Impressioni del Rag.Grana – Il Camion

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Impressioni del Rag. Giuseppe Grana – IL CAMION –

L’ultima notte in casa mia in realtà fu la penultima. La casa spoglia, le stanze vuote, un senso di squallore non disgiunto da una specie di angoscia per qualcosa che, pur in modo indefinibile, stava per finire.

Stavo per lasciare un luogo, una casa, un ambiente, dove avevo tra­scorso quindici anni della mia vita: i primi, quindi i più importanti.

Allora non lo avvertivo con esattezza; soltanto più tardi mi sarei reso conto, a volte drammaticamente, di che cosa significa sradicarsi.

L’ultima notte, quella vera, la trascorsi in casa di amici. Mia madre, che mi era accanto, non dormiva; pensava anche lei a quello che lasciava e all’incognita che aveva davanti; forse piangeva.

Io non soffrivo così apertamente. In un ragazzo di quindici anni l’igno­to e la novità hanno pur sempre un loro fascino. Mi alzai dal letto.

In un angolo della stanza erano state ammucchiate le mele campanine e la fragranza di quel profumo aspro riempiva l’ambiente. Assaporai qual­che frutto addentandolo quasi con violenza. Forse in quel modo il mio inconscio sfogava la sua rabbia.

All’alba ci alzammo, senza fretta come se ogni momento in più fosse un regalo, mentre in realtà ci facevamo soltanto del male.

Nella strada deserta il grosso camion aspettava sornione. Tutt’intorno, la nebbia che contribuiva a rendere la situazione sempre più incredibile, ai limiti evanescenti del sogno. Entrai nella cabina del camion portando con me la gabbia del mio canarino. La posai sul sedile tra me e il sig. Squassoni, che già si trovava al posto di guida.

La mamma ed il nonno erano già a bordo della “topolino” che ci avrebbe preceduti a Bergamo.

Era presto, forse le sei del mattino. In giro non c’era quasi nessuno. Quanto era strana, esaltante quella grigia mattina, comune per tanti, ma così insolita e determinante per me. Qualche bicicletta mossa con stanchezza da gambe ancora intorpidite dal sonno e già violentate dal dovere. Qualcuno si stringe addosso il cappotto per non sentire i morsi del freddo e dell’umidità. Gli spazzini con le braccia indolenzite riprendono il consueto spossante dialogo con la ramazza e si muovono con quel caratteristico dondolio che li fa sembrare in preda al delirio di qualche danza rituale.

E’ strano come le cose di tutti i giorni sembrino diverse, nuove, a seconda delle circostanze; come ci si possa attaccare a certe immagini, fino al giorno precedente osservate con distrazione se non con distacco.

Il camion passa per via Fenice. Gli antichi palazzi nicchiano, sostenuti dal respiro degli archi sotto i quali si snoda il portico della tela. Qualche finestra è tuttavia aperta ed una lama di luce giallastra interrompe il grigio torpore del lungo serpente addormentato.

La piazza del Duomo. In un attimo l’immagine della grande chiesa si accende e si spegne. Ma quanto dura, in realtà, quell’attimo…. I miei occhi catturano in brevissimo tempo ogni centimetro di superficie della facciata. L’ho vista spesso quella chiesa, forse più di qualunque altra. La prima confessione fatta a Don Nino sui banchi della navata centrale. Che dovevo dirgli? Cosa c era stato di tanto riprovevole da doverlo confessare? Già quel termine mi sembrava spaven­toso; evocava le immagini di chissà quali brutture. L’idea stessa del peccato aveva contorni sfumati e non esattamente decifrabili. Fino a che punto un bambino di otto anni può stabilire come ed in che ha commesso peccato? Cosa sa del peccato, se non quello che gli hanno fatto entrare in testa a Dottrina? “Il peccato offende Dio” e questo lo si può capire, manca però la misura per valutarne l’entità. Una esperienza traumatizzante, perchè non trovavo nulla di abbastanza valido per cui ci si potesse incamminare su un sentiero i cui confini erano tanto deformati dalla mia immaginazione. Fortunatamente avevo accanto a me un prete che era soprattutto un uomo. Nessuna ricerca della colpa, ma due parole semplici, che mi aiuta­rono. Forse questa è la sensazione di sollievo che si dovrebbe provare dopo la confessione. Da allora l’avvertii pochissime volte.

Nella nebbia si perde la cupolina del campanile. Dal terrazzo di casa mia, che dava sul cortile della Canonica, allora adibito a spazio-giochi per i ragazzi, avevo invidiato i temerari che si avventuravano per le irte scalette della torre fino a raggiungere l’ultimo terrazzino della cupola, a più di cinquanta metri d’altezza.

