I giorni della Repubblica Sociale Italiana e della Liberazione nella Bassa Modenese

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Pubblichiamo per intero il commovente racconto di Nerino Barbieri presentato in Sala Trionfini il 1° aprile 2023 sui terribili fatti che hanno sconvolto la Bassa Modenese durante i due anni di Repubblica Sociale Fascista fino ai giorni della liberazione.

Letta a tre voci con l’aiuto di Maria Palumbo e Maurizio Bonzagni. Una testimonianza di fatti a noi vicini che non devono essere dimenticati.

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I giorni della Repubblica Sociale Italiana e della Liberazione nella Bassa Modenese 

( settembre 1943 / 23 aprile 1945)

«Un popolo quando dimentica il suo passato è destinato a ripeterlo»(George Santayana)

 1)Introduzione

Oggi torniamo indietro nel tempo di circa 80 anni. Torniamo alla 2° guerra mondiale, ai giorni della “Repubblica Sociale Italiana”, giorni tragici di terrore e di dolore. E poi a quelli successivi della Liberazione, con i momenti di gioia per il sollievo dell’arrivo degli americani che ci liberarono dalle crudeli Brigate Nere delle milizie fasciste e dai tedeschi.

Faremo memoria di avvenimenti e di episodi che la gran parte di voi, per ragioni di età, fortunatamente non ha vissuto, i cui protagonisti furono i nostri padri e i nostri nonni, che scrissero pagine dolorose, strazianti e drammatiche della nostra storia della Bassa Modenese. Cronache di fatti da me e da altri amici raccolte dopo la guerra, parlando con i sopravvissuti.

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Era il 10 giugno 1940, quando il Duce, con un discorso radiotrasmesso nelle piazze d’Italia, annunciava che “la dichiarazione di guerra era, in quel momento, consegnata agli ambasciatori di Inghilterra e di Francia” e dalle piazze stracolme di gente si levarono lunghi applausi.  Non era consentito dissentire pubblicamente ma alla sera, nel chiuso della nostra casa, mia madre si mise a piangere al pensiero dei suoi fratelli morti nella guerra del ‘15-18, e mio padre imprecò, inveendo che non era giusto che un uomo solo avesse il potere di mandare a morire tanta gente.  Ma era inutile recriminare: in Italia c’era Mussolini, che tutti chiamavano con rispetto “Duce”, pensava e decideva per tutti.

Cominciava così la 2a guerra mondiale che ben presto si sarebbe trasformata in una tragedia umana. Quegli applausi sarebbero diventati imprecazioni e maledizioni. Ogni giorno si sarebbero pianti sempre più soldati morti in Africa, in Grecia, in Russia e ovunque si combatteva. Dopo 3 anni la guerra era perduta. L’Italia era stremata e alla fame.  I morti erano troppi. Tanti i prigionieri. L’Impero in Africa non c’era più.  Anche il consenso al regime era scomparso. Gli inglesi e gli americani avevano già occupato la Sicilia. Il 25 luglio ’43 il fascismo crollava, Mussolini veniva sostituito dal governo del generale Badoglio.

Arriviamo all’8 settembre del 1943, l’Italia chiede l’armistizio: l’esercito tedesco interviene e occupa il centro nord dell’Italia, il Governo Badoglio e il Re fuggono a Brindisi già liberata dagli Alleati. I tedeschi prendevano il comando della situazione e imponevano nell’Italia occupata un Governo con a capo Mussolini. Nasceva così la Repubblica Sociale Italiana, che esercitava il potere per 20 mesi soltanto sui territori occupati dai tedeschi. Fatte queste doverose premesse, cominciamo a raccontare.

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Inizia il periodo il più atroce, il più crudele, della nostra storia!  I giovani in età militare devono fare una scelta non facile, per i drammi personali e famigliari di chi doveva decidere.

O stare con i padroni del momento, che erano i tedeschi: voleva dire arruolarsi nella Brigata nera, combattere a fianco degli invasori tedeschi contro altri italiani; voleva dire partecipare ai rastrellamenti e alla fucilazione di altri italiani; voleva dire consegnare gli ebrei italiani da inviare in Germania a morire nelle camere a gas.

Come Ada Osima, la farmacista di Finale Emilia, ebrea e cittadina italiana, che nell’ottobre del ‘43 venne rastrellata da italiani. Consegnata ai tedeschi per morire di stenti ad Auschwitz.

Oppure si poteva non ubbidire era l’altra scelta di campo: voleva dire stare con il legittimo governo del Re. Ma c’era il rischio della fucilazione o di essere inviati in Germania.  Il ribellarsi fu lo schierarsi contro le aberrazioni delle camere a gas e contro l’oppressione sui popoli giudicati inferiori.

2)Il soccorso agli ebrei

I tedeschi impongono le loro leggi. Nei giorni che seguirono l’8 settembre la questione ebraica esplode in tutta la sua drammaticità. Mentre le autorità fasciste collaborano attivamente con i tedeschi nella caccia agli ebrei, la nostra popolazione scrive bellissime pagine di solidarietà ed esprime gesti inimmaginabili per salvarli. Vanno ricordati:

Silvio Borghi faceva il casaro a Mortizzuolo, e aprì la strada a don Sala e a Odoardo Focherini nel salvataggio degli ebrei.  Fece il suo primo viaggio nell’ottobre 1943, accompagnando in Svizzera i Talvi, famiglia di ebrei confinati a Mirandola.

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Parte di mattino da Mortizzuolo con i 7 ebrei ricercati, non passano da Mirandola, dove potevano essere riconosciuti, ma si recano direttamente alla stazione di Camurana per raggiungere Modena con il trenino della Sefta. Arrivati a Modena cambiano stazione prendendo il tram. Durante il percorso il gruppo s’imbatté nel questore di Mirandola, il dott. Tedesco, che al di là del cognome che portava si comportò da buon italiano.

Vedendo i ricercati con le valigie in compagnia di Silvio, chiese dove stessero andando. A quel punto Alice, incinta di 8 mesi, cadde a terra svenuta. Il Questore, che fortunatamente era solo, rimase un attimo pensieroso, poi rivolgendosi a Silvio in dialetto, mirandolese, mettendogli la mano sulla spalla, disse “Me an n’ho vist gnent!” (Io non ho visto niente!).

In preda alla paura, ripresero il viaggio. Arrivati a Cernobbio, Silvio affidava a un vecchio commilitone, Dino Riva, gli infelici che con lui oltrepassavano il confine di notte, raggiungendo la salvezza in Svizzera. Questi accompagnamenti con lo stesso itinerario proseguirono con don Sala.

Don Dante Sala era parroco a San Martino Spino. Ciò che fece con Odoardo Focherini salvò 107 ebrei. Proseguendo l’opera di Silvio Borghi, accompagnò gli ebrei a Cernobbio facendoli varcare il confine. Per questo fu anche arrestato, per essere poi liberato grazie all’intervento del Vescovo di Como.

