebbe ori­gine la vicenda della “corriera fantasma” o della “corriera della morte”, come fu poi denominata dalla stampa. La tragedia si svolse in pochi gior­ni, ma acquistò forma e rilievo, per gradi, molti anni più tardi. Quante siano state le vittime non è possibile saperlo. Di certo non si trattò di un episodio sporadico, ma fece parte di un piano preciso e articolato. Da varie parti, con il trascorrere del tempo, fu constatato che numerosi pas­seggeri dei quali in quei giorni era stata annunciata la partenza da Brescia con quei mezzi, non solo non erano giunti a destinazione, ma non aveva­no più dato notizie. Le prime ricerche furono svolte dai familiari romani di un gruppo di allievi della Scuola Ufficiali di Oderzo, tutti giovani tra i 19 e i 22 anni, che, nell imminenza dell’arrivo delle truppe americane, si erano arresi al C.L.N. del luogo con tutte le garanzie possibili. Un espli­cito lasciapassare nominativo rilasciato a ciascuno di loro dava atto che il comportamento di quei militari era stato ineccepibile.

Le ricerche.

I giovani romani avevano raggiunto Brescia, dove avevano amici e parenti: furono costoro ad informare le famiglie a Roma che i gio­vani si erano messi in viaggio il 14 maggio con dei mezzi della Pontificia Opera Assistenza diretti a Bologna. Incominciarono allora le ricerche dei famigliari. Si appurò in primo luogo, non senza difficoltà, che gli autisti dei tre camion (perché di camion si trattava e non di corriere), partiti da Brescia il 14 maggio diretti a Bologna, che avevano seguito il percorso Mantova, San Benedetto Po, Moglia, Carpi, Modena, avevano denunciato al ritorno di essere stati fermati da partigiani delle zone di Moglia e di Concordia, dove erano stati controllati i documenti dei passeggeri e che parecchi di costoro erano stati trattenuti, mentre poi era stato consentito ad altri di proseguire.

Le indagini.

Per le persone che erano letteralmente svanite nel nulla, strada facendo da Moglia a Concordia, dopo essere partite da Brescia il 14 maggio e mai arrivate a destinazione, l’Autorità Giudiziaria aprì un’in­chiesta in questa zona, trovando subito il muro dell’omertà.

Il 13 marzo 1946, in località Boccaletta di Novi si aprì una breccia nel muro del mistero.

Una segnalazione indicava un luogo preciso dove erano stati soppressi e poi sepolti dei viaggiatori in transito: nella fossa furono rinvenuti i resti di 6 persone e la necroscopia rivelò che le vittime erano state uccise, con armi da fuoco, in un’epoca che risaliva a quella degli scomparsi sui quali s’indagava. L’inchiesta portava al fermo di 12 partigiani di Moglia, ma si arenò subito perché le vittime risultarono poi tutte d’età superiore a quella dei giovani scomparsi di cui si cercavano le tracce. I partigiani arrestati furono rilasciati, ma le indagini svolte sul po­sto avevano portato all’identificazione delle due località in cui la polizia partigiana filtrava il traffico: la prima all’altezza del confine tra Moglia e Novi sulla statale 413 e l’altra a Bondanello sul ponte Secchia. Indagando a Moglia, era emerso che il parroco Don Francesco Freddi, entrato a far parte il 25 aprile del C.L.N., si era subito dimesso. Disgustato, disse agli inquirenti, “dall’aver costatato come venissero sistematicamente spogliati delle proprie cose i viaggiatori fermati dalla polizia partigiana”. Affermava testualmente “io stesso, con i miei occhi, ho insto la polizia partigiana spoglia­re reduci e viaggiatori di tutto ciò che avevano”,aggiungendo poi che“la roba sequestrata non veniva data ai poveri”.

