Il segreto di Ulisse – 21° e 22° capitolo

Commenti (0) Il segreto di Ulisse

Ulisse non aveva dato ascolto del tutto alla profezia dell’indovi­no Tiresia: viaggiare a piedi, senza nave, lontano dal mare era per lui inconcepibile. Prima o poi avrebbe dovuto sicuramente abbandonare l’imbarcazione, allontanarsi dai flutti tanto a­mati e cercare per terra Canente e suo figlio.

Ma c’era tempo per questo. O forse no.

Ora comunque gioiva dell’improvviso libeccio che gonfiava la vela, che faceva correre in cielo le nubi, che alzjava dalle onde bianchi spruzzi di spuma. La nave era sospinta velocemente, quasi per magia, verso la costa dell’Esperide(1) e già all’orizzonte se ne stagliava chiaramente lo scuro profilo.

Avrebbe trovato Canente su quella costa o avrebbe dovuto iniziare da lì il suo viaggio per terra ? Tra i denti inveì contro Nettuno, che lo costringeva ancora una volta lontano da Itaca, e maledisse Circe, e Picus, e se stesso e la propria sventura. Ma questo era il fato, il volere di Tike.(2) a nulla valeva opporvisi, lo aveva compreso da tempo.

Sospirando, si accorse che durante le sue amare riflessioni i marinai, approfittando del vento incredibilmente propizio, avevano condotto la nave verso una piccola insenatura riparata e avevano iniziato le manovre di approdo.

Ulisse, quindi, sì apprestò a sbarcare, solo, tastando sotto la corta tunica la presenza metallica del medaglione di Circe e brandendo un remo.

«Marinai» apostrofo i suoi uomini, «compagni di tanto avventure, non so cosa abbiano in serbo per me gli dei questa volta. Attendete il mio ritorno per tre lune e poi fate vela per Itaca, anche senza di me.»

Ignorando gli sguardi perplessi e un po’tristi dei suoi uomi­ni, Ulisse prese terra e si incamminò con passo risoluto verso colli che distingueva in lontananza, senza mai voltarsi indietro. La profezia di Tiresia aveva avuto inizio…

Camminò per due giorni interi, senza incontrare anima viva. Seguì il corso di un ampio fiume, aggirando paludi e acquitrini, e non fece soste, se non per un pasto fugace o per un’ora di sonno.

All’alba del terzo giorno gli apparve in lontananza, in una vasta pianura circondata di colli, un filo di fumo. Speranzoso, allungò il passo, ma, dopo essersi avvicinato abbastanza da poter distinguere qualcosa, fu sopraffatto dallo sconforto.

Schermando gli occhi con la mano contro i raggi del sole nascente, si avvide della distruzione che aveva colpito quel luogo. Le vestigia di un villaggio vasto e fiorente giacevano al suolo carbonizzate dal fuoco. Al centro della palizzata di difesa, anch’essa annerita e divelta, restavano solo blocchi di roccia lavorata e un imponente trono di pietra scolpita, a testimoniare la presenza di un palazzo, sicuramente quello del capo della comunità, completamente raso al suolo.

Tra i massi sparsi, un vecchio cencioso, canuto e ingobbito, aveva acceso un fuocherello e arrostiva assorto una piccola lepre. Non si mostrò stupito né impaurito dall’arrivo di Ulisse con il fardello del remo bilanciato su una spalla, ma gli fece un gesto con la mano, come a dire “siediti”.

L’invito fu accolto e Ulisse iniziò a fare domande su Canente e il figlio, rendendosi conto, però, che il vecchio non aveva compreso se non il nome della donna. Tuttavia questi raccontò a gesti di un attacco a sorpresa avvenuto due lune prima e com­piuto da gente proveniente dal nord, che aveva completamente distrutto il villaggio. Al sentire ripetere il nome di Canente, il vecchio incrociò le braccia tese davanti a sé unendo i polsi, e il greco, pur senza dir parole, capì che la moglie di Picus era stata catturata e portata via come schiava verso il nord, assieme a tutte le donne e i bambini. Almeno erano vivi, o lo erano stati fino alla distruzione del villaggio: chissà se una fragile giovane donna e un ragazzo avrebbero potuto sopravvivere a un lungo cammino, magari in catene…

Ulisse comprese che davvero la profezia di Tiresia si stava avverando: avrebbe dovuto viaggiare a piedi seguendo le sette stelle luminose dell’Orsa, verso genti che non conoscevano il mare e avrebbero scambiato il suo remo per un ventilabro. 

