Prof. Nello Bozzini – “Amarcord”

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Nel pubblicare questo racconto mi sono posto il solito problema ” lo leggeranno gli amici del Barnardon? ” Purtroppo Internet ed i social networks non ti invitano ad una lettura lunga e approfondita, l’importante è puntare sul titolo ma, leggendo il racconto, non potevo non pubblicarlo, ho ritrovato la nostra Mirandola, con descrizioni di personaggi e avvenimenti che ho conosciuto attraverso immagini che ho in archivio, oppure ho provato emozioni che anche io ho provato in anni più recenti.
Buona lettura.

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Prof. Nello Bozzini

(Ordinario di Lettere all’LT.C. di Vignola)

“AMARCORD”

Ricordo che nelle adiacenze del nostro Liceo “G. Pico”, negli anni trenta, alcune caratteristiche figure di mirandolesi erano simpaticamente note a professori e studenti: il cartolaio Zerbini, solenne maresciallo dei carabinieri in pensione, riforniva i liceali di portapenne, calamai portatili, carte assorbenti nonché di caratteristici nettapennini a tre strati di fusta­gno saldati al centro da un cerchietto metallico.

Presso la chiesa di S. Francesco, dove le studentesse più timorate di Dio si recavano ad invocare l’aiuto divino prima delle interrogazioni, si apriva all’inizio di via Fulvia un negozio di biciclette: qui il meccanico Furlani, dal tipico viso di pugile, custodiva velocipedi piuttosto scassati con cui gli studenti raggiungevano il Liceo provenendo dalle più lontane fra­zioni del mirandolese o addirittura dai comuni limitrofi non serviti dal trenino della Sefta.

Lì appresso, alla confluenza con Via Volturno, si apriva il negozio del barbiere Rodolfo: quasi sempre privo di clienti ma puntualissimo nell’ora­rio di apertura e di chiusura sia sotto l’ira della gelida “galaverna” sia sotto la calura del solleone quando l’autobotte comunale, la caratteristica “dacquadora”, percorreva le strade di Mirandola innaffiandole e apportando ai cittadini un tenue refrigerio.

Nei pressi del Liceo sostava a volte una diligenza militare grigioverde, trainata da una quadriglia di superbi cavalli di razza, che proveniva dal Centro rifornimento quadrupedi del regio esercito di S. Martino Spino: aveva condotto a scuola i liceali delle famiglie dipendenti da quel deposito militare.

All’angolo tra vicolo Bonatti e via Volturno il salumaio Giuffrida im­bottiva con moderazione i panini che i liceali di prima mattina avevano acquistato nel vicino forno di Fangarezzi, appassionato ciclista, emulo di Girardengo.

Il bibliotecario Spezzani, dalla maestosa figura umbertina, nelle sale di lettura della biblioteca comunale ospitava brontolando gli studenti che marinavano il Liceo e cercavano di tacitarlo portando dei libri da rilegare. Suo figlio Glauco, studente, era il nostro animatore di giochi e contese adolescenziali: i giochi avevano luogo nel ricreatorio parrocchiale o nel campo della Rimembranza in circonvallazione nord dove gli alberi recavano nel tronco una targhetta metallica con inciso il nome di un mirandolese caduto in guerra; le contese a base di fitte sassaiole, avevano invece luogo sulla montagnola del Castello Pico dove Glauco, sfidando le ire del capoguardia Carletti, guidava la banda degli studenti contro l’agguerrita banda del rione Francia Corta e contro quella ancor più temibile dei “Granaroni” o dei fratelli “Fiòla”.

Quando poi in biblioteca aumentava il numero dei liceali che avevano marinato la scuola, il bibliotecario Spezzani cacciava tutti fuori inesorabilmente: allora diversi studenti riparavano all’osteria “La Pace”, attigua al Liceo in via Volturno, dove fra una partita a carte e una a boccette attendevano la fine delle lezioni per tornarsene a casa all’orario consueto sorprendendo così la buona fede dei genitori.