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Odoardo Focherini. Aveva 37 anni, 7 figli, giornalista e amministratore del giornale cattolico “Avvenire d’Italia”, abitava a Mirandola, vicino alla Madonnina. Per dare un’idea di questo uomo si pensi che in occasione di una fuga da lui organizzata di una famiglia ebrea non esitò a dare fondo al suo conto corrente per finanziarla.  Fu arrestato all’Ospedale di Carpi, a fianco del letto di un israelita, Enrico Donati, che egli aveva fatto uscire dal Campo di Fossoli con il pretesto di un intervento chirurgico urgente, inventando una malattia inesistente per farlo fuggire. Lasciò la moglie sola nella casa di Mirandola con 7 bambini in tenera età.

Venne deportato nel campo di Herrsbruck. Costretto a lavori durissimi in miniera. Lavori concepiti per portare quegli esseri denutriti all’esaurimento fisico e condurli così lentamente alla morte.  Odoardo capisce che sta andando verso la fine, ma non si lasciò sfuggire mai una parola di rammarico per quello che aveva fatto. Alla moglie scriveva: “Se tu vedessi come oggi sono qui trattati gli ebrei, rimpiangeresti di non averne salvati un numero maggiore!”.

Ridotto ad esile figura, a soli 37 anni di età, il 24 dicembre del ‘44, muore nello squallore del lager.  Muore come era sempre vissuto, da cristiano. “Dichiaro di morire nella fede cattolica, nella piena sottomissione alla volontà di Dio. Offro la mia vita per il ritorno della pace nel mondo” E ancora con l’ultimo soffio di vita rivolto al compagno di sventura Teresio Olivelli disse “Ti prego di riferire a mia moglie che le sono sempre stato fedele, l’ho sempre rispettata, l’ho sempre pensata e sempre intensamente amata!”.  Il suo corpo non ha una tomba. Teresio Olivelli, dopo averlo baciato in fronte, dovette lasciarlo ai seppellitori che si allontanarono con il suo corpo per nessuno sa dove.

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Don Benedetto Richeldi era sacerdote a Massa. Con falsi documenti forniti dall’impiegato comunale Carlo Farina, poneva in salvo gli israeliti di Finale. Toccante è l’episodio, che lui stesso ha raccontato, in cui mise in salvo il medico Roberto Finzi, che nel momento del pericolo, per sfuggire alla morte, si rifugiò in canonica.

“Era un povero vecchio in uno stato di agitazione tremenda, racconterà, la voce tremolante che continuamente ripeteva “Reverendo io cerco aiuto!”. E l’aiuto glielo diede prontamente, travestendo da frate questo medico ebreo e accompagnandolo in bicicletta a Mirandola nel Convento dei Francescani, dove fu ospitato sempre travestito da frate per tutto il periodo bellico.

Questi eroi: Silvio Borghi, don Dante Sala, Odoardo Focherini e don Benedetto Richeldi hanno ricevuto l’onorificenza di “Giusto tra le nazioni” dal popolo israelita. Quattro alberi stanno crescendo dedicati a loro sul monte della Rimembranza a Gerusalemme, che ricorda i giusti non ebrei che hanno salvato le vite ad ebrei durante la Shoah.

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Il soccorrere gli ebrei non era solo solidarietà umana e carità cristiana nei confronti di perseguitati, era anche una rivolta morale.  Vi era la consapevolezza di operare contro un esercito straniero, contro il fascismo.  Si era coscienti che se scoperti si affrontava l’arresto e la consegna ai tedeschi, come accadde al nostro Odoardo Focherini, dichiarato “Beato” dalla Chiesa nel 2013.

3)Le rappresaglie

Nel luglio del 1944comincia la spirale della violenza con le rappresaglie. Vendette degli oppressori nei confronti di persone innocenti, persone senza nessuna colpa.  Il 10 luglio 1944 a Genova venivano uccisi 7 soldati tedeschi. Due giorni dopo, 70 prigionieri italiani del Campo di Fossoli furono fucilati a Cibeno. A 300 km di distanza da Genova si esercitava una rappresaglia: per ogni tedesco ucciso venivano fucilati 10 italiani innocenti.

Il 7 agosto del 1944, quando ancora nella Bassa non si erano ancora verificati attentati, nove persone arrestate, mai interrogate, vennero portate di notte sul sagrato della Chiesa di Rovereto, dove trovarono un plotone di esecuzione.  Solo allora intuirono la loro sorte.  Erano Barbato Zannoni di Concordia, insegnante nelle scuole di Mirandola, il dottor Alfredo Braghiroli di San Possidonio, che chiedeva l’assistenza di un sacerdote ma gli venne negata, Golinelli Jonas, Maxia Francesco e Zoldi Canzio di Novi, Luigi Manfredini e il figlio Silvio di Sant’Antonio Mercadello, e Garusi Aldo di Vallalta. Era una rappresaglia preventiva per destare solamente terrore e orrore. Fu la prima strage nella Bassa, senza motivazione alcuna. I nove fucilati erano tutte persone note, ben volute e stimate. Con la sola colpa di aver manifestato avversione al fascismo.

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Il sangue cominciava a scorrere a fiumi. Iniziava la guerra agli italiani. Una guerra fatta di terrore e di atrocità, con impiccagioni agli alberi e fucilazioni nelle piazze.  Nel giro di 2 mesi vennero messe a morte a nord della via Emilia 117 persone in 8 rappresaglie diverse: a Cibeno, a Rovereto, a Ravarino, a Carpi, a S. Giacomo Roncole.

4) La Ribellione

A metà agosto del ‘44 esplode la rivolta armata. È la prima ribellione armata, da quando esisteva il Regno d’Italia. Le tante carneficine immotivate provocarono una rivolta.  La lotta armata era giustificata dal voler “essere noi i padroni in casa nostra, con regole di civile convivenza”.  Gruppi di giovani armati insorgono nella Bassa, legati al partito comunista, al movimento di Giustizia e Libertà, alle parrocchie. 

I giovani in età militare si chiedevano se era lecito ribellarsi. Si interrogavano se “c’era il diritto di ricorrere alle armi” per liberarsi da queste crudeltà. Coloro che frequentavano le parrocchie si consigliavano con il loro sacerdote, trovando delle risposte in Sant’Agostino del 3°secolo e in San Tommaso del medioevo, che ritenevano lecito insorgere e uccidere il tiranno quando questi priva l’uomo del suo bene fondamentale che è la libertà e quando lo priva del suo diritto essenziale che è la vita.

Condizioni che nella Repubblica Sociale, con le sue rappresaglie e le stragi di innocenti, erano già state create giustificando ampiamente il prendere le armi in mano.

In quei giorni, a Ravarino avveniva un altro eccidio. Il Reggente del Fascio si feriva accidentalmente alla mano da solo con la rivoltella. Imbarazzato, per non essere schernito riferì di essere stato aggredito. Arrivarono i brigatisti neri, entrarono nelle case, prelevarono 20 persone, le portarono in piazza e ne fucilarono cinque.