Diversi anni dopo in uno dei tanti viaggi riossigenanti compiuti da Bergamo a Mirandola, io stesso avrei trovato l’opportunità di salire verso la cima della torre. Mi trovai così faccia a faccia con l’antico campanone che per secoli ha sottolineato i momenti più importanti della vita cittadina.

Anche adesso che non troneggia più sulla torre che lo ospitava precedentemente, accanto al castello, il campanone è presente, con la sua voce brunita, nelle ricorrenze civili e religiose. Quante volte ho udito da casa mia i lenti rintocchi di quella campana. E pensare che allora quasi mi infastidiva il suo suono cadenzato e prolungato per sessanta minuti. Ora non so che darei per sentirlo ancora riempire l’aria del suo solenne salmodiare.

Lascio il mio Duomo portandomi impressi nella mente le sue austere navate, i suoi apparati di damasco rosso e oro delle solennità, le sue arcate e le colonne dipinte a finta pietra… Non lo avrei rivisto mai più così. Un restauro, effettuato un anno dopo la mia partenza, avrebbe stravolto la fisionomia consueta della chiesa, consegnando agli anni a venire una missaglia di tinte pastello che ricoprono tutto l’interno del tempio. Moderna “cartapesta” si sovrappone alla “cartapesta di ieri, cancellandone l’an­tica poesia e rendendo anonime le pur nobili strutture della chiesa.

La curva a gomito che da via Fenice immette in via Cavallotti e di qui alla Piazza, mi distoglie dal pensiero della mia infanzia, legata in gran parte al cortile della Canonica e alla familiare imponenza del Duomo, per sostituire queste immagini con la sconcertante vastità della Piazza. Gli edifici che la delimitano emergono dalla nebbia per poi subito esserne riinghiottiti. Più che distinguerle, immagino le severe fattezze della Torre del Castello e quelle più aggraziate della Madonnina. La lunga teoria di case del lato orientale si sgrana quieta e rassicurante, con le vetrine dei negozi ancora nascoste dalle serrande abbassate. Sul fronte opposto, dallo squarcio aper­to nelle antiche cortine del castello, emerge la massiccia mole del teatro, avvolto pur esso dalla nebbia.

Nessuno in piazza a quest’ora. Soltanto il caffè Pico solleva l’ambiente dalla sensazione di essere coinvolti nell’inquietante atmosfera di una pittura metafisica. Dietro le porte appannate si distingue appena un cameriere che, con aria assonnata, mette in pressione la macchina del caffè. Fra poche ore questo spazio silente si animerà del vociare della gente che, con lo scambiarsi opinioni e pensieri, farà fluire il fiume della vita fra le quinte ed i fondali di questo scenario affascinante. Nel giorno di mercato, dall’ele­gante Loggia del Palazzo Municipale, un ininterrotto ed assordante brusio si rifrange contro lo scoglio rappresentato dal Palazzo Bergomi, in un flusso e riflusso che non ha termine, se non all’ora di pranzo.

La Piazza a poco a poco si svuota, lasciando a dominarne la vastità, le sole bancarelle multicolori dove il rauco vociare degli ambulanti si placa lentamente, per risorgere con improvvisi guizzi d’imbonimento all’indirizzo di qualche cu­rioso ritardatario. Spesso sono stato a quel mercato, su e giù per il Listone, mostrando assai più interesse per la gente viva e genuina che non per le mercanzie, esposte e proposte con arte accattivante e ruffiana. La Piazza,cuore della città e prevedibile vetrina delle manifestazioni umane; un ambiente soggetto a trasformarsi in palcoscenico per le più poliedriche rappresentazioni. Inquieta e palpitante quando, da un palchetto innalzato davanti al Palazzo, un oratore riusciva a catturare l’attenzione e l’interesse di centinaia di persone ora, più o meno singolarmente, annoiate dal “vota per me” di una banale “Tribuna Politica”. Animosa e provocatoria, se invasa dall’ira repressa dei lavoratori, convenuti a reclamare i propri diritti.

Il fragore della Fiera di Luglio, quando le giostre ed i baracconi occupava­no l’intera superficie disponibile. La folla si muoveva ad ondate, attirata dalle novità dei padiglioni o più semplicemente dalla smania di volersi divertire, in un’epoca che di divertimenti ne offriva pochi. Le voci della Pizzi, di Latilla, della Boni, erano le sirene che, nei primi anni cinquanta, ammaliavano i naviganti di quel mare di beatitudine. Poco più in là, dietro il Castello, una più anonima orchestrina, regalava, a chi volesse ballare, l’illusione del night, tra gli alberi del Giardino Pubblico, dove i superalcolici cedevano il passo ad una refrigerante fetta di cocomero.

