Ode alla Mortadella : “Odorosa, Saporosa, Biancarosa…”

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Spesse volte si va a cercare nelle leggende il proprio quarto di nobiltà, ma talora, chissà perchè, certe dicerie dal sapore leggendario vengono ferocemente conte­state, benché da esse ci sia solo da guadagnare…

Una di tali leggende che i diretti interessati, in questo caso i Bolognesi, decisamente rifiutano, riguarda l’origine del più famoso insaccato della tradizione gastro­nomica felsinea, vale a dire la mortadella, divenuto lungo i secoli vero e proprio sinonimo della città delle due torri.

Orbene, questa… infame menzogna vorrebbe che la mortadella abbia tratto il suo nascimento proprio poco dopo una imprecisata battaglia in cui, oltre che numerosi cavalieri, erano rimasti sul terreno anche alquanti cavalli. Perchè non utilizzarne le carni, pensò qualcuno? Ormai erano stati, bene o male, macellati, magari pure con la soddisfazione di avere concluso da eroe la propria equina esistenza.

Ma poiché le fibre della muscolatura dei destrieri, forse, avevano avuto più sviluppo in direzione della potenza e della elasticità piuttosto che della tenerezza e della pastosità, si pensò di associarvi le più appetitose e rosate carni di un animale non meno amato da ogni abitante di quella felice terra padana, di quel ”sus domesticus” così coccolato da essere addirittura chiamato “ninein”.

No, sono calunnie! Calunnie! Calunnie! Urlano ancora oggi i Bolognesi. Ma, si sa, la calunnia è un venticello, per cui, ormai insinuatasi nelle orecchie della gente, ha continuato a crescere, fino a raggiungere il massimo dei massimi con addirittura il sommo oltraggio di dire insaccato insieme al ninein, non il pur nobile (anche se dalla carne coriacea) discendente di Bucefalo, ma addirittura il ragliante quadrupede di maggio.

Ah questa, poi! Gli antichi Statuti della Città non hanno mai neppure lontanamente contemplato la possibilità di vendita di carne asinina (che se la mangino i Veneti, visto che a loro piace!): e allora basta, una volta per tutte! La vera mortadella di Bologna si fa solo ed esclusivamente con la carne macinata e raffinata del ninein, se lo mettano in testa bene tutti i denigratori!

Al massimo si può concedere qualche divagazio­ne storico-filologica circa il nome del “regale” insaccato (“…Tavole regali / di mosaici fini, / bizantini veneziani fiorentini: / sopressate salami salamini, / e la più bella, / quella proprio del re / la mortadella!” canta Aldo ‘Palazzeschi, poeta figlio di pizzicagnolo, che quindi sa quel che dice).

Concediamo quindi che si battano, da un lato, coloro che sostengono la derivazione del nome dal latino “myrtatum” (o “murtatum”), vale a dire “condito col mirto” dall’antica consuetudine di assaporare con coccole di mirto l’impasto, e dall’altro i più numerosi che fanno nascere la mortadella dall’idea di certi frati medievali di sfibrare nel mortaio la carne porcina.

Chi avrà raqione? Noi non ci pronunziamo, ma vogliamo solo ricordare che in Bologna fu addirittura ritrovato un frammento di marmo romano in cui un salsamentario d’età imperiale è immortalato con un grosso pestello alle prese con un mortaio gigantesco. Era allora già nata l’idea della mortadella nell’antica ”,Bononia”?

Purtroppo, in proposito, la storia dice piuttosto poco e dobbiamo accontentarci di… ipotesi di lavoro.

Comunque la rinomanza dei salumi bolognesi durava già da tempo imprecisato quando, a metà del Cinquecento, Ortensio Landò scriveva nel “Commentario delle più nobili e mostruose cose d’Italia e d’altri luoghi”: “a Bologna si fanno i salsicciotti migliori che mai si mangiassero (…) benedetto chi fu l’inventore, io bacio quelle mani virtuose”.

Ed in quegli stessi anni il leggendario Cristoforo da Messisbugo, protetto, insieme con l’Ariosto da quel generoso buongustaio che fu il Cardinale Ippolito d’Este, scriveva nei suoi “Banchetti” la prima vera ricetta della mortadella, chiamandola finalmente per nome. Questo gran maestro di cucina del Rinascimento si diffonde in attente metodiche esecutive consigliando le giuste dosi della carne, il corretto uso delle spezie e così via.

Gli storici professionisti, a questo punto, possono giustamente dire che, con l’apparire di tale documento, termina anche per la mortadella quella che potremmo definire la sua preistoria.

Da questo momento ricostruirne le vicende attraverso le varie testimonianze è, benché ancora assai frammentato, certamente meno complesso.