Il 13 agosto 44 avviene la prima violenta rivolta a Carpi con l’uccisione del console Filiberto Nannini, un componente del “Tribunale speciale” colpevole di aver emesso molte condanne a morte di innocenti.  Benché avesse espresso la volontà che la sua morte non fosse vendicata con sangue innocente, il colonnello Petti delle Brigate Nere ordinò la fucilazione di 120 persone da rastrellare. Intervenne il Vescovo Federico Dalla Zuanna che supplicò di evitare la strage, appellandosi alla volontà del Nannini stesso.  Alla fine di un’accesa discussione in Duomo con il colonnello Petti, tra urla e minacce allo stesso Vescovo che aveva offerto la propria vita in sostituzione a quella delle vittime designate, il loro numero fu ridotto a sedici.

Nel pomeriggio del 16 agosto, alcuni famigliari si recarono presso il luogo dove erano detenuti i condannati per avere loro notizie. Ma poterono soltanto udire a distanza le urla bestiali dei carnefici e le grida strazianti di dolore per le torture subite dei condannati.  Si conobbe poi a quali sevizie furono sottoposti: ad alcuni furono strappate le unghie delle mani e dei piedi, altri ebbero le costole e le braccia rotte, tutti con i volti deturpati e irriconoscibili.  Tra questi vi erano Enzo Bulgarelli di S. Felice, un organizzatore della resistenza cattolica e Remo Brunatti di Mirandola, responsabile di quella comunista.

Verso sera, i 16 giovani furono portati in piazza a Carpi.  Incapaci di reggersi in piedi per le torture, furono fatti sdraiare con la pancia a terra sul selciato e un reparto di Brigate Nere, al canto di “Vincere”, li uccideva a raffiche di mitra.

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Tra i sedici giustiziati vi era un bracciante agricolo, Arturo Aguzzoli, 29 anni e padre di 4 bambini.  Toccante, lucida, disperata la lettera di addio alla moglie: «Cara, scriveva, mi raccomando i miei bambini, vi saluto tutti, io non ritorno più, io muoio, vendicatemi!».  Chissà quanti subirono atroci torture e ingiustamente condannati a morte avranno invocato la vendetta!

La tortura era praticata per estorcere le confessioni con crudeltà oltre ai limiti della sopportazione umana, come lo strappo delle unghie, le frustate e le bastonate, la rottura di arti, l’uso di ferro rovente o di tizzoni accesi, o lo spegnimento di sigarette nelle parti intime, o le percosse con appositi guantoni indossati dagli aguzzini a difesa delle loro mani.  Continuare in queste descrizioni fa venire i brividi, raggela il sangue.

Nives Barbieri parlando con don Elio Vescovini, prete a Rivara, entrambi detenuti a Mirandola, all’uscita della camera di tortura, con il volto tumefatto e sanguinante esclamò: “mi hanno fatto dire cose che non sapevo e non conoscevo!”

5) La decapitazione della Resistenza cattolica

Fascisti e tedeschi setacciano le zone dove è presente la guerriglia e la popolazione deve subirne la brutalità. Compaiono sulle strade cartelli in lingua tedesca di avvertimento alle loro truppe: “Achtung Banditen”, che significava: Attenzione zona infestata da partigiani.

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Ai primi di settembre sono arrestati nella Bassa 4 sacerdoti, tra cui don Ivo Silingardi, e 15 giovani di don Zeno, che facevano parte delle Brigate Italia.

Fatalità volle che in quei giorni venisse ucciso un tedesco in via S. Liberata di San Giacomo. Per rappresaglia 6 di questi prigionieri vengono torturati e impiccati nella stessa San Giacomo agli alberi nei pressi della Chiesa e del “Casinone”, dove erano alloggiati i bambini dell’Opera Piccoli Apostoli di don Zeno.  A Luciano Minelli, che toccava terra con i piedi e che gridava “Viva l’Italia!”, un repubblichino gli sparò in fronte, squarciandogli la testa.

Crudele e aberrante: i corpi dei giovani impiccati, straziati dalle torture, con i volti deturpati, furono lasciati penzolare per giorni dinanzi agli occhi inorriditi di 150 bambini dell’Opera Piccoli Apostoli e dei passanti.  Questo massacro, così agghiacciante, è raccontato da una testimone, Norina Galavotti mamma di vocazione nell’Opera di don Zeno:

«Accadde il 30 settembre, un sabato mattina, a Mirandola c’era il mercato e di gente ne passava parecchia.  Verso le 9,30 arrivarono dei camion con dei fascisti che ci imposero di chiudere le finestre del Casinone e di non aprirle se non erano loro a dare il permesso. Era appena entrata in chiesa una coppia di giovani per sposarsi. Noi cercavamo di capire cosa stesse succedendo, ma avevano i mitra puntati verso di noi, dovevamo stare molto cauti.  C’era un gran movimento di macchine e di camion, non si capiva cosa succedeva.

Si sentiva ogni tanto qualche urlo che non aveva nulla di umano, poi qualche sparo, ma non si riusciva a capire di più.  Poi piano piano le macchine incominciarono a sparire, ma nessuno ci disse di riaprire le finestre.

Quando non sentimmo più nulla, trovammo il coraggio di aprirle. Uno spettacolo orribile si presentò ai nostri occhi, ad ogni palo della luce c’era impiccato un uomo. Mentre due giovani si stavano sposando, davanti all’ingresso della chiesa, al palo della luce, avevano impiccato Enea Zanoli, in modo che il corteo, uscendo avrebbe avuto un giovane appeso come prima visione.  Ricordo benissimo che vidi aprire la porta grande della chiesa e i primi ad apparire furono gli sposi: la povera sposina lanciò un urlo, tornarono in chiesa e uscirono dal retro.

Fui la prima a dirigermi verso quei poveretti.  Fatti pochi passi verso la Statale, sentii le urla strazianti di una donna, l’Amelia Ganzerli, che tornava da Mirandola.  Trovò appeso a un palo il proprio figlio, Adriano.  Glielo avevano portato via da tempo e di lui non ne aveva più saputo nulla.   Buttò per terra la bicicletta e corse verso il palo.  Tentò di sollevare il figlio piangendo e urlando, ma vicino una guardia fascista che, fra l’altro era un suo vicino di casa, la mandò via minacciandola.

Alcune donne riuscirono a staccarla dal figlio.  Adriano Barbieri aveva 19 anni.  Lei continuava a dirgli: “Ti ho sognato che disperato mi chiamavi”.  Quei sei poveri ragazzi furono lasciati lì appesi per 3 giorni”.  

«Il giorno dopo che pioveva, la mamma di Adriano, la povera Amelia, ritornava con l’ombrello per riparare dalla pioggia il cadavere del figlio, ma veniva di nuovo cacciata a calci. Ma ci possono essere attimi più crudeli? Momenti più terrificanti?».

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6) Fucilati e impiccati ovunque

Verso la fine di settembre, la brigata nera con cani poliziotto cominciava ad ispezionare i casolari sparsi nelle campagne alla ricerca di persone renitenti alla leva. La prima vittima di questi rastrellamenti, il 26 settembre, fu il bracciante agricolo di 26 anni, Giuseppe Bordini di Santa Caterina, che, rincorso, veniva ucciso a Vallalta mentre fuggiva.

