I cinema di una volta

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I cinema di una volta

Al termine della seconda guerra mondiale esistevano a Mirandola cinque cinema. Con tutta quella miseria, entrarci era però un problema e visto che non c’era ancora la televisione, quando riuscivamo ad escogitare qualche espediente per accedervi eravamo davvero molto felici.

Cinema Teatro “Astori”. Fu costruito nel dopoguerra, intorno agli anni ’50, dalla Curia. Un bel teatro con un’entrata sola. In quell’epoca i ragazzi che volevano entrare gratis dovevano andare alla messa della domenica e al termine il sacerdote faceva loro un timbro sul polso. Quando arrivavo a casa mio fratello Franco mi aspettava, metteva il braccio sulla pentola, bagnandolo con il vapore e poi lo appoggiava sul mio, in modo tale che il timbro rimaneva impresso anche a lui. Per circa due mesi il sistema era filato liscio, ma una domenica il sacerdote, alla fine di un film, quando vede uscire mio fratello lo blocca e gli dice: «Questa mattina non ti ho visto a messa». Lui arrossendo gli risponde: «Ero in ultima fila, dopo la colonna». Così quella è stata l’ultima volta che abbiamo fatto il doppio timbro.

Cinema Teatro “La Fenice”. Era situato in via Pico. Dopo aver percorso due scalinate ci si trovava di fronte la biglietteria e a sinistra c’era il passaggio per entrare in platea. Il problema era sempre il solito: non avevamo i soldi per entrare. D’estate, con il caldo, lasciavano le due porte di sicurezza aperte. Così noi, entrando dal cortile, aspettavamo che la scena fosse buia e poi ci infilavamo dentro mettendoci a sedere in mezzo agli altri. L’unico problema era all’uscita, quando la maschera veniva a chiudere le porte un po’ prima della fine del film. Se c’erano poche persone paganti, per evitare qualche “scupason”, uscivamo di corsa.

Cinema “Garden”. Era all’aperto, di fianco alla ex stazione dei vigili del fuoco, in via Focherini con ingresso da via Circonvallazione. Ai fianchi della via c’era una fila di piante alte almeno tre metri. Entrare clandestinamente nel cinema non era facile, ma, anche in questo caso, avevamo trovato il sistema. Occorrevano tre ragazzi, uno robusto come Francesco Maini o mio fratello Franco), uno di corporatura normale, ma abbastanza alto (come Germano Maini o Pericle Ferri) e naturalmente un terzo che ero io. Il primo si appoggiava contro il muro che cingeva il cinema, il secondo saliva sulle sue spalle, il terzo sopra ai due. In questo modo arrivavamo in cima al muro, tirandoci su a vicenda. Una volta sopra, utilizzavamo le piante per calarci all’interno del cinema. Una sera ci troviamo lì sotto in una ventina. Ogni tanto qualcuno si cala dal muro. Gli spettatori paganti sono pochi e in breve si accorgono di quanto sta avvenendo e cominciano a ridere. La maschera, allarmata, si precipita per controllare e, accorgendosi degli intrusi, inizia a inseguirci senza però riuscire a prendere nessuno tra l’ilarità generale. Insomma un cinema nel cinema…