Nei giorni di festa il Listone si trasforma in una “passerella” che, nelle intenzioni, ha ben poco da invidiare a quelle autentiche. Interminabili “vasche” per il piacere di una passeggiata “al centro dell’attenzione”, magari per sfoggiare l’ultimo abito, per farsi vedere con la ragazza o con il ragazzo pressoché ufficiale, o per commentare gli avvenimenti sportivi.

Sedersi, quasi stremati, ad un tavolino dei numerosi caffè, per riposare e curiosare su quanti, prima, hanno fatto lo stesso con noi. La straripante allegria che accompagna il corso mascherato di Francia-corta con i suoi carri, i suoi singolari personaggi, le sue “patacche” di latta che suggerisco­no l’idea di ambite decorazioni. Il raggelante silenzio che fa da sfondo alla solenne processione del Crocefisso del Gesù, che viene portato da più di quattrocento anni fra la moltitudine ammutolita, rispettosa e, solo per pochi attimi, senza divisioni politiche di sorta. Questa è la piazza, con gli umori alterni delle persone, con gli odi e gli entusiasmi senza i quali una città non può dirsi viva. Ma ecco l’armeria di Pullega, dove mio nonno passava interminabili ore a parlare di selvaggina, di fucili, di “botte”, di “capanno”, di maremma. Quante volte, bambino, verso sera, gli andavo incontro con la speranza e la segreta certezza che sarei tornato verso casa con la destra stretta dalla sua mano e la sinistra occupata da un cono al cioccolato. Ora sei là, accanto a tua moglie, unici della nostra famiglia, della nostra terra.

Ma la curva è quasi completa e, dal camion, appena appena intravedo il magnifico fondale formato dalla chiesa di S. Francesco. La strada che porta all’antica chiesa dei Pico devo averla percorsa migliaia di volte, prima come studente, poi come amatore d’arte. Accanto a S. Francesco sorge l’edificio che ospita le scuole. Dove ora ce l’Istituto Tecnico un tempo c’erano le Medie e lì ho fatto i primi conti con i brutti voti, i rimproveri, la caparbietà e, perchè no, le soddisfazioni.

Dalle Medie al Ginnasio il passo è breve. Quanta importanza quel primo giorno in quarta Ginnasio! L’interesse per i nuovi compagni, contare quanti dei “vecchi” erano ancora con me. Latino l’avevo già abbordato discretamente, ma Greco? Il primo compito in classe fu un’ecatombe ma fortunatamente ebbi la ventura che un’amica di famiglia, ora noto medico di Mirandola, mi stesse vicino aiutandomi anche moralmente, tirandomi su “Non preoccuparti troppo” mi disse, “se ognuno dovesse mettere in fila i brutti voti, si arriverebbe a Modena, eppure…” Mi aiutò davvero; imparai il greco anche grazie a lei. Ginnasio, quindi quattordici anni e prima esperienza sentimentale. Timidi entrambi, ci si studiava tenendoci per un po a distanza. Poi, un mattino, le vado incontro; lei abitava a S. Felice. La vedo scendere dalla corriera ed il sole, battendo nel vetro della portiera, me la fa apparire come in un’aureola dorata. Sarà forse ridicolo, ma questa e la verità, quello che ho provato. Le diedi un bacio e, mano nella mano, senza una parola ci avviammo sotto i viali, verso la scuola.

Entrambi siamo sposati ora, con persone diverse naturalmente e ab­biamo figli, ma mi farebbe piacere sapere che anche lei ricorda quel mattino rimasto là, senza alcun rimpianto e, proprio per questo, sempre bello e pulito.

E i compagni? Come dimenticarli? Abbiamo vissuto per un anno e mezzo le stesse emozioni, le stesse esperienze. Gustavo, Piergiorgio, Stefa­no, Vittorio, Giordano, Vanni…. Quanto era bello starcene insieme, a stu­diare sì, ma anche a parlare, a divertirci. Le prime festicciole, le interroga­zioni, la prima sigaretta fumata a mantice nello spogliatoio della palestra, la stessa per sette od otto.

Anche da loro mi sarei dovuto staccare e questo sì, mi arrecava disagio: erano i miei amici, non più soltanto compagni di gioco, ma amici, in seguito chi avrei incontrato?