Che beffa! Gli uomini credevano di essere arbitri del proprio destino, quando invece gli dei avevano già stabilito tutto fin dall’inizio!

Con un sospiro di rassegnazione il greco si alzò e, fatto un cenno di saluto al vecchio, riprese il cammino, stavolta appog­giandosi al remo come a un bastone…

1) Esperia: antico nome greco della penisola italica, che significava “terra verso il tramonto”.

2) divinità che rappresenta il fato, il destino.

Capitolo 21

«Firenze, stazione di Firenze…» continuava a gracchiare la voce metallica dall’altoparlante della stazione ferro­viaria di Santa Maria Novella. I binari erano affollatis­simi di turisti e muoversi risultava davvero un’impresa.

I ragazzi erano appena scesi dal treno che da Roma li aveva condotti a Firenze e ora Marcello aveva il naso sollevato verso il tabellone degli orari delle partenze, cercando la coincidenza per Bologna, mentre Brando e Martina si stavano dirigendo verso un’edicola per fare rifornimento di quotidiani.

«Mi raccomando, Marcello, non ti muovere di lì, sen­nò va a finire che non ci troviamo più in mezzo a questa orda di nipponici e perdiamo il treno per Bologna.»

«Ma se sono più alto dei giapponesi di almeno trenta centimetri! Impossibile non vedermi, e poi mi si distin­gue subito: non porto al collo nessuna macchina fotogra­fica! Sbrigatevi, che tra quindici minuti parte l’espresso, e mentre ci siete compratemi la Gazzetta dello Sport!»

«Che dotte letture fa il nostro amico…» sospirò Bran­do prendendo a braccetto Martina e dirigendosi al chioschetto dei giornali.

La ragazza si era completamente ripresa dall’espe­rienza medianica avvenuta nei pressi di Roma, tuttavia il pensiero dell’accaduto non la lasciava mai. Non era una sensazione angosciante o paurosa, quanto piuttosto liberatoria. Si sentiva leggera, come se si fosse tolta un peso dal cuore, come se qualcosa a stento trattenuto in fondo all’anima fosse improvvisamente venuto alla luce, lasciandola completamente serena.

Quasi leggendole nel pensiero, come spesso accade­va, Brando le chiese: «Stai bene, streghina, dopo quel pisolino un po’ insolito sul trono di pietra? Il tuo aspetto è fantastico, come sempre, ma dentro, Martina, come stai? Sei scossa, impaurita, sconvolta?».

«No, Picchio, davvero. Sai, ci stavo pensando proprio prima che me lo chiedessi e mi sono convinta di una cosa che ti sembrerà assurda: Canente vuole che noi la troviamo, così come deve averla trovata a suo tempo U­lisse per adempiere alla promessa fatta a Picus. E lei che ci ha sempre mandato messaggi positivi, indicato piste da seguire, tracce da analizzare. Ti ricordi quel lamento che poi divenne canto nella Grotta delle Ninfe a Itaca? Dirai che sono pazza, ma secondo me lei e Ulisse sono dalla nostra parte. Non chiedermi perché, lo sento e basta.»

«Piccola strega, devo confessarti una cosa: io sono convinto del contrario, che Canente, cioè, non voglia affatto che noi continuiamo questa ricerca. Il tono della sua… ehm… della tua voce quando hai proninciato quel­le parole, “che nessuno ci cerchi mai”, era angosciato e imperioso al tempo stesso. In ogni caso lei ha voluto met­tersi in contatto con te e ha dato anche a me un piccolo suggerimento del tutto personale, di cui forse un giorno ti parlerò, quando la nostra avventura sarà finita.»

«Che cosa, Brando? Dài, dimmelo adesso, non fa­re il misterioso come tuo solito» si accalorò Martina, puntando gli occhi color fiordaliso in faccia a Picchio e mandandolo del tutto in confusione.

Non potendo reggere quello sguardo senza tradire il sentimento che celava nel cuore, il ragazzo si voltò verso le “civette”(3) esposte dall’edicola e lesse una notizia che attirò immediatamente la sua attenzione:

IL RESTO DEL CARLINO – provincia di Modena: CLAMOROSO RITROVAMENTO DI UN INSEDIAMENTO PROTOETRUSCO NELLE CAMPAGNE DEL MIRANDOLESE.