Il 27 novembre vengono uccisi dei cittadini inermi che con la resistenza non avevano nulla a che fare. Tre giovani di San Giacomo Roncole, in possesso di regolari permessi per recarsi al lavoro, Tonino Morandi, Adelio Carreri e Ivo Mantovani, tutti 19enni, mentre andavano alla Todt, un’organizzazione che operava per l’esercito tedesco, incontrano la Brigata nera e senza alcuna ragione vengono trucidati, solo allo scopo di terrorizzare. 

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Erano da poco stati uccisi quando arrivò la mamma di Ivo Mantovani e cominciò a urlare disperata inveendo contro i delinquenti brigatisti.  Ma questi senza alcuna pietà la rimandarono a casa minacciandola di farle fare la stessa fine. Vedere uscire di casa figli sani e robusti e dopo poco vederli a terra immersi nel proprio sangue senza nemmeno poter avvicinarsi per piangerli, attendendo che i fascisti se ne fossero andati, è un pensiero straziante. L’anno dopo il papà di Adelio, Ferruccio Carreri, si sparava sulla tomba del figlio.

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I partigiani conducevano una vita da braccati. Si nascondevano nei fienili, nelle stalle e nei rifugi sottoterra per non essere catturati. Non potevano ritornare nelle proprie case perché sarebbero stati arrestati e impiccati. Vivevano a carico di contadini e di mezzadri che, se scoperti, avrebbero pagato la loro ospitalità con la vita e con l’incendio della loro casa. Così il 27 novembre 1944 a Concordia i repubblichini incendiano la casa di Giuseppe Smerrieri, dopo avervi catturato Isolino Roversi, Venizelos Bulgarelli e Azelio Ballerini. Dopo essere stati sottoposti a tortura, i partigiani venivano fucilati a ridosso del Secchia, con loro lo stesso Smerrieri che li aveva generosamente nascosti.

A Novi il primo dicembre viene rastrellato un giovane, Renzo Gasparini, di 18 anni. Interrogato non “cantava” e i carnefici sfogarono il loro odio con atroci torture fino a deturparne completamente il volto.  Venne portato a Novellara, dove rimase fino al 5 dicembre. Dopo, di lui non si seppe più nulla. Ai primi di febbraio del ‘45, quando il sole sciolse la neve, una macabra scoperta veniva fatta vicino al cimitero: la neve e il gelo avevano conservato il suo corpo così come lo avevano lasciato, mani legate dietro la schiena con un filo di ferro e le carni martoriate di colpi.  I genitori lo credevano deportato in Germania. Con il suo eroico silenzio, Renzo aveva salvato molti altri italiani.

A San Martino Spino, venivano arrestati i giovani Oles Pecorari, Cesarino Calanca e Mario Borghi per possesso di armi ottenute con un aviolancio degli alleati.  Venutone a conoscenza il Vescovo Federico Dalla Zuanna si recò immediatamente, con un vecchio calesse trainato da un cavallo guidato da Quinto Ceresola, al Comando tedesco, ma ottenne soltanto gentili parole e nulla di più. A niente valsero le sue preghiere, le autorità prepararono in tutta fretta un processo nel palazzo di Porto Vecchio e condannò a morte i prigionieri.

Don Sala, già liberato dal carcere, trascorse la notte con loro. I giovani si confessarono e accettarono di perdonare.  Accompagnati dal sacerdote, furono condotti davanti al cimitero. Il comandante tedesco chiese se avessero qualcosa da dire. Parlò Oles Pecorari: “Noi moriamo per l’Italia, dite a mia madre che porti tanti fiori sulle nostre tombe, che faccia dire ogni mese una S. Messa e faccia accendere delle candele alla Madonna per tutti e tre.  Chiedo che i soldati facciano centro sul mio petto e non sul viso, perché desidero che mia madre possa piangere sul mio volto non deturpato”.  Era il 13 dicembre del 1944.

Don Sala racconterà: “Non riesco ancora a dimenticare il gesto di quel feroce comandante tedesco, che pieno di odio si avvicinò al corpo esanime del Pecorari per sparare ancora alcuni colpi sul suo volto per il quale il giovane aveva implorato pietà non per sé, ma per sua madre!”

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A Cavezzo, il 26 gennaio 1945, avvenne un’altra tragedia. 3 giovani partigiani nel tentativo di distruggere in Comune i registri di leva e gli elenchi delle requisizioni del bestiame si scontrano con i tedeschi. È giorno di mercato. Nella sparatoria, Ermes Saltini muore, Elio Sommacal di 16 anni rimane agonizzante e vengono subito entrambi impiccati. Un ragazzo di 18anni, è a terra ferito e chiede di essere curato all’ospedale ma i tedeschi gli dicono per ben due volte: “Se ci dici chi sono i tuoi capi ti portiamo all’ospedale, altrimenti ti impicchiamo”. Così dicendo indicano il tiglio vicino.  Ezio, inorridito, alza gli occhi verso l’albero, poi fissa la folla e grida forte per due volte: “No, io non tradisco!”. 

La gente guarda terrorizzata il ferito con il viso contratto dal dolore. Ezio non distoglie lo sguardo dai suoi compagni già appesi. Poi il giovane volge gli occhi verso la folla come per un ultimo saluto e rivolto di nuovo al tedesco scuote la testa ripetendo con forza: “No! Non tradisco!”.  I militari tedeschi gli mettono un cappio al collo e lo appendono all’albero. Si seppe in seguito che si chiamava Ezio Pavan, e faceva parte dei Piccoli Apostoli di don Zeno. Morì da italiano e da eroe per non tradire i compagni.  La costernazione fu enorme. Per due giorni la popolazione fu costretta a vedere i tre giovani appesi agli alberi.

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Il 12 febbraio 1945 viene impiccato per rappresaglia a causa di un tedesco ucciso, Omero Lancelotti, 19 anni di San Prospero, con altri 7 amici. In carcere non tradì i compagni sopportando torture indescrivibili per due mesi.  La lapide ricorda che Omero: “Nulla ha chiesto, nulla ha avuto, e tutto ha dato per la causa della nostra libertà”. 

Ogni giorno uccidevano sempre qualcuno. Ogni giorno portava sempre le stesse notizie: partigiani fucilati a Concordia, un impiccato a Cavezzo, una rappresaglia a Mirandola, una fucilazione a San Possidonio.

A Mirandola, il 22 febbraio 1945, un maresciallo tedesco venne ucciso da un partigiano di sedici anni.  Il Comando germanico ordinò per rappresaglia l’uccisione di cinque partigiani già detenuti. Il giorno seguente, i tedeschi prelevano dalle celle dell’Accademia di Modena i condannati e li portarono a Mirandola lungo la strada che va a Verona, dove furono impiccati.  Scene strazianti e urla disperate si ripetevano all’arrivo di un congiunto che riconosceva un suo caro e che disgusto quando un balordo nella piazza invitava i passanti ad andare a vedere i 5 salami impiccati lungo i viali.