Inoltre codesto sacerdote “poneva in risalto l’operato di Faroni Ovidio, detto il Dittatore, per i suoi modi prepotenti e di certo Isca Cordova Gaetano, detto Tanino, rispettivamente Presidente del C.L.N. e capo della polizia parti­giana, che tra loro strettamente a contatto subito dopo la Liberazione dettero luogo a crìtiche e censure da parte della popolazione locale, sia per i metodi adoperati, sia perché mal si spiegavano certi acquisti e certo maneggio di denaro da parte dei due. Critiche e censure delle quali il parroco era a cono­scenza e dovette essere veramente partecipe, se, dopo appena dieci giorni della nomina a membro del locale Cln, rassegnò disgustato, le proprie dimissioni” [“Procedimento penale contro Cavazza Elmore ed altri…” Relazione in procedimento di Corte d’Assise al Procuratore Generale di Bologna, 1949, in Massimo Storchi.

Le in­dagini furono intensificate perché più s’indagava, più appariva chiaro che i delitti commessi in quella zona erano stati numerosi.

Così il 22 ottobre 1948, altri scavi a Villanova di Concordia, nel fondo “Due Pilastri”, in un’ex postazione di artiglieria antiaerea tedesca, portava­no alla luce una decina di salme recanti lesioni da arma da fuoco. Nella fos­sa era stato rinvenuto anche un modesto anello d’argento, quello del Fallai che recava la scritta “A.G.S. – 31/10/1944”. La fidanzata Gina riconobbe l’anello con la scritta, che significava: “Alfio – Gina – Sempre” – Il 31 ottobre 1944 era la data in cui l’anello fu offerto ad Alfio Fallai. Oltre a quella del Fallai vennero identificate anche le salme di Cesare Jannoni, Marcello Cozzi, Alfonso Cagno, Vincenzo Giuffrè e Giovanni Quadri. Ma il capi­tolo della cosi detta “corriera fantasma” non era chiuso. Su segnalazione di un “pentito prima della morte”, si disse.

Il 28 gennaio 1968, venne alla luce a San Possidonio, nel fondo Tellia, una seconda fossa contenente gli scheletri ed i resti di altre persone. Tornava così ancora alla ribalta, dopo 23 anni, il mistero della “corriera fantasma”, un automezzo o meglio tre automezzi della Pontificia Opera di Assistenza, partiti a metà maggio del 1945, carichi di passeggeri mai giunti a destinazione, che sembravano essersi dissolti nel nulla. Ora di certo si veniva a sapere che erano stati uccisi, dove, perché e da chi. La Magistratura riapriva nuove indagini che permisero di completare il quadro.

Veniamo all’esposizione dei fatti, come appaiono dai documenti e dalle testimonianze raccolti e descritti da Vittorio Martinelli che sintetiz­ziamo. Fu così che il

14 maggio 1945 dal Bresciano, su tre automezzi, organizzati dalla Pontificia Opera di Assistenza, sotto le bandiere della Città del Vaticano, partono in ore diverse civili ed ex militari, tra cui i giovanissimi allievi della Scuola Militare di Oderzo, muniti di un “lasciapassare” del tutto liberatorio, con l’espressa autorizzazione a raggiungere la località indi­cata a ciascuno”, rilasciati dopo accurati accertamenti dai Comitati di Liberazione Nazionale di Oderzo e di Brescia e di un “salvacondotto* a cura del Vescovado di Brescia, non essendosi costoro macchiati né di crimini contro le popolazioni civili e né di fatti di sangue contro le forze di Liberazione.

All alba, da Rezzato (BS), parte il primo camion con a bordo tra gli altri, la signora Olga Vezzani, la figlia Vittoria Mariani, le cui testimo­nianze saranno in seguito preziose, Alfio Fallai e Gino Grossi, tutti tosca­ni. L’automezzo, in parte carico di cemento, viene fermato nei pressi di Moglia da due ciclisti armati, che impongono al conducente di seguirli a Villa Medici a Concordia, sede della polizia partigiana.

Erano le ore 15. I passeggeri vengono fatti scendere e rinchiusi, in attesa di “accertamenti”, nel solaio della villa, donne e uomini in locali separati. Parecchi di loro saranno liberati a più riprese e in giorni successivi, per cui non è possibile stabilire quanti di loro rimasero in carcere per essere condotti alla morte.