«Martina, presto, compriamo II Resto del Carlinol»

Saliti al volo sull’affollato espresso per Bologna e trovati miracolosamente tre posti nello stesso scompar­timento, Brando buttò con malagrazia lo zaino sull’ap­posita reticella, impaziente di leggere l’articolo che lo interessava.

«Allora, sentite qui» disse agli amici, di cui catturò immediatamente l’attenzione con il tono concitato della voce:

“Nelle campagne intorno a Mirandola, nella località co­nosciuta come la Tesa, già sede di importanti ritrova­menti archeologici di epoca etnisca e romana, è stato scoperto quello che a tutta prima è stato identificato dagli addetti ai lavori come un insediamento protoe­trusco databile addirittura aU’vm secolo a.C. In partico­lare, l’aratro che stava lavorando il campo, ha portato alla luce una sepoltura, apparentemente inviolata, del tutto inusuale per tipologia e struttura. La sua apertura è prevista per il tardo pomeriggio di oggi alla presenza dell’incaricato della Soprintendenza e del noto arche­ologo Valerio Massimo Manfredi, figura di rilievo nel panorama culturale internazionale, convocato per l’oc­casione.”

«Accidenti, avete sentito? Un insediamento protoe­trusco vicino a Mirandola, guarda caso dell’vui secolo e una tomba strana: non vi viene in mente niente? Io dico che ci siamo, che abbiamo trovato il luogo dove furono portati Canente con il figlio dopo la distruzione del loro villaggio nel Lazio. Dobbiamo a tutti i costi essere pre­senti all’

apertura della tomba, dobbiamo assolutamente vedere con i nostri occhi!»

«Dovremmo avere tutto il tempo per arrivare in o­rario alla Tesa, speriamo solo che il treno non faccia ritardo; a Bologna, poi, prendiamo un taxi fino a Mi­randola, visto che ce lo possiamo permettere grazie alla Mandragora Tours!» gli rispose Marcello, per una volta colpito da quell’ennesima coincidenza.

Martina, raggomitolata sul suo scomodo sedile, sor­rideva e canticchiava, persa in chissà quali pensieri…

1) Civette, cartelloni affissi fuori dalle edicole riportanti le notizie più cla­morose e di richiamo contenute nei quotidiani.

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Ulisse non ricordava ormai più quanto tempo fosse passato da quando aveva salutato il vecchio italico nel villaggio distrutto e aveva intrapreso il cammino verso nord, verso Eridano, il grande fiume maestoso.

Gli sovvenne quello che si narrava in patria, il mito di Fe­tonte, figlio del Sole. Egli, tenuto all’oscuro dalla madre delle sue origini, quando, cresciuto, ne fu informato, chiese, come prova dei suoi nobili natali, che il padre gli facesse guidare il suo carro infuocato.

Il Sole accondiscese con mille raccomandazioni, e Fetonte cominciò a seguire la rotta consueta sulla volta celeste. Ben presto, tuttavia, si spaventò alla vista degli animali dello Zo­diaco, e abbandonò la rotta stabilita: scese a una quota tanto bassa, da rischiare di appiccare il fuoco alla terra e poi risalì troppo in alto, suscitando le proteste degli astri. Giove, allora, per evitare ulteriori pericoli, lo fulminò, facendolo precipitare nel fiume Eridano, dove trovò la morte.

«Chissà» si chiese Ulisse sconfortato, «se anch’io troverò la morte in Eridania, terra straniera e sconosciuta, lontano dalla patria…»

Nel suo lungo peregrinare il greco aveva valicato monti, at­traversato fiumi e foreste, aggirato paludi, lottato con animali feroci, incontrato popoli sconosciuti, amichevoli o ostili, che sempre, però, almeno fino a quel momento, avevano ricono­sciuto come tale il remo che recava sulla spalla.

Tuttavia, ora, dopo tante e tante lune di cammino, sapeva per certo di essere lontanissimo dal mare: da tempo immemorabile non ne avvertiva il cupo rimbombo, non percepiva la brezza frizzante, non sentiva l’amato profumo di salsedine.

Al contrario, in quel luogo l’aria era pesante, rendeva diffi­cile il respiro, che per il freddo si condensava in bianche nuvole di vapore. Non c’era vento: tutto era fermo e immoto e una strana bruma, che saliva evanescente dal terreno, nascondeva le cose come sotto un velo dì bissio1)sottile.

E fu proprio mentre Ulisse era immerso in questi cupi pen­sieri che dal fitto di un boschetto di pioppi sbucò un giovane e, con uno dei mille diversi idiomi che ormai il greco aveva impa­rato a comprendere abbastanza bene, lo apostrofò: «Straniero, perché tale devi essere, dove te ne vai con un ventilabro sulla spalla quando da un pezzo è passato il tempo del raccolto?».