Ma le fughe da scuola non erano allora frequenti in un Liceo che aveva il carisma della selezione, della severità, dell’autoritarismo. In quei tempi il programma degli esami di maturità verteva su tutte le materie dell’ultimo triennio e già all’inizio della terza classe liceale si iniziava il ripasso del programma in vista dell’esame di maturità classica.

Molti studenti si alzavano pertanto a studiare a notte fonda quando a Mirandola l’unico segno di vita era dato dai passi cadenzati della guardia notturna Soro oppure dai nottambuli del “Caffè dell’Alba” che, in piazza Vittorio Emanuele II° , spesso apriva i battenti ai clienti solo a mezzanotte per poi chiuderli all’alba del nuovo giorno; era il recapito di numerosi loggionisti che commentavano ora la regia delle ultime opere liriche ora l’interpretazione della trasformista mirandolese Fatima Miris, allieva di Petrolini, che talvolta si esibiva nel locale Teatro Nuovo.

Nei rapporti coi professori si aveva la massima soggezione: allorché fuori dalla scuola si intravvedeva un insegnante, subito ci si defilava attra­verso strade secondarie tanto intimidiva questo incontro reverenziale.

Allora l’attesa di certe interrogazioni suscitava un’atmosfera di ango­scia e tuttora non pochi ex liceali ricordano nitidamente l’emozione di quell’attesa allorché il professore scorreva verticalmente sul registro gli elenchi nominativi e quasi con sadica lentezza si avvicinava alla casella del proprio nome.

Solo di sfuggita gli studenti delle ultime classi osavano porre gli occhi sulla scultorea bellezza della prof.ssa Conti docente di storia dell’arte. Nè i liceali osavano poi sottrarsi all’invito del Prof. Pietroniro, docente cieco di filosofia, il quale li invitava a lunghe e faticose gite in un tandem appositamente noleggiato presso il meccanico Luciano che gestiva un negozio di biciclette nel piazzale della Cassa di Risparmio accanto alla “scaletta”. Ad escursione ultimata, il professore gratificava il suo accompagnatore con alcune minuscole e rotonde pastiglie colorate di menta che allora si acqui­stavano per pochi centesimi nella drogheria dei fratelli Vincenzo e Ferruc­cio Pinotti in Piazza Vittorio Emanuele II° o nell’attigua drogheria dei fratelli Campanini.

Quello studentesco era allora un mondo gozzaniano, modesto ma non mediocre.

La vita scolastica era cadenzata da numerose cerimonie e civili e patriottiche che ci vedevano pavoneggiare nelle fiammeggianti divise delle organizzazioni giovanili fasciste: si iniziava in autunno con la Festa degli Alberi e la Festa dell’Uva per terminare con la celebrazione del 21 Aprile Natale di Roma e con la giornata della Dante Aligheri, della Lega Navale e della Croce Rossa che vedeva studenti in divisa sciamare nelle strade per vendere francobolli e distintivi con l’egida della doppia croce.

A volte poi le lezioni erano interrotte da manifestazioni patriottiche promosse generalmente dagli studenti universitari che, in occasione delle vittorie italiane durante la guerra d’Africa e di Spagna nella seconda metà degli anni trenta, col loro variopinto berretto goliardico invadevano il Liceo. I liceali si riversavano allora vociando sulle strade festosamente, cantando inni nazionali e improvvisando ingenue e ludiche manifestazioni patriottiche contro le cosidette potenze demomassoniche e demoplutocratiche allora ostili all’Italia fascista; a volte sulla pubblica piazza si effettua­vano scenografiche e divertenti drammatizzazioni sul tipo “i funerali del Negus”.

Erano quelli gli anni del consenso: identificavamo entusiasticamente ed ingenuamente gli ideali e i destini della patria con quelli del fascismo; nelle adunate patriottiche e al sabato pomeriggio durante le esercitazioni della “premilitare” cantavamo “Faccetta Nera”, “Adua è liberata”, “Le frecce nere son come il vento”: si sognava e si fantasticava sulle imprese delle nostre truppe appuntando, sulle carte geografiche dell’Etiopia e della Spagna, minuscole bandierine tricolori sulle località man mano conquista­te dai nostri soldati.