E ci vengono così incontro ben precisi bandi di città, come quello del 1661 che rimarca “la dote che gode ab antiquo la città di fabbricare Mortadella disquisita perfezione . O quell’altro, del giorno 11 Novembre 1720, in cui il Card. Legato Origo parla chiaro e stabilisce il… bollino D. O. C. : “Che da Lardaroli fuori di Città non si possono fabbricar Mortadelle… Che le Mortadelle debba­no essere soprafine, cioè di carne sceltissima… Che le Mortadelle vere come sopra, cioè soprafine, debbano tenersi separate dagli altri Salami e debbano essere contrassegnate da un Sigillo in Cera di Spagna dell’arte de’ Sa laro li prima che si facci vendita alcuna…

Un viaggiatore degli inizi del secolo diciottesimo, l’inglese E. Veryard, scrisse addirittura per i suoi connazionali questa preziosa descrizione: “I Bolognesi fanno pure una specie di salsiccia chiamata ‘mortadella di Bologna’ che viene mandata in ogni parte d’Europa. Tagliano la carne dei maiali in piccoli pezzi e dopo averla condita con sale comune, pepe, aglio e un po’ di salnitro,con essa riempiono budella di manzi, pecore e maiali         e, dopo aver lasciato queste mortadelle per circa due giorni in salamoia le fanno bollire in acqua avendo cura di cuocerle piuttosto poco che troppo – e poi le appendono alla cappa del camino finché siano asciutte. Così confezionate si conservano per un anno o due“. Purtroppo la gran parte dei figli d’Albione di quei tempi doveva conoscere la mortadella di Bologna solo attraverso la narrazione (cui sicuramente si collegava un riflesso pavloviano!) dei ricordi di viaggio di Veryard…

Pochi anni dopo un frate domenicano (diretto discendente, crediamo, di quei fratacchioni gaudenti che non disdegnavano mai la buona tavola), tale Jean BaptisteLabat, volle addirittura raccontare quali fossero, a suo avviso, i segreti del prestigioso salume.

Girava ancora, oltr’Alpe, la vecchia storia dei somarelli, ma Labat, con l’autorità che gli derivava dal suo abito, la smentisce recisamente aggiungendo pure questo commento: “quanto a me credo che quello della carne degli asini sia un racconto fatto per divertire: è vero che il paese e dintorni producono molti asinelli, ma la razza si sarebbe già estinta dato che si facessero sempre delle salsicce!

L’abate Labat ci dà inoltre due preziose infor­mazioni. Ci dice di avere mangiato la mortadella perfino nella lontana America, e ci mette in guardia sulle sofisticazioni del prodotto genuinamente bolognese ope­rate specialmente da certi non meglio precisati “Lombardi”.

Frattanto i Bolognesi la loro mortadella conti­nuavano a prepararsela tutelandone gelosamente i segreti, se la esportavano, ma soprattutto se la mangiavano senza raccontarci il come e il quando.

Sappiamo che essi, oltre a considerarla la loro massima specialità gastronomica, la ritenevano addirit­tura ai vertici di tutto, visto che uno dei più genuini figli della città, il grande incisore Giuseppe Maria Mite Ili, disegnando il gioco della Cuccagna in cui per ogni luogo d’Italia era segnalato un tipico prodotto ed un punteggio da fare coi dadi, quando giunge alla sua Bologna non trova di meglio che riprodurre una notevole mortadella con la scritta “Tira tutti”, cioè il massimo punteggio.

E diamogli pure ancora credito quando, nell’altro gioco delle osterie cittadine, segnala la migliore mortadel­la presso “La Tromba”.

Per secoli, quindi la mortadella fu l’orgoglio della città, tanto da finire col diventare quasi la stessa cosa, o meglio, tanto da averne lo stesso nome. In Italia, ancora oggi, in qualsiasi salumeria basta chiedere della “Bologna”, ed anche in America, a dire ”Bolona”, sanno che significhi!

La sua sagoma originale, così diversa da tutti gli altri salumi, il suo impasto ed il suo profumo caratteristi­co (“odorosa, saporosa, biancarosa” la chiamò Paolo Monelli nel suo “Ghiottone errante”) ne fanno una golosità. I lardelli bianchi, vere isole immerse nel mare di color rosa, sono qualcosa di più di un tocco di classe, e lo stesso dicasi per i grani interi di pepe!

Parlare dei meriti della mortadella sulla tavola sarebbe lungo e forse neppure facile, visto che con la parola non si potrà mai rendere degnamente un sapore… Ci limiteremo perciò a dire ancora soltanto di altri meriti… sociali della mortadella, anzi, della “divina mortadella” come, con ispirazione, disse Giuseppe Lipparini.