Alle 8,30, da Erbusco (BS) parte il secondo autocarro un “Lancia 3 Ro del CLN locale con 40-50 persone, molti dei quali ex internati dalla Germania, diretto al sud. Tra costoro il responsabile dell’automezzo su indicazione del CLN di Brescia, Igino Ghisi, Giuseppe Sciagura, ex in­ternato, Ferruccio Avanzini e Guido Santi, funzionari delle dogane (che saranno in seguito rilasciati e saranno testimoni importantissimi); Alfonso Cagno, Vincenzo Giuffrè, Giovanni Quadri e suo fratello Silvano che saranno soppressi.

A Bondanello il camion subisce un primo controllo: vengono tratte­nuti due fratelli siciliani e di loro non si avranno più notizie. Alle 17 circa arriva alle porte di Concordia, dove scende uno dei passeggeri, Jaures Sgarbanti, che abita da queste parti. Più avanti, sulla piazza del paese, viene di nuovo fermato e dirottato a Villa Medici. Qui tutti i passeggeri vengono fatti scendere e perquisiti. La polizia partigiana procede a un sommario interrogatorio, in base al quale viene effettuata una cernita e selezionati in base a dei “loro criteri”. Sono trattenuti coloro che hanno carte d’identità troppo nuove (e tra costoro anche gli ex internati in Ger­mania) e i “grassi”, ossia quelli il cui aspetto fisico faceva pensare che non avessero sofferto la fame e fossero fascisti. Igino Ghisi, responsabile del Comitato di Liberazione Nazionale di Brescia, indignato, interviene inu­tilmente con energia affinché tutti siano rilasciati. Il camion può soltanto ripartire senza una trentina di viaggiatori, che sono mandati ad ingrossare il numero dei prigionieri già rinchiusi, facenti parte del primo camion, tra cui Giuseppe Sciagura, Giovanni Quadri con il fratello Silvano (17 anni), Alfonso Cagno e Vincenzo Giuffrè.

Alle 13,30, dalla Piazza dell’Arcivescovado di Brescia, parte il terzo autocarro, un “Fiat 626” con destinazione Roma, avente a bordo donne, bambini e alcuni giovanissimi allievi della Scuola di Oderzo. Fra costo­ro vi sono Marcello Cozzi, Franco Gottardi, Roberto Lombardi, Cesare Iannoni, Sergio Piccinini, tutti diciannovenni. Questo automezzo viene fermato una prima volta a Bondanello, poi viene scortato fino a Moglia. Qui dopo il controllo, 43 passeggeri sono trattenuti, mentre i restanti sono lasciati ripartire. I fermati vengono fatti salire su un altro camion che li porta sotto scorta nelle carceri di Carpi. .

Testimonianze dei sopravvissuti – Le persone fermate, tenute rinchiu­se fino al 18 maggio e poi rilasciate, quando furono rintracciate anni dopo dai carabinieri, non avevano dimenticato ciò che avevano visto e udito. Riferirono e testimoniarono. La Vezzani e la Mariani (madre e figlia, to­scane) ricordarono che furono segregate con due donne di Concordia, un altra coppia pure madre e figlia, alle quali giorni prima avevano ucciso il rispettivo marito e padre, e con tre Ausiliarie, tra le quali una bionda ventenne che venne violentata e fustigata a sangue. Le ex prigioniere testimoniarono d’aver udito a più riprese, di notte, oltre al rumore de­terminato da un convulso movimento di persone provenire dal solaio, dove erano rinchiusi gli uomini, lamenti e grida e che un apparecchio radio fatto funzionare ad altissimo volume non copriva del tutto. Tutte le notti i fermati, uno alla volta, venivano fatti scendere al pianterreno e lì interrogati sul loro passato ed in particolare sull’eventuale loro apparte­nenza agli organismi della RSI. Giovanni Quadri, che avrebbe incitato i prigionieri a ribellarsi al trattamento inumano a cui erano sottoposti, sa­rebbe stato ucciso alla presenza dei compagni, ai quali uno degli assassini avrebbe poi gridato e le donne udirono, “Questo vi serva da lezione, chi vuole fare la stessa fine si faccia avanti! ”

Il contadino siciliano Giuseppe Sciagura ricordò che “nella notte del 18 maggio una dozzina di detenuti, fra i quali Cagno e Giuffrè, vennero prima ricondotti al pian terreno e massacrati di botte e poi fatti risalire ammanettati e legati l’uno all’altro con una catena”. Sciagura, la cui testi­monianza risulterà fondamentale, insieme ad altri reclusi, dovette aiutarli a sedersi per terra, perché da soli non riuscivano in quanto avevano le mani legate dietro alla schiena. Più tardi, in piena notte, costoro furono portati al piano terreno ancora una volta e poi trasportati via con un au­tocarro, del quale i rimasti udirono il rumore.