Un ultimo sguardo alla mia Chiesa e via. Era emozionante partecipare alle funzioni vestito da paggetto. Oggi queste cose fanno ridere o, al massi­mo, folklore, ma allora, quando avevo quattro o cinque anni, era una festa; mi sembrava di essere il principe delle fiabe, con tanto di spadino, mante o e cappello piumato.

Si trattasse poi della festa dell’Immacolata o di S. Antonio, faceva lo stesso, l’importante era indossare il costume. Uscire sul presbiterio, stare a lato dell’altare e vedere tutta quella gente nella solenne austerità del tempio. Là, le tombe dei principi antichi, qua, le vetrate che mi affascina­vano con i loro colori,mentre la chiesa era immersa nella penombra. Non c’è volta che torni a Mirandola senza passare ore in questa chiesa. Devo averla fotografata pietra per pietra e se è vero che si può amare un’opera d’arte, ebbene, io amo questa. Siamo già verso il fondo della Piazza e ancora riesco a vedere la chiesa del Gesù con i mattoni sbrecciati ed i buchi neri della sua facciata.

“Ciao, Crucifiss” mi viene dal cuore. Marinando la scuola, ho passato due o tre mattine in questa chiesa, stordito dalla bellezza e dall’opulenza dei suoi tesori. Credo che l’amore per l’arte in genere e per le chiese di Mirandola in particolare, sia nato in me proprio al Gesù. Quest’anno è terminato il restauro della chiesa di S. Francesco; è stato ristrutturato l’antico Collegio dei Gesuiti per ospitarvi la Biblioteca e il Museo e, se è vero che non c’è due senza tre, ora tocca al Gesù, prima che i mirandolesi, anziché ammirarne le bellezze, possano soltanto ricordarle.

Ecco la piccola chiesa della Madonnina. Ricordo i “mesi di Maggio” nel piccolo vano del seicentesco tempietto. Le dense volute dell’incenso che salivano dal turibolo che, con gran vanto, agitavo verso i fedeli. I canti a più voci che glorificavano la Madonna; le ciliege che mi aspettavano in sacre­stia. I burberi rimproveri della custode della chiesa contro noi chierici che, ben lontani dall’essere angioletti, la facevamo impazzire. Io stesso la rin­chiusi nel vano che immette alla scaletta del campanile, con quella incon­sapevole cattiveria che spesso i bambini hanno. Quella sera, informata dalla stessa vittima, mia madre mi fece fare la strada del ritorno a suon di grancassa. Ora anche la Madonnina è alle mie spalle e si percorre il gran vialone che porta fuori da Mirandola.

Apro il finestrino ed istintivamente guardo indietro. Fra la nebbia riesco ancora a distinguere il portico del Municipio che sembra sorridere in una smorfia amara. Sì, tornerò a Mirandola, ma non sarà più come prima. “Al primo ritorno acquisterò qualche cartolina….”. Comincia ad attanagliarmi la nostalgia.

Sono passati ventidue anni e sono tornato molte volte; ho visto Mirandola diventare sempre più bella. Ormai posso dire di essere inserito a Bergamo, città artisticamente splendida; ho sposato una donna intelligente e bella; nostro figlio è un bambino di cui non si può essere che felici; mi sento a posto, ma quando mi colpisce il “virus mirandolese”, non posso non invidiare chi ha la fortuna di abitare a Mirandola. Inevitabilmente il pensiero corre agli anni dell’infanzia, ai vecchi amici, alle palle di neve in via Roma con Gabriella, agli spuntini prescolastici nella salumeria di Carla, al “cinema”, fatto con una scatola da scarpe, due bastoncini e le striscie del Corriere dei Piccoli: opera geniale di Silvana e Natalia, ai giochi avventurosi nei cortili di Celso e di Alfredo. Torno appena posso a Mirandola, ma Celso non vi abita più; Alfredo è occupato dal lavoro nel suo negozio e così pure le quattro sorelle che amo come fossero sorelle mie. Il figlio di una di loro dimostra interesse ed amore per Mirandola; sono felice di trasfondere in lui tutto quello che so perchè è un po’ come se anch’io fossi là, ma non è la stessa cosa.

Bisogna ripartire e una volta in vista delle Alpi Orobiche si rientra nel ritmo normale della vita: quello che ora è il mio. Tuttavia, poggiando la testa al finestrino del treno, rivedo un ragazzo a bordo di un camion, pieno di ritagli di vita. Cerco di vincere la commozione e accendo una sigaretta.

Tratto da: Sessant’anni di vita del Liceo-Ginnasio “Giovanni Pico” – Mirandola 1923-1983

 

 

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