Ulisse cadde in ginocchio e baciò la terra, suscitando lo stu­pore del giovane che gli aveva rivolto la parola. Poi, rialzatosi, con modi gentili lo interrogò: «Hai ragione, vengo da molto lontano. Mi puoi dire dove mi trovo, qual è il villaggio più vicino e chi vi regna ? Cerco una donna di nome Canente, che fu catturata nella regione chiamata Latium e portata schiava verso nord assieme al figlio. Era moglie di un re: se è soprav­vissuta al viaggio, visto il suo rango, la sua sorte non dovrebbe essere stata nefasta».

Gli rispose il giovane: «Hai detto che era moglie di un re. Ora è madre di un re. Vieni, ti accompagnerò al villaggio e ti racconterò la sua storia».

1)Bisso: detto anche “seta di mare”. Filato, ormai introvabile, prodotto da molluschi bivalvi che secernono una bava per poter aderire alle rocce circostanti. Nell’antichità era considerato molto prezioso e veniva usato per confezionare abiti regali.

Capitolo 22

Non era stato facile per i tre amici intrufolarsi tra la folla che gremiva lo scavo, recintato da un nastro di nylon, del tipo crime scene,1) come nei telefilm americani. Più volte qualche zelante carabiniere aveva tentato di cacciarli, ma a un certo punto era accaduto un piccolo miracolo.

«Ehi, Valerio, ciao!» aveva gridato Martina, per so­vrastare la confusione, all’indirizzo di un personaggio che sicuramente spiccava nel gruppo di burocrati, ad­detti ai lavori e curiosi.

L’uomo, dai capelli prematuramente candidi e dalla pelle cotta dal sole di mille scavi archeologici in paesi esotici, si era girato, l’aveva riconosciuta e, con un caldo sorriso, le aveva fatto cenno di avvicinarsi, muovendosi tra la calca per andarle incontro.

«Ciao, Martina, che ci fai qui?» la salutò scoccandole un sonoro bacio sulla guancia.

«Curiosità, semplicemente. Sono qui con due amici. Abbiamo letto la notizia sul giornale e, da bravi licea­li, eravamo smaniosi di vedere di cosa si tratta. E poi sapevo che ci saresti stato anche tu e avevo voglia di rivederti. Ah, la mamma ti manda tanti saluti e dice che sarebbe ora che venissi a cena da noi una di queste sere.

Sempre che i tuoi impegni di archeologo, conduttore televisivo e scrittore famoso te lo consentano! Possiamo stare qui vicino a te a guardare?»

«Certo, fa’ venire i tuoi amici: tra poco inizia lo spetta­colo. Di’ a tua madre, la mia cara compagna di scuola dei bei tempi andati, che appena posso le telefono: ho pro­prio voglia di mangiare i tortellini più buoni della Bassa!»

Martina fece un cenno ai suoi amici esterrefatti, che si avvicinarono timidamente, guardando di sottecchi il personaggio famoso che fino a quel momento avevano avuto occasione di ammirare solo in tv o attraverso i suoi libri.

«Caspita, Martina» bisbigliò Brando eccitato, «cono­sci quel mito di Manfredi e non me lo hai mai detto? Questa me la paghi, davvero!»

«È un amico di famiglia: lui e mia madre hanno fatto il liceo assieme e da allora, bene o male, sono sempre rimasti in contatto. Tutto qui. La prossima volta che viene a cena da noi invito anche te, così potrai torturarlo a piacere con le tue mille domande. Ma adesso sta’ zitto, che iniziano le operazioni.»

Gli archeologi della Soprintendenza si erano calati nello scavo e con gesti veloci ed esperti stavano ora mettendo a nudo la copertura dell’accesso alla sepoltura, costituita da un’unica massiccia lastra di pietra.

Quando le minuscole cazzuole e i pennelli ebbero ter­minato la pulizia della lastra, Brando, solitamente molto controllato e poco emotivo, si sentì prendere addirittura da un capogiro e da un senso improvviso di svenimento: la pietra recava scolpite due figure simboliche ma molto realistiche, un picchio e un’aquila.

Resistendo a stento all’impulso di buttarsi a capofitto nel buco nero dell’ingresso della tomba, il ragazzo lan­ciò un’occhiata a Martina e si accorse che anche lei era palesemente impallidita e si torceva nervosamente un lungo ricciolo di capelli.