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I tempi sono difficilissimi. Tutti erano alla fame ma nonostante questo i tedeschi requisivano i viveri per le loro truppe.  Mancava il pane e il companatico. Nella notte del 27 febbraio, 5 partigiani, tutti ragazzi di don Zeno, si recarono in un Caseificio di S. Giacomo, per ritirare, d’accordo con il proprietario Castagnetti, una partita di formaggio e burro non ancora requisita, per distribuirla alle famiglie più bisognose.

Appena entrati, furono circondati dai tedeschi. Resistettero fino all’esaurimento delle munizioni. Renzo Fregni tentò l’uscita da una finestra, ma fu falciato da una raffica di mitra. In una sua tasca venne trovato, bagnato dal suo sangue, un foglio dattiloscritto con un elenco di nomi di capifamiglia poveri che dovevano essere aiutati con la distribuzione gratuita di quei viveri.

Piuttosto che cadere vivi nelle mani dei torturatori i suoi compagni preferirono togliersi la vita, riservando a se stessi le ultime munizioni. Enzo Benatti si sparò al cuore con l’ultima pallottola. Il fratello Ermete, Renzo Dotti e Felicino Raimondi si strinsero in un cerchio e, tolta la sicura all’ultima bomba a mano, la fecero esplodere in mezzo a loro. Morirono così orribilmente straziati, con i loro poveri corpi fatti a pezzi.

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7) La Brigata Pappalardo a Concordia

In un clima di terrore e di morte, ai primi di febbraio, arrivava a Concordia la Brigata Nera Pappalardo, un’unità di 300 uomini addestrata nella lotta anti partigiana, comandata da Franz Pagliani, un medico nato nella stessa Concordia. Una Brigata composta da fanatici, per la cui ferocia il generale tedesco Von Sengen li aveva addirittura allontanati da Bologna.

Dal giorno dell’arrivo a Concordia ai primi di aprile quando si traferì la Brigata Pappalardo operò ogni giorno dei rastrellamenti. Arrestava decine e decine di persone, una trentina furono massacrate nel solo Comune di Concordia e altrettante nei Comuni limitrofi, a centinaia subirono le torture più barbare. Perquisivano il paese casa per casa, arrestavano tra i tanti, Antichiano Martini, Osvaldo Morselli, Elmore Cavazza, Edmondo Malagoli, Gina Borellini, Migliorino Frati.

Nella notte del 24 febbraio i partigiani assalirono la loro caserma, alloggiata nella scuola di Concordia. L’obiettivo era di colpire il centro da dove partivano i rastrellamenti e di liberare i prigionieri ma fallì. Entrare era impossibile: le perdite umane sarebbero state ingenti e il sopraggiungere delle luci del giorno avrebbe lasciato allo scoperto le formazioni partigiane, rendendo difficile il loro rientro. Le strade sarebbero state piene di tedeschi e la campagna, che era priva di vegetazione, non avrebbe offerto alcun nascondiglio.

All’indomani la Brigata nera bruciò sei case e fucilò tre di nove prigionieri davanti al cimitero: Migliorino Frati, Realino Silvestri e Duilio Borellini. Gli altri, che erano detenuti nella caserma, tra cui Antichiano Martini e Osvaldo Morselli, furono trasferiti a Modena per venire poi fucilati in Piazza d’Armi il 19 marzo. Prima della fucilazione tentarono il suicidio per il timore di non reggere alle torture.   Antichiano Martini morì stringendo la foto del figlio Euro tra le mani.

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È il 3 marzo 1945, a Cavezzo vengono uccisi due giovani partigiani: Giovanni Benatti e il cognato Renzo Iemma. Strazianti le loro morti. La Brigata nera li sorprese in casa con delle armi e li fucilava sotto gli occhi dei familiari senza però colpirli mortalmente. Fu dato fuoco alla casa e impedito alla anziana madre del Benatti di soccorrere il figlio e il genero, agonizzanti sull’aia, al freddo in mezzo alla neve, per diverse ore prima di morire.

Il 10 marzo una pattuglia della Brigata Nera si dirige verso un rifugio in località Mulin di Mezzo, per una delazione che vi indicava la presenza di partigiani. Trova sette “ribelli”, li circonda e li costringe a uscire a mani alzate dal rifugio, poi li giustizia immediatamente in virtù della consuetudine di eliminare sul posto i partigiani colti in flagranza. Nel pomeriggio l’anziano fabbro Ascanio Gelatti di Concordia, reo di aver manutenzionato le armi agli uomini della Resistenza, fu portato nello stesso luogo della strage per essere anche lui fucilato.

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Il 18 marzo un rastrellamento della Brigata Nera sorprendeva alcuni partigiani alla Ca’ Bianca presso Fossa di Concordia. Lino Pederzoli, 22 anni, studente di medicina di Concordia, tentò di proteggere i compagni che cercavano di sottrarsi all’arresto ma rimaneva accerchiato. Senza via di scampo, si sparava con l’ultima pallottola, rimanendo però solo ferito.

Come terminarono le sofferenze del Lino? Gli misero una manciata di terra in bocca, urlando mentre lo trafiggevano con le lame delle baionette per “farlo grugnire come un porco”. Lino morì farfugliando, con la terra in bocca. Dopo il 25 aprile, gli amici di Lino, sopravvissuti grazie al suo sacrificio, prelevarono i responsabili di una tale nefandezza dalle loro case, fecero loro scavare una fossa nel terreno della Fornace Vela e li giustiziarono. 

L’Università di Modena gli attribuirà a “Honoris causa” la laurea in medicina. Io conobbi la sua famiglia anni più tardi.  La sua camera era come un museo, come l’aveva lasciata, con la scrivania, i libri di medicina, il letto con le lenzuola. In più c’era il diploma di laurea alla parete. La madre, che incontrai in età avanzata, mi ripeteva di continuo che Lino era diventato un dottore, un bravo dottore. Sarebbe ritornato e lei l’aspettava e per questo gli teneva la stanza sempre pronta. Commovente, straziante, questa povera donna, nel suo immenso dolore riviveva e sognava i ricordi e le speranze di quando il figlio era in vita.

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Il 15 marzo a Concordia veniva fucilato, davanti al cimitero, uno studente di appena 16 anni, Silvano Marelli, mentre invocava Dio.

Il 25 marzo una ragazza partigiana di Mirandola, di 25 anni, madre di un bambino di pochi mesi, Umbertina Smerieri, fu torturata, violentata e infine portata a Revere, scaraventata dal camion in un fossato e uccisa a fucilate.

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Il 29 marzo 1945, in un rastrellamento, veniva bastonato al momento del suo arresto, davanti alla Chiesa di Santa Caterina di Concordia, don Marino Morandi, perché furono scoperti dei partigiani nascosti sulle volta della chiesa. La Brigata nera, avendolo saputo e non riuscendo a trovarli, picchiò il povero parroco trascinandolo poi in carcere a Modena.

Tra i 70 sacerdoti incarcerati in quei giorni 20 erano della sola Diocesi di Carpi.