Care illusioni della nostra adolescenza! Alcuni anni più tardi, con la tragica realtà della IIa Guerra Mondiale, i liceali avrebbero pagato di persona l’inganno di una propaganda dittatoriale morendo sotto il piombo degli alleati o dei tedeschi.

Anche il ritmo delle stagioni scandiva allora la vita scolastica liceale: i colori dell’autunno accompagnavano l’inizio delle fatiche scolastiche; iniziava allora l’andirivieni degli studenti in Via Fulvia, presso il recapito dei corrieri Baschieri e Casari, per ritirare i libri usati di testo commissionati alla libreria Veronese di Bologna.

Successivamenté nelle serate invernali, quando nevicava, si osservava periodicamente, alla controluce dei lampioni, lo sfarfallio delle bianche falde: se ne controllava l’intensità nella speranza che l’indomani le lezioni fossero sospese per l’impraticabilità delle strade o per il mancato funzionamento della caratteristica “puiana” a cavalli che allora fungeva da spar­tineve. In questo caso l’indomani si sarebbero visti i “camaranti” disoccu­pati giungere dal contado coi loro badili, ammassarsi davanti al palazzo municipale per la “chiama” della spalata delle nevi: era questa un’occasio­ne insperata offerta ai più diseredati per “fare giornata”.

A primavera, quando le prime margherite occhieggiavano attorno all’artistico pozzo nel cortile interno del Liceo, durante l’intervallo ci si riposava sdraiati sull’erba novella del prato il cui verde smeraldo riverbe­rava dolcemente sul chiostro circostante: nascevano allora i primi ingenui amorosi turbamenti che si esprimevano in improvvisi rossori, in occhiate fugaci, in cenni e parole timidamente abbozzate. In quel prato l’infaticabile e minuscolo fotografo Teseo Pacchioni ci sistemava più volte sulle panche per scattare le fotografie-ricordo della classe, effettuate alla presenza della mite bidella Tilde e del “burbero benefico” bidello Comini che di fianco al gruppo, in divisa e col chepì sulle ventitré, inalberava lo stendardo dell’istituto.

Con l’avvicinarsi poi dell’estate si intensificavano, in preparazione al saggio ginnico finale, le esercitazioni di ginnastica nella nostra vetusta palestra o nell’attiguo “cortile delle guardie” dove a volte ci giungevano gli acri effluvi di ammoniaca e di cloro provenienti dal vicino deposito di acqua potabile con annessa ghiacciaia comunale: qui vedevamo spesso le lunghe code delle massaie mirandolesi, con il capo avvolto dal largo tipico fazzoletto “alla corsara”, che con fiaschi e damigiane facevano acquisto, a modico prezzo, di acqua o di lunghe stecche di ghiaccio.

A volte invece le esercitazioni di educazione fisica erano effettuate nel campo sportivo comunale sul “percorso di guerra” riservato agli ufficiali della locale scuola della MVSN (Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale).

Giungeva poi, temuto e desiderato ad un tempo, il gran giorno del saggio ginnico finale che nel campo sportivo suggellava il nostro anno scolastico in una fantasmagoria di rutilanti divise, di canti nazionali, di inni bandistici che accompagnavano le evoluzioni sportive effettuate dalle ragazze con cerchi e clavette di legno, dai ragazzi del Liceo con moschetti.

Scrosciavano gli applausi dalle tribune dello stadio dove spiccavano gli esponenti della aristocrazia mirandolese di allora: Vischi, Malavasi, Porta, Bulgarelli, Ceschi, Calanca, Ferraresi, Soli, Dalloca, Magnanini, Frigeri… Qui fra le tante autorità locali spiccava Don Alberico Maretti, nostro docente di Religione e fervente manzoniano che con civetteria ostentava continuamente sulla manica i gradi di capitano cappellano militare. Pure le autorità scolastiche erano presenti al completo: Umberto Trapletti direttore delle Scuole Elementari, il Prof. Grossi Preside della locale Scuola di Avviamento Professionale ed il Preside Angelo Campanelli del nostro Liceo.