Si sa che “un’infelice e vil secchia di legno” fece sorgere un ‘ardua contesa tra Modena e Bologna. Orbene, Tetrom e Gemignani, dopo secoli di tensione, cementarono la pace con un matrimonio felice tra due loro nobili figli: la signorina Mortadella e il signor Zampone che, pronubo il pittore Augusto Mojani detto Nasica, si congiunsero alcuni decenni fa tra applausi scroscianti di poeti e scorrere di spumeggiante lambrusco caro a quel burbero orso maremmano di Giosuè Carducci.

Da allora molta acqua è passata sotto i ponti del Reno e le carte si sono un po’ mescolate, visto che le mortadelle nascono pure a Modena e gli zamponi a Bologna…

Una vecchia guida d’Italia, parlando della mortadella, scriveva: “Nella sua fabbricazione i salsa­mentari bolognesi sono insuperabili, e per quanto si tenti un po’ ovunque d’imitarla, essa permane insuperata

Ed a tentare di copiarla furono sempre in molti anche, e soprattutto, dopo quei famosi ’Lombardi” ricordati da Lahat.

Tra gli altri vi fu chi, nei suoi repertori di ricette, invitò pure a fare questo sproposito, e per di più in casa!

Da un “Manuale di cognizioni utili e dilettevoli” del 1857 ricaviamo quanto segue: ””Piglia 12 libbre di carne magra di porco e dopo averla ben battuta, unisci tre libbre di grasso tagliato in forme digrossi dadi e condisci con 5 once di sale, 6 denari di pepe in polvere e altrettanti in grani, e cinque o sei spicchi di aglio pestati e spremuti con un po’ di vino bianco dentro una grossa tela; e dopo avere mescolato bene tutto ciò insieme, insacca in budelle grosse di manzo, legando con spago“.

Abracadabra, il gioco è fatto!

La mortadella di Bologna, però, non era (e non è) così semplice da preparare, e poi, e poi c’è il “quid”, il tocco magico che solo il “salarolo” bolognese sa dare.

Quel tocco di grazia ne ha sempre fatto una specialità rara, tanto rara da essere custodita pronta all’uso (cioè già affettata) addirittura “in iscatole per l’esportazione” munite di tanto di aquile e di scritte in castigliano: “La ’mortadela ’ XY es la mejor!” Viva l’etica della pubblicità!

Questa “mortadela” uso sud americano era, appunto, già affettata, ed affettata sottile, secondo i più tradizionali canoni dei Bolognesi, che persino seppero dare vita ad una curiosa competizione tra salumieri per stabilire chi, armato di affilatissima “curtleina”riuscisse a presentare alla giuria (munita, al pari della Giustizia, di imparziale bilancia) le tre fette di mortadella più sottili.

Ormai, però, questi sono ricordi di tempi imme­morabili, visto che chissà da quanto domina l’affettatrice, che ebbe la sua prima antenata proprio a Bologna, ove nel 1873 un certo Luigi Giusti le diede vita.

Narrano le cronache del tempo: “Essa è una elegante macchinetta che taglia qualunque mortadella in fette di eguale spessore, variabile entro certi limiti. Il signor Giusti è giovane di dilettissimo ingegno in questo genere di cose, e maggiori lavori di ben altra importanza eseguirebbe, qualora non gli mancassero opportune occasioni e l’appoggio di chi siede in alto”. Chi allora sedeva in alto, però, disse al signor Luigi “grazie” per la sua fetta regolamentare di mortadella e si fermò lì…

Qualche “eretico” di nazionalità veneta contesta questa teoria della fetta sottile, preferendola assai grossa, specificando inoltre che, così tagliata, essa vada poi ancora suddivisa “a losanghe”.

Personalmente crediamo che tale abitudine deri­vi dall’usanza popolare di affettarsi in casa la mortadella quando molte famiglie, dato il suo non eccessivo costo, ne acquistavano magari una intera. Erano quelli i tempi in cui essa sostituiva spesso la carne, magari addirittura tagliata spessa un dito ed impanata per essere poi fritta come cotoletta alla milanese”… (O spirito felsineo del Dottor Balanzone, non insorgere!)

E da allora, a buon diritto, il roseo insaccato bolognese ha continuato a mantenere una posizione di privilegio nella alimentazione popolare italiana.

O Mortadella, “sublimazione del porco”, vai dunque orgogliosa, oltre che del tuo sapore, anche della tua storia!

Gian Vincenzo Omodei Zorini

Nell’occasione del mio compleanno

ai miei amici tal libretto dono;
non credo che sfogliarlo sia un affanno,
ma nel qual caso ne chiedo perdono.

1949 — 3 Marzo — 1984 G.V.O.Z

Unica edizione di 499 esemplari numerati

N° 481

Tipolitografia Valsesia – Romagnano S.

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