Il “Teatro Nuovo” era situato in piazza Costituente. L’entrata del loggione era in piazza Marconi, con un finestrino per l’acquisto dei biglietti. La galleria era dall’altro lato, quello del Circolo del Teatro, mentre palchi e platea erano come gli attuali. Il proprietario era il signor Piccinini, mentre sua sorella Elsa e la signora Elena, proprietaria della vicina edicola, erano le due bigliettaie. Molte sere chiedevamo il permesso di entrare ad Elsa che non riusciva mai a dirci di no. Per ripagarla svolgevamo per lei piccole commissioni, mentre a Elena portavamo al mercato i giornali non venduti che servivano per confezionare la merce, visto che non esistevano le sporte di plastica. Così Elena ci dava la “mancia” con cui qualche volta riuscivamo a pagarci l’ingresso. Una sera però siamo in parecchi e non sappiamo cosa inventarci per entrare al cinema. Poi a Rino Pedretti viene un’idea. «Aspettiamo che qualcuno debba cambiare i soldi – dice – ci infiliamo lungo le scale e diciamo alla maschera che paga l’ultimo». Così saliamo gli scalini. Quella sera la maschera è il signor Bergamini. Facciamo finta di niente e iniziamo a entrare dicendogli che avrebbe pagato l’ultimo. Bergamini comincia a contare, uno, due, tre, fino al tredicesimo che è la persona con il biglietto, un ragazzone grande e grosso, un vero e proprio armadio. L’uomo allunga il biglietto alla maschera che lo guarda torvo: «An far minga al furub e dam chiatar bigliett (Non fare il furbo e dammi gli altri biglietti)». «Va bene che sono grande e grosso – gli risponde il ragazzo – ma devo pagare solo il mio biglietto». Bergamini però continua a insistere e ne nasce un acceso diverbio che viene concluso da un violento pugno che il ragazzo sferra alla maschera, colpendolo in un occhio. L’unico a rimetterci, purtroppo, è Bergamini che il giorno seguente è uscito con gli occhiali neri e si è curato con una bistecca cruda sull’occhio.

Il Teatro Cinema “Pico” aveva l’entrata, dove si acquistava il biglietto, in piazza Marconi. Il proprietario del cinema era Franco Pinotti che era anche il padrone della casa in cui abitavo subito dopo la guerra. Senza soldi si faceva fatica a pagare l’affitto e Pinotti, conoscendo la situazione, non si faceva neppure vedere, anzi molte volte ci dava qualcosa da mangiare. Ovviamente, quando aveva bisogno di un favore, eravamo sempre pronti a prestarci di aiutarlo. Ma torniamo al cinema. Franco ci faceva sempre entrare gratis e noi non avevamo nessun problema, ma la manna, purtroppo, durò solo pochi anni, perché poi affittò il cinema a Merchioli che abitava a Bologna. Il nuovo proprietario, poco tempo dopo, venne ad abitare al Castello, precisamente al terzo piano, in uno dei locali della Duchessa. Io e il mio amico Carlo Trentini ci presentammo subito, promettendogli tutte le mattine di portare giù il pattume in cambio di biglietti omaggio. Merchioli accettò l’accordo, ma dopo poco tempo decise di cedere la gestione del cinema che passò a Riccardo Piccinini. E qui cominciarono i nostri problemi. Se alla biglietteria c’era Elsa, la sorella di Riccardo, le chiedevamo di entrare gratis e lei difficilmente diceva di no. Se invece c’era la cassiera, andavamo in cortile, ci arrampicavamo alla vite dell’uva bianca, passavamo in mezzo ai due fili della luce e una volta saliti in terrazza ci infilavamo nel teatro dalle uscite di sicurezza. Un pomeriggio l’amico Bruno Pedretti mi dice: «C’è un bel film “ad caplon”, dai che scappiamo dentro». Era un tipo poco energico e molto pesante, ma aiutandolo sono riuscito faticosamente a farlo salire sul terrazzo. Salgo anch’io e ci introduciamo all’interno. Non passa molto tempo che si accende una torcia. La nuova maschera, Giovanni Dotti, ci fa segno di seguirlo. Noi, che ci troviamo in mezzo alla platea, ci guardiamo bene dal farlo. Così lui, per non disturbare il pubblico pagante, si sposta e noi cerchiamo di fuggire. Lui, allora, si rifà avanti e noi subito torniamo al centro della fila, dove non può raggiungerci se non intralciando la proiezione. Dotti allora si allontana a malincuore e noi ne approfittiamo per scappare di corsa. Ma la maschera è un atleta, gioca a calcio nella Mirandolese e in un attimo ci raggiunge, colpendo Bruno con due schiaffoni. Dopo di che si lancia subito al mio inseguimento. Non ho un gran vantaggio, anche perché alla fine c’è da arrampicarsi sul cancello con le punte di lancia. Così applico la tattica usata con mio padre quando mi rincorre, lo lascio avvicinare un po’ e quando lui crede di avermi ormai raggiunto, scarto all’improvviso. In questo caso abbraccio la pianta delle albicocche, girando in cerchio.