Al mattino seguente, il 19 maggio, Giuseppe Sciagura fu interrogato ancora una volta da parte di un “tenente” partigiano che infine lo lasciò li­bero consegnandogli un lasciapassare firmato “B…”. Con lui furono messi in libertà altri sequestrati. Non appena furono fuori, tutti si accorsero di essere stati derubati di una parte degli oggetti e del denaro che avevano con loro. Di quanto era stato loro sequestrato al momento del fermo, ne venne restituita soltanto una parte.

San Possidonio 18 maggio:

ore 22 circa. Giovanni Pincella, mezzadro di un fondo agricolo sito in Via Matteotti n° 4, si trova in cucina con la moglie, quando sente bussare alla finestra. L’apre e vede due individui mascherati che chiedono: “Un badile e una vanga”, aggiungendo subito in modo perentorio “State lì!” Pincella risponde “Sotto il portico!”, indicando la direzione.

ore 23 circa. La polizia partigiana di S. Possidonio fa chiudere gli esercizi pubblici e sollecita rozzamente coloro che si trovano in strada a rientrare nelle abitazioni e restarvi.

ore 23,30 circa. Un furgone scortato, proveniente dalla strada di Con­cordia si ferma in Piazza Andreoli, da cui fanno scendere una dozzina di persone, legate tre per tre, con le mani legate dietro la schiena. Uno dei partigiani (che “non aveva fatto niente fino alla fine della guerra, dopo di che era diventato una bestia”) puntava il mitra verso chi si affacciava alle finestre gridando: “andate dentro, andate dentro!.” Un’altra voce ordina “Di corsa1” E i prigionieri obbediscono come possono, anche se alcuni di loro, secondo un testimone, “erano già mezzi massacrati”. I partigiani puntano ancora i mitra verso le poche persone che sono ancora in strada o che si affacciano alla finestra gridando “Ritiratevi! Andate dentro, andate dentro!”, poi scortano i prigionieri nella sala del comando della “polizia  partigiana” (municipio) e li avviano al piano superiore. Il furgone riparte e scompare.

ore 24 circa. I prigionieri vengono fatti ridiscendere in strada. Nella mezz’ora in cui sono rimasti nella sede del comando sono stati fatti spo­gliare e ora sono in mutande. Vengono suddivisi in due gruppi. Il primo gruppo viene fatto salire su un camioncino che si allontana verso una località vicina, Villanova, nel fondo condotto da Gozzi Domenico, da cui provengono poco dopo raffiche di mitra. All’indomani il Gozzi, nel luogo in cui aveva udito ripetute scariche di mitra, constatava tracce di sangue e brandelli di materia cerebrale. Si recò alla sede della polizia partigiana a riferire e gli fu detto di non preoccuparsi di quanto aveva visto e udito perché non poteva trattarsi che di fascisti.

19 maggio – ore 0,30 circa. Dopo mezz’ora il camioncino ritorna davanti alla sede del Comando. Il secondo scaglione dei prigionieri, con alla testa un giovane di 17 anni, quasi certamente il Quadri, viene fatto salire a bordo. A questo punto il comandante invita S. M. un partigiano, cui è stato ordinato di presentarsi al comando “per incombenze”, a salire sul camioncino per dare una mano. Questi, disgustato dal comportamento verso quella gente inerme, rifiuta. Allora il comandante gli punta il mitra alla schiena, ma S. M. non si impressiona e se ne va . Allontanandosi, ha modo di notare che il camion riparte e si dirige verso la stessa località di prima.

ore 1 circa. Dalla sede della “polizia partigiana” di Carpi vengono prele­vati una ventina di detenuti che sono fatti salire su un furgone. Preceduto da una staffetta in motocicletta, il furgone prende il via verso San Possi- donio.

ore 1,45 circa. L’automezzo entra nella corte dei Pincella. La moglie Rosa Prandini si affaccia alla finestra, ma viene invitata a ritirarsi. La donna obbedisce, ma resta in ascolto. Poco dopo sente il rumore dell’automezzo che si allontana dalla cascina verso la campagna del fondo Tellia. Trascor­re circa mezz’ora, dalla direzione verso la quale è andato l’automezzo, provengono raffiche di arma automatica.

