La Piramide – Le caste sociali a Portovecchio di San Martino Spino

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San-Martino Spino "Centro Allevamento Quadrupedi" anni 30 Militari

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La Piramide

“Le caste sociali a Portovecchio” in un racconto di Gianni Campi, un grande sanmartinese sconosciuto ai più.

Portovecchio, incuneato nella palude, rifugio delle barche dei pescatori, con alle spalle un bosco selvaggio, pieno di rovi e di sterpi tra querce, lecci, olmi e salici, mantenne il suo nome anche dopo la bonifica, quando divenne sede del comando del «Centro Rifornimento Quadrupedi» dell’esercito regio nella frazione di San Martino.

Le scuderie basse, i prati recinti da steccati, i filari di pioppi lungo le strade demaniali, le caratteristiche tettoie aperte per l’ammasso del fieno, gli sterminati campi di orzo e di avena, modificarono profondamente il paesaggio distinguendolo dal resto della pianura intorno.

Qui venivano allevati puledri di razza per i superbi squadroni di cavalleria, muli per i reparti alpini, massicci cavalli ungheresi per il traino dei carriaggi della fanteria e dell’artiglieria.

Gli eleganti ufficiali, i sottufficiali ed i soldati delle diverse regioni, i butteri con gli eterni gambali e la giacca di velluto, gli impiegati in abito scuro con il colletto inamidato, erano una fauna umana sconosciuta in quelle contrade che portò, con la diversità di linguaggio e di costumi, una struttura sociale rigidamente suddivisa in classi.

All’ultimo gradino stavano i braccianti, che distribuivano le loro fatiche per un magro pane, a compartecipanza sui pochi poderi liberi o a giornata sulle terre demaniali, nella coltivazione di foraggi per i quadrupedi dell’esercito.

Le costruzioni e la sistemazione degli edifici, nello sviluppo del borgo dopo l’insediamento dei militari, portarono ad una configurazione topografica che rispecchiava l’ordinamento dei diversi ceti sociali.

Nel centro del paese, lungo un sentiero in leggera salita, la chiesa, che con i suoi muri faceva da sostegno alla canonica ed alle case attigue; davanti, le pretenziose villette del medico, del veterinario e del farmacista; sul lato destro della strada principale, un piccolo teatro ed in lunga fila le abitazioni dei commercianti e degli artigiani, con sotto le botteghe.

Sull’altro lato, un imponente cancello di ferro battuto, vigilato dal corpo di guardia, che introduceva nell’ombroso viale di platani con le caserme ed i servizi per gli alloggi degli ufficiali; in fondo, dopo alcuni minuti di cammino su ghiaia chiara, Portovecchio, tra aiuole di fiori, alberi di diverse specie ed un ampio prato all’inglese con bersò e vasca: sede del comando, residenza del colonnello.

Sparse nella valle, in prossimità delle scuderie, le case dei butteri; nettamente separate dal centro, in un fazzoletto di terra l’una stretta all’altra, le povere case dei braccianti, con intorno le capanne di canna: pollaio, porcile e deposito degli attrezzi.

Il cerimoniale, che si ripeteva ogni domenica sul sagrato della chiesa, fotografava la comunità, nella collocazione a piramide delle caste congelate dall’inserimento nel paese del regio esercito: le carrozze da cui scendevano impettite le dame degli ufficiali con i vestiti vaporosi, i guanti e l’ombrellino; gli impiegati dal colletto rigido e i sottufficiali, in divisa, al braccio delle signore nei vestiti di sobria semplicità che palesavano una dignitosa ristrettezza ed insieme l’assuefazione al rapporto subalterno; i proprietari terrieri, con le mogli, in gran pompa; poi le donne dei braccianti, in abiti sdruciti, con in testa il fazzoletto legato alla corsara, e le loro figlie con vesti di stoffa stampata, aderenti al petto sodo e ai fianchi poderosi, che mettevano in mostra polpacci di gambe solide allenate alle fatiche della campagna.

I paria si vedevano raramente alla sfilata domenicale perché, poco propensi all’odore di sagrestia, nelle ore di riposo preferivano lo scambio di quattro chiacchiere attorno ad una bottiglia, alla bettola della lega, a mezza strada fra la Baia ed il centro.

Difficili, quasi impossibili, i contatti tra gli abitanti dei diversi gradini della piramide, se non nello svolgersi della vita di ogni giorno, nel rapporto di lavoro, in una rigida gerarchia tra graduati ed inferiori.

Le rare eccezioni, dovute all’isolamento, di qualche scapolo della casta superiore nei confronti di qualche giovane paesana, avvenivano nella segretezza più assoluta o con scandalo dei benpensanti, perché è provato che quando le caste sociali cominciano a stabilire fra loro vincoli troppo stretti le differenze si affievoliscono e le superiorità scompaiono.

Il colonnello, al vertice, isolato dai comuni mortali dal pesante cancello, si degnava di invitare a pranzo a Portovecchio, in occasioni particolari, i tre professionisti ed il curato, senza però mai ricambiare la visita perché, nel suo modo di tenere in alta considerazione il proprio rango, si atteneva ai principi formali, di efficacia provata e riprovata, della gerarchia militare.

La piramide spingeva qualche spirito ambizioso allo sforzo per la difficile scalata, mentre i più si rassegnavano al posto nel quale la nascita li aveva collocati.