8) Gli ultimi giorni di guerra

Il 18 aprile a Mortizzuolo in via Mulinello, quando l’occupazione tedesca era ormai al termine, avveniva uno scontro armato tra i partigiani contro i tedeschi e i militi fascisti.  Perdevano la vita un marescialle tedesco e quattro militi fascisti. 

Al mattino seguente i tedeschi e i fascisti ritornarono in forze e arrestarono i fratelli Armando ed Elvino Mazzoli, che avevano ospitato durante l’inverno la Missione Alleata Stone, portandoli in Accademia a Modena. Dove subirono interrogatori, percosse e torture, uscendone malconci solo con la Liberazione degli alleati.

Nella casa di Barbi Sperindio scoprirono un rifugio pieno di armi, una grave imprudenza dei partigiani che avevano trovato rifugio a casa sua, e scattò la rappresaglia: uccisero Sperindio brutalmente davanti agli occhi di moglie e figlia, che vennero poi rinchiuse nella stalla da loro sprangata con un catenaccio appiccandovi il fuoco.  Furono tratte in salvo dalla signora Alma Mazzoli.

Al funerale del povero Sperindio c’erano solo il prete e il campanaro con biroccio e cavallo. Caricato il cadavere sul carro, il corteo partì per il cimitero: don Carnevali davanti a recitare le preghiere, poi il campanaro Alfredo che teneva il cavallo e, infine, si era aggiunto il fedele cane della vittima.

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Ci si avviava verso gli ultimi giorni di guerra. Ma la Brigata Nera compiva gli ultimi massacri a San Giovanni fucilando 5 giovani, a Santa Caterina di Concordia altri quattro e a Novi altri cinque per fuggire poi verso nord.

L’ultima infamia veniva compiuta a Cavezzo il 22 aprile, a poche ore dalla liberazione. I Brigatisti neri arrestavano 8 giovani a San Giovanni in Persiceto.  Giunti a Cavezzo, inseguiti dalle truppe americane, ammazzarono i prigionieri per fuggire più agilmente.

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Le brutalità di quei giorni portarono al desiderio di vendetta nella popolazione. Finita la guerra la reazione non poteva essere diversa da quella che fu.

Le atrocità subite non trovarono mai il perdono. Ricordo di avere intervistato negli anni ‘80 un vecchio ottantenne, il cui figlio Gastone Dondi fu massacrato di botte, poi fucilato e lasciato abbandonato in un fosso a Santa Caterina. Era ormai paralizzato e senza più forze, in lacrime mi gridava: “Se io incontro quelli, li voglio affogare con le mie mani…” ma quel pover’uomo aveva solo la forza di piangere e di gridare. Non riusciva più nemmeno ad alzare le braccia.

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9) Le incursioni aere

La morte venne anche dal cielo. Mirandola, durante il periodo di guerra, subì 105 incursioni aeree, ebbe 27 morti, molti feriti ed enormi danni. Sentiamo la cronaca del bombardamento più raccapricciante, che accadde venerdì 20 aprile a 3 giorni dalla liberazione, nella zona sud della città, dove ci troviamo adesso.

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Successe il finimondo. Una grandinata di bombe si abbatté, provocando morti, feriti e macerie.

Quattro cacciabombardieri dell’aviazione americana rovesciarono tonnellate di bombe, devastando nel giro di pochi minuti le vie Battisti, Fanti e Fenice. Avevano puntato sul Palazzo della Milizia, ma le bombe caddero fuori tiro

Colpirono il palazzo cinquecentesco dell’ex convento delle Monache di San Ludovico, dove ora ci troviamo, e il palazzo attiguo. Sedi dell’Ufficio delle Imposte e Ufficio del Registro, del Deposito dei Monopoli di Stato, di Carceri, Ufficio delle Guardie e Scuola di Musica. Una gragnola di bombe ridusse i due palazzi ad un cumulo di macerie. Un polverone irrespirabile ristagnava in mezzo allo sfacelo. Si sentiva l’odore sgradevole dei tubi di scarico sventrati. Perdeva la vita il gestore dei Monopoli, Vittorio Vincenzi di37 anni.

Successivamente un’altra bomba cadeva sul fabbricato di fronte, di proprietà Zerbini, situato a fianco del Palazzo Kraus, che ospitava la “Barberia di Loris Golinelli” e la famiglia di Ermes Covezzi.

L’ordigno sfondò il solaio ed esplose. I piani sottostanti crollarono uno sull’altro.  Si aprì una voragine nel pavimento del primo piano, che fece sprofondare nella sottostante “Barberia Loris” travi spezzate, mattoni, calcinacci e una gran quantità di grano sfuso. Chi si trovò dentro, non ebbe il tempo di fuggire. Lamenti e invocazioni di aiuto si levarono dalle macerie.  Vi furono 5 morti e 21 feriti.

Nella “Barberia Loris”, sepolti dai rottami ed asfissiati dalla montagna di grano sfuso caduto su di loro, morirono un militare tedesco ed Alberto Cavicchioli, un bambino di 6 anni, mentre Enrico, il fratellino più grande di 7, colpito da una trave in testa, cessò di vivere non avendo avuto il tempo neppure di aggrapparsi al padre Giuseppe, anch’egli dal barbiere ma sopravvissuto.  Nei sotterranei della cantina, sotto il peso delle macerie, moriva anche la piccola Maria Grazia Covezzi, una bimba di 3anni, accanto alla madre Nevia Luppi, che pur rimasta con lei intrappolata si salverà. 

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10) La pagina nera della guerra di liberazione

Poco prima dell’arrivo degli alleati, venne scritta la pagina più nera della guerra di Liberazione nella Bassa Modenese, che fece cadere molti consensi attorno alla Resistenza facendo spesso associare al nome di partigiano quello di delinquente.  Lo raccontiamo per dovere di cronaca e con tristezza. Un gruppo di partigiani di Cavezzo si era trasformato in una banda di ladri, di stupratori e di assassini, per questo uccisero i fratelli Alberto e Tina Morselli di Motta la sera del 10 aprile 1945.

Alberto che era un possidente, aiutò la Resistenza in diversi modi, consegnando addirittura ai partigiani la somma di £ 150.000, una cifra enorme a quel tempo, perché venisse fatta pervenire al Comitato di Liberazione di Modena.

Avendo in seguito appreso da Alessandro Coppi, amico e presidente di quel Comitato, che a destinazione ne erano arrivate solo 100.000, minacciò di far punire chi si era trattenuto per sé quanto mancava.

Per questo motivo furono uccisi e i loro corpi ritrovati solo nel 1949, lungo un filare di viti sul Secchia. I particolari sulla loro fine emersero nel corso del processo.

Agghiacciante fu la confessione resa da Egidio Sighinolfi: “La Morselli Tina fu violentata da me e da Zorè Cavalieri e nonostante la sua ribellione dovette sottostare alle nostre voglie. Dopo tale violenza ho invitato altri partigiani presenti sul posto a fare lo stesso, i quali però rifiutarono”. La Morselli Tina fu uccisa nella fossa ove già si trovava il cadavere del fratello a colpi di pistola sparati sul viso.