Preside Campanelli, com’eri patetico! Tanto discusso ma tanto legato al mondo della scuola che, dopo esserti trasferito a Bologna alla presidenza del Liceo “Galvani”, quando fosti messo in pensione, per raggiunti limiti d’età, il tuo cuore non resse al dolore e moristi stroncato da un infarto nel primo giorno del tuo pensionamento.

Col saggio ginnico finale si concludeva dunque l’anno scolastico: un anno di fatiche fra le “sudate carte”, di severe rinunce, di ansie e di patemi d’animo pressoché quotidianamente presenti nelle interminabili ore di lezione.

Allora infatti non esisteva la “lectio brevis”; l’uscita da scuola era un momento veramente liberatorio che animava gli acciottolati delle strade con risate, canti e motti: particolarmente pittoresche, corpose e salaci erano le espressioni degli studenti della bassa mantovana. All’uscita da scuola, non di rado l’esuberanza degli studenti si focalizzava su tipici personaggi della Mirandola di allora: “al Nàdar” continuamente ebbro, “al Puff” simpatico affarista “prò domo sua”, “al bel Bruno” instancabile venditore di lunari; il giornalista “Pipèn dal Gess” eterno autoinvitato ai matrimoni e alle sagre locali, “Oreste d’la nona” noto per i suoi sgangherati inseguimenti di atterrite ragazze mirandolesi; l’esile minuta e indifesa “Fiorentina” piangente e corrucciata quando sulle panchine dei viali era crudelmente dileggiata dai ragazzi.

Nei giorni di mercato l’attenzione degli allievi era attratta dal cantasto­rie “Taiadèla”, dall’umile Rottagiàna che smontava le bancarelle dei vendi­tori ambulanti e interrompeva periodicamente il suo lavoro per inseguire a sassate, farfugliando a voce alta, i monelli scalzi che lo canzonavano; sotto il “portico della verdura”, in piazza Grande, si notavano invece i madonnari che sulla pavimentazione effigiavano sacre rappresentazioni con gessetti colorati.

Altre volte invece si incrociavano i plotoni serrati della locale scuola degli ufficiali della Milizia fascista che tornavano dalle esercitazioni prece­duti da sei marziali tamburi maggiori ritmanti sonoramente il passo di marcia; in testa, distanziato dai reparti, marciava impettito il Console Gelormini, seguito dal centurione Carta e dagli altri capimanipolo in divise fiammeggianti: numerose ragazze dai veroni seguivano con languidi sguardi i baldanzosi ufficiali auspicandone un invito alla “favolosa” festa danzante degli ufficiali della Milizia: il più famoso avvenimento mondano della Mirandola-bene che aveva luogo nel salone d’onore della caserma “Mussolini” di via Fenice.

Talora poi, all’uscita dal Liceo, lo sciame degli studenti si frastagliava nei rivoli più diversi: alcuni si dirigevano in piazza Grande al negozio dell’armaiolo Pullega per ammirarvi in vetrina le armi esposte: esaltavano queste la loro fantasia alimentata anche dai romanzi d’avventura di Salgari e di Verne che diversi allievi prendevano in lettura dalla biblioteca parrocchiale del bonario e rubicondo don Pittigliani curato dell’Oratorio della Madonnina.

Altri si dirigevano all’edicola della signora Carolina, davanti al palazzo municipale, per osservarvi i fascinosi album a colori editi dalla casa editri­ce Nerbini e per sfogliare le pagine del “Marc’Aurelio” leggendovi le battute umoristiche o le ultime vignette de “Il gagà aveva detto agli amici”. Alcuni si recavano poi al negozio della Venchi Unica, sotto il portico del palazzo Bergomi, per acquistarvi una cioccolatina Perugina nella speranza di trovarvi la figurina del “Feroce Saladino” o della “Bella Sulamita” appartenenti alla collezione dei “Quattro Moschettieri” di Nizza e Morbelli; le figurine diverse e superflue sarebbero state vendute o scambiate con altri eventuali acquirenti fra cui era simpaticamente noto il dentista Trombacco eccentrica figura di professionista ed amicissimo dei liceali. I più squattrinati degli studenti si limitavano a contemplare dall’esterno le leccornie esposte nei vari negozi del centro cittadino: erano infatti tempi di magra e di diffuso pauperismo per cui si mangiava più polenta che pane; infatti, per mantenersi negli studi, diversi studenti cercavano un lavoro stagionale durante l’estate come analisti, impiegati od operai nel locale zuccherificio. Altri erano costretti a sacrifici quasi disumani e inconcepibili dagli studenti d’oggi: si citava il caso del liceale Nofroni Pio che di notte ricopiava su quaderni le pagine di quei testi scolastici, presi in prestito momentaneo,che non era in grado di comperare.

