1939-40…L’arrivo del tifo

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tifo

Era settembre e ci si preparava per la vendemmia, tutti indaffarati con ceste, scale e carriole.

”Oggi si batte la fiacca, eh, Maria?” disse mio fratello Ezio, ma per fortuna la mamma gli proibì di continuare a stuzzicarmi, perché capì che c’era qualcosa che non andava e mi mandò a casa. La vigna era tutta dietro casa, così dopo un po’ arrivò a vedere come stavo.

Mi trovò nel letto tutta tremante e chiamò il dottore, che abitava poco lontano da noi e subito fece la sua diagnosi: tifo!

Mia zia Demetria, sorella di mio padre, che abitava nell’altro lato della casa con i suoi tre figli, ci fece sapere che anche i miei due cugini Vanda e Carlo erano a letto con la stessa malattia.

Era facile ammalarsi, perché non c’era l’acqua potabile e si beveva quella dei pozzi.

Tutta la corte era quindi infettata, mucche e cavalli compresi. Negli animali la malattia si manifestava con piaghe nella bocca, a noi prendeva l’intestino.

Anche se si dormiva tutti nella stessa stanza, solo noi tre ne fummo colpiti: il dottore spiegò che eravamo i più deboli.

Era il 27 di settembre, restai a letto per più di quaranta giorni, vivendo di brodo e di qualche succo di arance.

Nella stanza c’era un gran cesto dove si teneva il pane, che a quei tempi si faceva una volta alla settimana. Il dottore mi proibì persino di guardarlo, perché se lo avessi mangiato sarei certo finita dietro alla finestra, e dietro alla finestra si vedeva il cimitero.

Passai così tutto ottobre, fino all’11 di novembre, giorno di San Martino.

Mio fratello Ezio e mio cugino Mario quel giorno stavano seminando il frumento, che doveva restare sotto terra e sotto la neve tutto l’inverno per poter poi germogliare e spuntare a primavera.

Proprio quel giorno il dottore, che passava regolarmente a controllarci e che ogni volta era costretto a cambiarsi le scarpe perché il nostro sentiero era cosparso di calce bianca, con la scritta ‘zona infetta’, disse che era ora di alzarmi.

Mi vestirono con due paia di calze, un golf e non so cos’altro, perché niente mi andava più bene. Mi ero allungata tantissimo, sembravo uno spaventapasseri, di quelli che si mettono in mezzo ai campi di grano.

Arrivò l’ora di mangiare e gli uomini tornarono dai campi di semina. Quando mio cugino mi vide seduta accanto al camino al caldo, incominciò a ridere e disse: “Oliva, non abbiamo bisogno di fare lo spaventapasseri, ce l’abbiamo bello e pronto qui!”. Io lo avrei fulminato, ma la mamma replicò che con il passare del tempo si sarebbe ricreduto.

Lei, invece, era molto contenta perché ero diventata molto alta e longilinea, a confronto delle mie due sorelle che erano piccolette.

Maria Traldi

Tratto da: Quaderni di San Martino

Anno 2008

Illustrazione di Francesca Cavani

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