Oronte, figlio unico del mezzadro della Bachèla, si ribellò al destino che per generazioni aveva inchiodato gli avi alla cura della terra del padrone; sottraendo ore al riposo e pane alla bocca, riuscì a conseguire la licenza elementare, allora traguardo prestigioso anche per i fortunati rampolli dei proprietari, dei commercianti e degli artigiani, che per la maggior parte contribuivano al mantenimento dell’alta percentuale di analfabetismo nella zona.

La fama dì “uomo di lettere “ fu una valida credenziale per ottenere un lavoro nell’organizzazione del centro militare, come semplice avventizio al controllo degli operai a giornata, sui prati che fornivano il fragrante fieno e le bionde biade ai quadrupedi governativi.

Il matrimonio con la Gigia della Baia ne fece anche l’uomo di fiducia dei lavoratori che lo interpellavano per un consiglio, per carte che non sapevano leggere e per le rare lettere che inviavano a congiunti lontani.

La stima e la fiducia degli operai e dei braccianti lo innalzarono a presidente della prima cooperativa e della società di mutuo soccorso, sorte con l’intento di alleviare le pene delle famiglie della Baia, dei Boschi e delle altre borgate; gente ricca soltanto delle proprie braccia e di numerosi figli.

Il fatto, commentato dai benpensanti sospettosi e dai bottegai interessati, risaputo oltre i cancelli, lo marchiò come anarchico e socialista e lo emarginò dall’ingranaggio del demanio rinviandolo alla Bachela, dove la Gigia aveva messo al mondo ben cinque figli.

Dopo anni di stenti e di sconforto, il riconoscimento di uomo onesto e giusto, la scarsa disponibilità di scrivani, il cambio della guardia alla sede del comando a Portovecchio, favorirono il suo richiamo nell’ufficio matricola dove, per una vita, seguì e descrisse, in calligrafia stilizzata, con precisione e cura, l’albero genealogico dei quadrupedi che dal centro mirandolese venivano inviati alle caserme di tutto il paese.

Così fu un’inconsapevole vittima dell’ingranaggio militare, prigioniero della piramide, che tentò di scalare a tappe sofferte, con lo stipendio non sufficiente per la famiglia numerosa, con i fastidi che ogni giorno incontrava per l’invidia dei mediocri, con le angosce che quei tempi, procuravano a chi non faceva il passo “secondo la gamba”, a volte col dolore per l’incomprensione e l’ingratitu­dine di coloro che gli erano vicini e che non capivano che i sacrifici non erano per sé, ma per l’avvenire dei figli.

Le ragazze non furono mandate nei campi appena giovinette, come era nella tradizione dei tempi e dei luoghi, ma prima a scuola, poi presso una sarta ad imparare il mestiere, finché andarono spose a giovani con un pezzo di terra. Il primogenito avviato alla carriera delle armi, tornò al paese con i galloni dorati.

Il secondo, fatto sacerdote, con la sua prima messa nel borgo natio portò una profonda gioia allo scrivano, che sentì attorno a sé l’affetto sincero degli umili della Baia e l’ammirazione degli altri.

L’ultimo maschio, che seguì i lunghi e costosi studi, dal liceo all’università, onorò la famiglia con una laurea a pieni voti. Quando però Oronte ebbe ultimato la sua difficile scalata, s’accorse che i tempi nuovi avevano travolto gli antichi valori. Dario della Venusta, trafficante di residuati bellici, che firmava i contratti con una croce, era diventato il personaggio più importante ed osse­quiato dei dintorni; il figlio di Paterno, idolo dei giovani, aveva il nome sui giornali ed un favoloso ingaggio con la società di calcio di una grande città; la nipote dell’Ardilia della Baia, cantante nelle balere, procurò ai fratelli, con le sue serate, il podere della Bachela.

Mentre i figli erano lontani, impegnati negli affanni delle carriere, nel crollo del suo mondo ad Oronte restò soltanto il sereno amore della Gigia, che aveva diviso con lui i molti sacrifici e le poche gioie del lungo cammino, ma che nella sua semplicità era rimasta sempre ai piedi della piramide.”

Era il mondo dei nostri nonni…

Gianni Campi un sanmartinese Doc, nato a San Martino nel 1931 e abitante alla Fina Nuova, poi trasferitosi a Pilastri, fu un grande manager delle partecipazioni statali e vicepresidente per quasi ventanni dell’ordine nazionale dei giornalisti, viveva a Bologna, ed è l’autore del bel volume di racconti ” Il Caminon” (Il camino della fornace che esiteva a Pilastri) dal quale abbiamo estratto questo racconto e pubblichiamo per gentile concessione della famiglia. Un volume che fu acquistato da moltissimi compaesani suoi coetanei e ci descrive in modo incredibilmente autentico il mondo di Portovecchio e dei nostri nonni ai primi del 900, fatto di miseria e di fatiche.

Con il racconto la Piramide, ci fa un quadro della “casta” sociale di Portovecchio ai primi del secolo scorso e ci fa sentire quello che il maestro Augusto Baraldi aveva sintetizzato nelle sue conclusioni su lo Spino “… aria ottocentesca, gerarchia rispettata, gli ordini eseguiti e non discussi… “.

Aggiungiamo che la storia è un po’ autobiografica e il personaggio “Oronte” in effetti era Francesco, il nonno di Gianni Campi, detto ”Cantul (Una volta tutti in paese avevano il soprannome)

Tratto da: San Martino dei Cavalli – Dagli allevamenti dei Pico al V° Deposito Allevamenti Cavalli del Regio Esercito

Autore: Andrea Bisi

Edizione 2024

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