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Il processo si svolse a Perugia. Ravvisò il movente nella rapina e nelle brutalità più ignobili dell’animo umano. Il fatto non fu attribuito al movimento partigiano in quanto tale, ma venne ritenuto una deviazione delinquenziale di singole persone che per questo furono condannate.

Il Tribunale punì i colpevoli perché avevano commesso reati di delinquenza comune non perché erano stati partigiani, come alcuni ebbero da sostenere.

Amare le considerazioni del Comandante partigiano della Brigata Italia, Ermanno Gorrieri, che diversi di noi hanno conosciuto, che esclamò in un momento di sconforto: “Per le porcherie di pochi, la Resistenza è divenuta odiosa e ripugnante agli occhi di molti!”

11) I giorni della Liberazione 

Verso la metà di aprile, le truppe inglesi dell’8a armata travolsero i tedeschi in Romagna.  Sestola e Fanano venivano liberate dai partigiani. Lassù, nella brigata Italia comandata da Ermanno Gorrieri, tra i combattenti c’erano Giovanni Negrelli e Nino Spelta di Mirandola, che molti di noi ancora ricordano.

Sull’Appennino bolognese, gli americani della 5a Armata sfondavano la Linea Gotica, arrivando a Mirandola nella mattinata del 23 aprile. I tedeschi furono costretti a ritirarsi velocemente per non essere annientati.

Nei giorni 21 e 22 aprile le nostre strade erano piene di tedeschi in ritirata, incalzati dagli alleati. Passarono lunghe file di militari su carrette trainate da cavalli e da buoi, le strade erano intasate da camion trainati da altri camion per mancanza di carburante e da soldati in bicicletta o su birocci da contadino.

A Mirandola, il tentativo di prendere contatti con la Guardia Nazionale Repubblicana e convincerla ad allontanarsi senza combattere per evitare un bagno di sangue, ebbe buon esito. Il Prevosto don Aldo Valentini dopo aver convocato in canonica, a più riprese e separatamente, il comandante della Guardia Nazionale e i rappresentanti della Resistenza, riusciva a raggiungere un accordo. La Guardia Nazionale si sarebbe allontanata nel primo pomeriggio del 22, in borghese, dopo aver affidato le chiavi della caserma al Prevosto, che a sua volta le avrebbe consegnate ai partigiani, che avrebbero occupato l’edificio senza combattere. E così avvenne.

Nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1945 era ancora guerra e vi furono altre vittime. Durante gli ultimi rastrellamenti alla ricerca di soldati tedeschi, avveniva un tragico incidente sotto la Galleria del Popolo. Cadevano in uno scontro a fuoco il giovane partigiano Ori Erminio e Hans Koepling, un militare tedesco passato alla Resistenza, che nell’oscurità della notte furono scambiati per tedeschi e uccisi dai patrioti.

Sempre nella stessa notte, l’artiglieria americana che si trovava già a Camposanto apriva un intenso cannoneggiamento sulla nostra città, ritenendola ancora in mano tedesca.  Per risparmiare vite umane doveva essere informata al più presto che i tedeschi l’avevano già abbandonata. Poiché i contatti radio si erano interrotti, il maggiore inglese John Burton, e il Capitano Giuseppe Ferraresi con 2 patrioti partirono in piena notte verso la linea del fronte per far cessare il fuoco.

Per avere maggiore probabilità di riuscita, si divisero in due gruppi ma mentre uno giungeva a destinazione facendo terminare il bombardamento, il secondo, comandato da Burton, venne catturato dai tedeschi. Alla notizia che Burton era stato fatto prigioniero a San Biagio, alcuni patrioti con divise e camion tedeschi, accorsero per liberarlo.  Fatalità volle che incrociassero il primo carro armato americano in marcia verso Mirandola, e, scambiandoli per nemici, ne fece una strage.  Morirono 4 giovanissimi: Gino Borghi, Silvano Manicardi, Silvano Paltrinieri e Natalino Silvestrini.  Burton venne liberato in seguito.

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Le truppe americane giunsero a S. Giacomo verso le 6 di mattino del 23 aprile.  Quei momenti di gioia sono così ricordati da Norina Galavotti, una delle “mamme di vocazione” di don Zeno.  Sentiamola:

«Verso le 5,30 solo spari lontani, poi ancora rumore di carri armati, ma questa volta con altre persone a bordo, erano americani. Le persone per la strada urlavano “Gli americani! gli americani!”. Erano arrivati finalmente.  Uscii anch’io in strada, dove tutti correvano, per rendermi conto che differenza c’era tra questi uomini e quelli che eravamo abituati a vedere.  Notai non più visi arcigni e soldati con armi puntate, ma volti di soldati sorridenti che erano armati sì, ma buttavano cioccolate, caramelle, sigarette alla gente, e poi prendevano i bambini e li mettevano a sedere sui carri armati».

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A Mortizzuolo, arrivarono alle 9 e la gente aveva steso lenzuola bianche alle finestre.  Racconta un testimone, don Benito Poltronieri: «Salii sul campanile e ne issai uno, facendone una bandiera bianca, perché la nostra chiesa non venisse distrutta. Da lassù vidi lunghe file di uomini con elmetti rotondi e file sterminate di jeep, camion, carri armati e autoblindo, tutti con una stella bianca, che procedevano verso di noi».

Gli americani erano arrivati e con loro cioccolate, sigarette, scatolame ed ogni ben di Dio, offerti col sorriso sulle labbra da quei soldati.  Noi ragazzi, io allora avevo 17 anni, fummo conquistati da questi soldati.  “Quelli, ricordo bene, furono i primi giorni della mia vita in cui ho mangiato il cioccolato”.

A Mirandola, in pochi avevano dormito durante quella notte per le cannonate che arrivavano. I partigiani, con una fascia al braccio e con i fucili in mano, avevano occupato il municipio, le caserme, gli impianti della luce e del telefono. Alle finestre e sui tetti vennero esposte lenzuola bianche. Così Mirandola si coprì di bianco per evitare un altro cannoneggiamento che sarebbe stato disastroso.

I primi soldati americani con i carri armati giunsero verso le 10. Le famiglie uscite in strada, offrivano il vino migliore, balson e uova fritte. Si fece gran festa a quei soldati e stupì che alcuni di essi parlassero correttamente anche il nostro dialetto. Erano i soldati del “Corpo Italiano di Liberazione” della Divisione “Legnano” che combattevano a fianco degli Alleati.

I mirandolesi, davanti alle case ed alle macerie, applaudivano e sventolavano i fazzoletti. La gente guardava e ammirava. I commenti delle donne non finivano più: bei soldati, ben vestiti, ben armati, ben equipaggiati. Avevano tutto. Si faceva il confronto con i nostri fanti con cartucciera, bustina con la stecca, vecchio fucile 1891 e concludevano che la guerra era finita come doveva finire e che Mussolini aveva iniziato l’avventura senza averne i mezzi.