Anche le espressioni degli addetti ai lavori parevano estremamente perplesse davanti a quella simbologia sconosciuta, ma essi, molto professionalmente, conti­nuarono la loro opera, entrando cautamente all’interno della sepoltura seguiti da Manfredi.

Scomparvero nell’antro per più di un’ora: da fuori si sentivano a malapena le voci e si intravedevano i lampi delle macchine fotografiche in azione. Terminati i rilievi il tutto si concluse con una dichiarazione per la stampa, molto vaga e generica, che rimandava a ulteriori esami e studi.

L’interesse lentamente scemò, la gente piano piano si allontanò e rimasero solo Manfredi e i tre ragazzi, guardati a vista da un carabiniere lasciato di guardia.

«Cosa ne dici se entriamo anche noi a dare un’occhiatina?» chiese Martina a Valerio con il suo più am­maliante sorriso.

«Mi sembrate più incuriositi ed emozionati di quanto vogliate darmi a bere, non è vero? Qui gatta ci cova. Ma penso che una sbirciatina ve la meritiate, se non altro per la pazienza che avete dimostrato fino a ora. Al carabiniere ci penso io, non vi preoccupate. Gli parlo e poi me ne vado: ho appuntamento con quelli della Soprintendenza per una chiacchierata su questa faccenda insolita, anche se davvero non so ancora cosa potrò dire. Giuro che in tanti anni di lavoro e di studio non mi è mai capitato di vedere la raffigurazione di un uccello come quello sulla lastra di ingresso. L’aquila, va bene, anche se del tutto inconsueta per il periodo presumibile della tomba e la sua collocazione geografica, ma addirittura un animale che sembra un picchio! E per di più ricompare anche all’interno, sulle pareti! Boh! Ok, ragazzi, ci vediamo, e buon divertimento. Martina, saluta i tuoi genitori e di’ a tua madre che cominci a preparare la sfoglia!»

I ragazzi, trattenendo a stento l’impazienza di vedere con i loro occhi cosa conteneva la tomba, salutarono Manfredi ed entrarono.Il breve corridoio di accesso aveva una forte penden­za e terminava nella camera sepolcrale vera e propria, costituita da un loculo sotterraneo a pianta semicircolare.

L’aria aveva uno strano sentore di funghi, di muffa, di polvere di secoli, tuttavia tutto aU’intemo appariva stranamente ordinato, come se la mano pietosa che ave­va predisposto la sepoltura avesse compiuto ogni gesto con infinita attenzione e amore: il corredo funebre era stato deposto accuratamente intorno a ciò che restava delle spoglie mortali del defunto e le pareti recavano ancora pallide tracce di affreschi. Nessuno aveva mai violato la sepoltura nel corso dei secoli.

I ragazzi trovarono immediatamente conferma di quanto aveva detto Valerio sulla ripetizione, anche all’intemo, della strana simbologia zoomorfa:2) picchio e aquila erano scolpiti con estrema perizia e gli animali erano perfettamente riconoscibili in ogni dettaglio.

Oltre agli animali, erano incise nella pietra anche tre figure di esseri umani. La prima era una donna bellissi­ma con indiscutibili insegne regali, un diadema sul capo e una veste semplice ma raffinata.

La seconda figura rappresentava un uomo alto e robusto, dal profilo aquilino, indubbiamente greco. Ai suoi piedi era posato un remo.

La terza figura, infine, era un giovane dallo sguardo fiero, sulla cui spalla destra era posato un picchio e su quella sinistra uno strano scudo a scacchiera con un’a­quila al centro. Anch’egli, come la donna, denotava ran­go regale e, cosa straordinaria, al collo recava il meda­glione che ormai i tre amici conoscevano perfettamente in ogni particolare: infatti il gioiello era lo stesso scolpito sul vaso di Itaca e sulla parete della Grotta delle Ninfe.

Martina sfiorò incantata la figura della donna e, non appena le sue dita toccarono quel viso bello e triste allo stesso tempo, nella piccola tomba si levò come per magia un canto struggente.Una voce limpida e armoniosa risuonò tra le anguste pareti, avvolse i presenti come un’improvvisa folata di vento; pur senza parole, seppe trasmettere ai loro cuori un sentimento di amore, rimpianto e angoscia che stordì gli animi, catturò i pensieri facendo rivivere in un solo momento tutto il dolore di una vita vissuta quasi tremila anni prima.