Il Liceo coinvolgeva dunque uomini e cose della vecchia Mirandola: il suo austero edificio goticizzante era il centro propulsore di strutture civi­che e sociali, di pluralistiche attività culturali che cointeressavano l’intera cittadinanza.

E mi sia ancora lecito ricordare, fra coloro che lavoravano nelle adia­cenze del Liceo, anche un’ultima figura: quella di mio padre che faceva il marmista nella vicina via Volturno.

Amanuense del martello e dello scalpello, colta figura di autodidatta ed insegnante nella scuola comunale serale di disegno, condusse una lunga vita, povera ed avara di gioie, nel lavoro della sua bottega dove esponeva le sue apprezzate sculture in marmo; indossava costantemente una casacca da lavoro color kaki con cui volle essere sepolto.

Con lui si intrattenevano affabilmente vari docenti del Liceo di ritorno da scuola.

Spesso il suo scalpellìo sul marmo echeggiava fra le frotte dei liceali che già di primo mattino si recavano alle lezioni…………………. Non sentirò più quel suo colpo di scalpello: quel suono che ha accompagnato la mia infanzia lontana, che si è affiancato al corso della mia giovinezza. Non lo sentirò più. Si è dileguato da me per sempre in una afosa domenica di luglio di trentacinque anni fa…. prima di allora non immaginavo che un giorno quello scalpello potesse dare il suo ultimo battito e sospendersi nel vuoto.

Non lo sentirò più. Ed era uno scalpellìo armonioso, elastico, regolare sul marmo candido: candido come la sua coscienza.

E’ strano che anche i suoni possano essere una espressione viva di quello che è una persona. Eppure è così: una vita che era tutta ordine, equilibrio e armonia, era ritmata da uno scalpellìo ordinato, equilibrato, armonioso.

Di buon mattino, a quel suono, la mia casa si riempiva di sole, di verde, di cielo; quando ritornavo da scuola era quel suono a ripormi nella vita consueta.

Talvolta vorrei potere risentire quei colpi…. dicono che di quando in quando i morti tornano dai loro cari……………. ma non sentirò più quei colpi di scalpello perchè le anime non fanno rumore: quando ci guardano, quando tornano, quando ci sorridono, lo fanno in silenzio.

Pure in silenzio ci sorridono, gelosamente custoditi nel nostro cuore, i ricordi del nostro antico Liceo che costituisce la velata, pacata nostalgia del nostro passato adolescenziale.

Pure in silenzio ci sorridono i cari personaggi della vecchia Mirandola che il Liceo cointeressava: docenti, studenti, famigliari, negozianti, sacer­doti che attorno alla Scuola erano allora protagonisti di un mondo sempli­ce ma sereno e pulito: un mondo in cui difficilmente si fuoriusciva dai ristretti orizzonti municipalistici del paese natio ma si era paghi delle modeste soddisfazioni che, nella ovattata vita di borgo, scaturivano da una armonia corale di affetti.

Tanti testimoni di allora oggi non sono più: con loro è scomparso quel mondo frugale travolto dalle ondate migratorie, dalle dinamiche sociali, dal consumismo, dai valori diversi perseguiti dalle nuove generazioni. Caro e antico Liceo, addio!

Tratto da :” Sessant’anni di vita del Liceo-Ginnasio “Giovanni Pico” – Mirandola 1923 – 1983

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