Giovanni, troppo vicino, non riesce più a fermarsi e la colpisce in pieno con la testa, procurandosi un gran bernoccolo e qualche punto di sutura. Dopo questo episodio, però, l’unico modo per rientrare al cinema è pagare il biglietto. La settimana successiva c’è un film di Tarzan. Remo Pedretti sostiene che è una pellicola da non perdere. Ma il problema è sempre quello: non abbiamo i soldi. Allora Remo propone di procurarsi un carretto da Romano, lo straccivendolo e di andare in giro a raccogliere ferro vecchio e vetri da rivendere per pagarsi i biglietti del cinema. Una volta preso il carretto, ci accorgiamo che c’è un cane, probabilmente un randagio, che ci segue da un po’ di tempo. Così mi viene un’idea. Andiamo da Anselmo, il macellaio che vende carne di cavallo, il cui negozio è in via del Piastrino e ci facciamo dare un po’ di polmone e un osso. Il polmone lo diamo subito da mangiare al cane, mentre l’osso lo teniamo. Prendiamo poi un bastone e lo fissiamo al carretto, iniziando così il nostro giro in direzione di Concordia. In poco tempo riempiamo il carretto che diventa sempre più pesante. Allora leghiamo l’osso al legno e il cane con una corda lunga venti centimetri in meno, in modo che cercando di prendere l’osso, tiri il carretto. La cosa sembra funzionare finché non incrociamo una cagnetta. Quando il cane la vede, comincia a tirare verso di lei, trascinando il carretto e Remo, che era seduto in mezzo al carico, nel fosso. Io cado rovinosamente per terra rompendomi i pantaloni, Remo nel fosso comincia a lamentarsi, mentre il cane fugge via con la cagnetta. Arriva un contadino che ci aiuta a riportare il carretto in strada, raccogliendo quel po’ di materiale recuperabile. Non ci avviliamo e proseguiamo il viaggio. Arrivati a Concordia saliamo il ponte e prendiamo la strada per Novi. Finalmente riusciamo a riempire il carretto e torniamo a casa. Arrivati di nuovo sul ponte, iniziamo la discesa, ma il carretto, così carico, prende sempre più velocità. «Frena!» grido a Remo. «Il freno non funziona!» mi risponde disperato. Il mezzo, ormai senza controllo, centra in pieno una tenda in cui si vendono angurie e meloni. Il carico di vetri e filo di ferro si rovescia dappertutto all’interno. La proprietaria, per lo spavento, cade per terra. Si rialza furibonda urlando: «Sono rovinata! Adesso dovete ripagarmi tutto». Piano piano ricarichiamo quello che si può sotto lo sguardo furente della proprietaria che cerchiamo di ammansire. «Signora – le diciamo – ci dia anche due cocomeri. Noti anche questi nel danno che le abbiamo provocato che quando vendiamo la merce, le diamo un acconto». Dopo tutte queste peripezie arriviamo da Romano, lo straccivendolo. «È questa l’ora di tornare?- ci chiede arrabbiato — Nel conto mi tengo anche l’affitto del carretto». Ci paga la merce e alla fine, ci diciamo che tutto sommato non ci è andata poi così male: abbiamo i soldi per il cinema e anche due cocomeri da dare da mangiare ai nostri genitori. Così andiamo a vedere il film di Tarzan, paghiamo regolarmente il biglietto, sotto lo sguardo perplesso della cassiera che si chiede probabilmente dove abbiamo trovato i soldi e entriamo nel locale. All’improvviso ci troviamo davanti Giovanni Dotti, la maschera, che ha un conto in sospeso con me. Mi prende infatti il biglietto e mentre lo fa mi schiaccia le dita con violenza. Io mi butto a terra urlando. In un attimo arriva il proprietario Riccardo Piccini che chiede cosa sia successo. «Nulla, sono scivolato» rispondo. Giovanni mi guarda. In quel momento sono un regolare cliente del cinema che lui ha maltrattato, se lo raccontassi al padrone verrebbe licenziato. Sa che l’ho salvato e da allora è diventato buono e generoso con me.

Tratto da “Amarcord Mirandola”

Autore : Quirino Mantovani

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