«E’ lei» sussurrò Martina, mentre, per l’intensa emo­zione, grosse lacrime le rotolavano sulle guance pallide e impolverate. «L’abbiamo trovata, finalmente. E la trovò anche Ulisse…»

Volse lo sguardo ai poveri resti mortali composti in una nicchia: sul capo giaceva ancora il diadema. Il cor­redo funebre era ricco e prezioso, ma non fu degnato che di un fuggevole sguardo.

Anche Marcello si era emozionato a quel canto strug­gente, che cessò in dissolvenza quando Martina, a fatica, staccò le dita dalla parete.

Brando, assai turbato, si schiarì rumorosamente la voce che pareva non voler uscire dalla gola. «Ehm… ragazzi, penso che possiamo andare» bisbigliò non muo­vendosi però di un passo verso l’uscita della tomba, ma anzi, continuando le sue riflessioni sussurrate.

«La povera Canente ha cantato un’ultima volta per noi, che l’abbiamo tanto cercata.

«Siamo anche certi che la profezia di Tiresia si avverò e pure Ulisse la trovò e tenne fede alla promessa fatta a Picus. In più, a quanto ne deduco, donò al figlio il medaglione ricevuto da Circe.

«Per inciso, è ovvio che quel ragazzo è il figlio di Picus: ha un picchio posato sulla spalla. E sembra che l’amuleto gli abbia portato fortuna, perché nell’immagine che lo raffigura egli è chiaramente rappresentato come un re.»

Terminata la spiegazione con l’istrionismo degno di un consumato attore, Brando si avviò finalmente all’u­scita della tomba. Giunti in pochi attimi alla fine del breve corridoio di accesso, solo Martina si voltò indietro e sussurrò un saluto accorato: «Addio, Canente. Ti pro­metto che nessuno conoscerà la tua storia. Resterai un mito per tutti, tranne che per noi che ti abbiamo tanto cercata. E se vorrai ancora cantare per me… be’, fallo pure quando vuoi…».

Fuori, nel campo arato per metà, il carabiniere mon­tava ancora la guardia, passeggiando intorno al peri­metro recintato dell’area di scavo e chiacchierando al cellulare con chissà chi.

Quando vide riemergere i tre, li apostrofò ridacchian­do: «Vi siete divertiti, eh? ma cosa c’era là dentro, un concerto di musica lirica?».

«No, signor carabiniere» rispose Brando, «è solo che quando la nostra amica qui si emoziona le viene da cantare e non la smette più! Prima che ce ne andiamo, ci deve perquisire, per caso?»

«No, per carità, andate pure. Il professor Manfredi mi ha garantito che siete dei bravi ragazzi, un po’ strambi, magari, ma seri, studiosi e onesti. Anzi, mi ha anche detto che, qualsiasi movimento o rumore avessi senti­to provenire dall’interno, non sarei dovuto intervenire per nessuna ragione, tranne in caso di palese richiesta di aiuto da parte vostra. Mi ha confidato che vi aveva assegnato un esperimento particolare, da non divulgare e io sarò muto come una tomba, state tranquilli. Arrive­derci, dunque, e spero che resperimento sia riuscito.»

«Sì, sì, arrivederci e grazie tante» risposero all’unisono i tre, che scapparono poi di corsa sul viottolo per non scop­piare a ridere in faccia all’ingenuo carabiniere credulone.

Dopo aver ripreso fiato e un’andatura normale, Mar­cello espresse i suoi dubbi sulla vicenda, non mancando di estremo realismo e concretezza: «Brando, stavo pen­sando una cosa: ma il medaglione dov’è finito e cosa significa quella strana specie di scacchiera con dentro l’aquila che… come vogliamo chiamarlo, Picus junior, ha su una spalla?».

La risposta di Brando fu pronta: «Dove sia finito il medaglione, lo scopriremo, non ti preoccupare. Riguar­do all’altra domanda, posso risponderti subito e senza alcun dubbio: quello scudo a scacchiera con dentro l’a­quila è il primo esempio di quello che divenne poi nei secoli l’emblema della famiglia dei Pico della Mirando­la. Perché, non l’avevi ancora capito?».

1) Crime scene (inglese) : scena del crimine. In America la polizia delimita la scena di un delitto con un nastro giallo riportante tale scritta per evitare che il luogo e le eventuali prove presenti vengano contaminate, prima dell’ef­fettuazione dei rilievi da parte della Scientifica.

 2) Zoomorfa: a forma di animale.

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