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Abbiamo diverse testimonianze.  Ascoltiamole:

«Un “bulldozer”, allora quella parola era sconosciuta, in un attimo mandò in briciole i muri anticarro che proteggevano la città all’imbocco degli accessi.  E subito dopo camionette e jeep alleate incominciarono ad andare su e giù per le vie della città, in cerca di tedeschi sbandati. Il primo muro anticarro ad essere frantumato fu in via Fenice all’altezza dell’attuale Casa Reggiani e del teatrino parrocchiale».

Una di queste Jeep affiancava verso mezzogiorno Ivaldo Verri in bicicletta che trainava agganciato un “cariolino” sulla quale stava la moglie Severina, in stato di evidente gravidanza, la stava portando all’ospedale a partorire un altro figlio.  I soldati si fermarono, parlottarono tra di loro sottovoce e infine scesero, caricarono la Severina sulla Jeep portandola di corsa all’Ospedale, dove avvenne il lieto evento.  Quel bambino di una volta, è ora qui molto cresciuto con noi. Non fu chiamato Vittorio, ma Libero, in omaggio a questo gran bel giorno. È Libero Verri!

«Sulle nostre strade, per 3 giorni di seguito, passarono “jeep” e camionette, una dietro l’altra, carri armati e cingolati, soldati bianchi e neri, militari del Regio Esercito Italiano, perfino egiziani, indiani con il turbante, tutti con le stellette bianche e la scritta “U.S. Army”.

C’era gioia ed entusiasmo. La gente si abbracciava e si dava manate sulle spalle. Passavano dei feriti sostenuti dai compagni, altri in barella su jeep. Passavano i soldati tedeschi prigionieri e faceva effetto non tanto vederli senza fucile, quanto a scoprirli a testa bassa, quasi volessero chiedere scusa. Tutti si sentivano più buoni, non un tedesco che venisse deriso.

All’incrocio del Molino della Rotonda che porta a Verona, un nero alto due metri della Military Police, con l’elmetto bianco in capo e il fischietto in bocca dirigeva il traffico meglio di un direttore d’orchestra. Era un esercito che non finiva mai di passare.

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A Concordia, dopo che le truppe tedesche si erano ritirate, una testimonianza di quei momenti ci viene da Disma Mantovani, allora un ragazzo di 13 anni.

“La Liberazione avvenne il 23 aprile, con l’arrivo degli americani. Fu il giorno più bello ed indimenticabile della mia vita. Andai in piazza a Concordia e trovai una folla in festa. Entusiasmo, lacrime di gioia, abbracci e bandiere tricolori. Finito il terrore era arrivata la liberazione. Un particolare mi rimase indelebili: l’arrivo davanti al municipio di una jeep del primo soldato americano, impolverato fino sulla cima dei capelli, che la gente corse ad abbracciare”.

“Impossibile dire tutto, prosegue Mantovani, nel pomeriggio arrivò il grosso dei soldati americani che si sistemò nel verde delle piantate presso la località “Sfilza” di Santa Caterina. Per la gioia di noi ragazzi, gli americani distribuivano ogni ben di Dio: cioccolata, pane bianco, sigarette e scatolette. La gioia di questo indimenticabile giorno aveva momentaneamente cancellato gli incubi, le paure, i pericoli degli ultimi mesi di guerra e i brutali rastrellamenti dell’inverno”.

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12) Conclusione

La sera del 23 aprile la Bassa era completamente liberata. Gli alleati raggiungevano il confine con il mantovano. Le formazioni partigiane avevano operato con successo.  Avevano sostenuto combattimenti contro i tedeschi, avevano impedito sabotaggi a ponti e ad impianti industriali, ed avevano fatto un alto numero di prigionieri.

Tutto ciò aveva permesso agli Alleati di procedere rapidamente verso il Nord.  Senza il contributo della Resistenza non vi sarebbe stata una vittoria alleata così rapida e così schiacciante.

Sempre nella serata del 23 aprile, il maggiore inglese John Barton assumeva in nome degli eserciti di liberazione il comando del “Governo Militare Alleato”.

Su tutta la Bassa sventolava il tricolore e tante bandiere rosse. La guerra era cessata dopo tante lacrime e tanti lutti.

Per pochi giorni nessun incidente turbò la gioia serena di un popolo uscito finalmente da un incubo spaventoso.

Tutto era finito? No, ora cominciava un’altra pagina di storia. Le crudeltà compiute durante la Repubblica Sociale avevano lasciato tanto odio, troppo odio. 

Cominciava la storia delle vendette, e non solo delle vendette, e delle buche in campagna.

Ringraziamo per il gentile, attento e paziente ascolto.

(Testo di Nerino Barbieri)

 Fonti bibliografiche

Ascari Odoardo, “I delitti del triangolo della morte  “WWW Il Mascellaro”.

Balboni Maria Pia, “Gli Ebrei finalesi vittime delle leggi razziali e della Shoah”, Finale Emilia, Baraldini,

Balugani Rolando, “La Repubblica sociale a Modena”, Istituto Storico della Resistenza di Modena, –

Barbieri Nerino, Guerra e dopoguerra nella Bassa Modenese, Edizione CDL 2010

Comune di Mirandola, “Ventennale della Resistenza” – 1965.

Fantozzi Giovanni, “Vittime dell’odio. L’ordine pubblico a Modenadopo la liberazione”, Europrom 1990.

Gorrieri Ermanno e Bondi Giulia, “Ritorno a Montefiorino”, Ed. Il Mulino, 2005

Gorrieri Franca, “La Resistenza nella Bassa modenese”, TEIC Modena, 1973.

Silingardi Claudio, “Una provincia partigiana”, Edizioni Fr. Angeli. Milano, 1998.

Vaccari Ilva, “Dalla parte della libertà”, Edizioni Coop Modena, 1995.

 Presentato a MIRANDOLA in SALA TRIONFINI, a tre voci:

Nerino Barbieri, Mara Palumbo, Maurizio Bonzagni,

il 1° aprile 2023

Con gratitudine e amicizia

Maurizio Bonzagni

Mirandola,, aprile 2023

3 Responses to I giorni della Repubblica Sociale Italiana e della Liberazione nella Bassa Modenese

  1. Silvana Borghi says:

    Buongiorno, volevo chiedervi se per questo articolo letto al.a Sala Trionfini esiste un fascicoletto magari depositato proprio in Sala Trionfini, perché è molto interessante e avrei voluto acquistarlo.
    Voi mi sapete dire qualcosa in merito????
    Altrimenti posso stamparmelo, però se esiste un fascicoletto sarebbe più bello.
    Se riuscite a darmi indicazioni, vi sarei grata, saluti

    • Fabrizio Artioli says:

      Buongiorno Silvana, Sala Trionfini ne dovrebbe evere alcune copie oppure chieda ad uno degli autori, Maurizio Bonzagni, lo trova su Messenger.

  2. Silvana borghi says:

    Grazie mille, mi sono messa in contatto e il fascicoletto l’ho trovato e andrò a prenderl o grazie mille per l’aiuto

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