19 maggio – mattina. L’agricoltore Giovanni Pincella ritrova appoggia­ti all’angolo della stalla, sporchi di calce viva, il badile e la vanga che aveva indicati la sera precedente ai partigiani. La moglie, Rosa Prandini, constata che l’automezzo nell’entrare dal suo cancello ha danneggiato il muretto dell’ingresso.

I fatti accertati non lasciano adito a dubbi: la “polizia partigiana’’ aveva derubato i passeggeri (non si è trovata traccia di oggetti, abiti e scarpe) e ne aveva uccisi un buon numero. Quanti? Non si saprà mai.

Autori: al primo processo che si svolge nel 1950 a Viterbo davanti alla Corte d’Assise, si appura che 16 ex repubblichini rinchiusi a Villa Medici, dopo essere stati torturati e derubati, nella notte tra il 18 e il 19 maggio, sono stati trascinati nel fondo Due Pilastri a Villanova, distante due km e qui sommariamente eliminati e che “le esecuzioni, perpetrate con de­terminazione e inaudita ferocia riguardavano persone non compromesse politicamente: civili ed ex militari non più in uniforme ed inermi, giovani comunque in possesso di un salvacondotto rilasciati dagli stessi Comitati di Liberazione”. Per i fatti accertati, vengono giudicati sei imputati, tre detenuti e tre latitanti espatriati clandestinamente con l’aiuto del PCI. I responsabili della Polizia Partigiana di Concordia, F. Ar. e B. Gi. vengono condannati a 25 anni di carcere ciascuno (di cui 18 condonati].

Nel 1968 con la scoperta dei resti di altre vittime nel Fondo Tellia di San Possidonio, gli inquirenti riescono a stabilire che ci furono altre esecuzioni di prigionieri provenienti da Carpi, avvenute a poche ore di distanza dall’eccidio di Concordia con l’intervento della “Polizia partigia­na” di S. Possidonio. La responsabilità quindi non ricadeva, come si era sempre creduto, soltanto sulla polizia partigiana di Concordia.

Le indagini dimostrarono un collegamento tra le varie “stazioni” di polizia partigiana di Concordia, di San Possidonio, di Moglia e di Carpi che si passavano l’una con l’altra i prigionieri per provvedere prima alla custodia e poi all’eliminazione anche di persone semplicemente sospette. E il compito di provvedere alle esecuzioni sembra fosse affidato alla “sta­zione” di San Possidonio. Le notizie fornite dall’informatore portarono all’incriminazione di 9 membri della “polizia partigiana” di S. Possidonio.

Nel luglio 1970, ai cinque principali imputati, al cui carico esistono “elementi gravi, precisi e concordanti tali da legittimare un loro rinvio a giudizio” per omicidio plurimo aggravato e continuato, viene applicata l’amnistia, sulla scorta del D.P.R. 4 giugno 1966 n. 322 che considera tutti amnistiati i reati commessi dal 25 luglio 1943 al 2 luglio 1946 da appartenenti al movimento della Resistenza, determinati da movente a fine politico. Le generalità degli indiziati di reato, dei rinviati a giudizio e degli amnistiati, che pure risultano dai documenti in modo inequivoca­bile, sono state omesse di proposito, anche se sono ben note e pubblicate sui quotidiani. *Fonte: per la ricostruzione di questa tragica vicenda, abbiamo abbon­dantemente attinto il materiale, documentato in modo particolarmente rigoroso, da: Vitto­rio Martinelli in “La Corriera fantasma” – Zanetti Editore, Montichiari, 1988.

Tratto da: Gerra e dopoguerra nella Bassa Modenese

Autore: Nerino Barbieri

Edizioni CDL

Anno 2010

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