Giuseppe Morselli – Dicembre, l’uccisione del maiale

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L’UCCISIONE DEL MAIALE

Nello scorso mese di novembre, citando un antico proverbio relativo alle festività di Sant’Andrea, si è detto che i freddi giorni che vanno dalla fine di novembre alla vigilia del Natale erano de­dicati alla macellazione domestica del maiale, il bene più prezioso della gente contadina.

Di solito, come prescriveva la tradizione, il povero porcello veniva sacrificato in una fase di luna calante e con la temperatura al di sotto dello zero, anche se molto spesso a decidere questa giornata fatidica era la fine delle scorte alimentari destinate al suino, come le ghiande, la crusca e tutto quello che serviva per la caratteristica broda che in dialetto prendeva il nome di “zotta”. Tanto che per offendere gravemente una persona o per manifestare una forma di grosso fastidio si diceva: “Sei un porco da zotta”.

La mattanza vera e propria del maiale avveniva generalmente nel mezzo del cortile, ripulito da ogni corpo estraneo: il maiale ve­niva prelevato dal porcile nelle prime ore del giorno e le donne dicevano che, poverino, lui sapeva già a quale triste sorte andava incontro, una sorta di presentimento.

Il norcino, che dalle nostre parti si chiamava “beccaio”, (dalla parola dialettale “pcarìa”) nel frattempo aveva eretto una sorta di paranco che doveva servire a sollevare la carcassa e aveva affilato i suoi lunghi e lucenti coltelli; le donne, frattanto, avevano prepa­rato alcuni grossi paiuoli contenenti acqua bollente. Legato per il muso e tenuto fermo da un paio di uomini robusti, il povero maia­le veniva quindi sgozzato dal beccaio con un sapiente colpo al cuore grazie ad un acuminato coltello, con l’immediato intervento di un solerte aiutante che era incaricato di raccogliere il sangue dell’animale, che poco dopo veniva utilizzato sia nella versione di sangue fritto, che da qualcuno era ritenuto un’autentica specialità, sia mescolato in mezzo a qualche salume, come la cosiddetta “sal­siccia rossa o matta”.

Poi la carcassa dell’animale veniva appesa per i piedi al paranco e il “beccaio”, con alcuni colpi ben assestati, procedeva a dividere la carcassa del suino in due mezzene. Le quali mezzene, dopo avere fatto cadere tutto il loro sangue, erano trasportate in cucina, dove aveva inizio la lavorazione vera e propria, un’operazione che richiedeva un’intera giornata. Dalle mani sapienti del beccaio sca­turiva una sorta di miracolo, un miracolo fatto di prosciutti, salami, coppe, salsicce di vari tipi, pancette e, talvolta, di zamponi. Più probabile che venissero prodotti cotechini e “cappelli da prete”, con il corollario di “coppe di testa” e “teste imbastite”.

Mentre il norcino eseguiva tutte queste operazioni con una sapienza e una maestria straordinarie, sul fuoco del camino stava bollendo un grosso pentolone in cui venivano gettati pezzi di cotenna, lardo e alcuni pezzi di carne non utilizzabili al momento. A fine giornata da questo miracoloso pentolone venivano tratti i famosi ciccioli frolli e gustosi, mentre il resto del pentolone, raffreddato, forniva il prezioso strutto, con cui si friggeva per tutto l’anno.

Con le ossa si facevano le costine (in dialetto “la costaiola”) e anche un brodo decisamente grasso ma oltremodo ricco di calorie. Non esisteva dalle nostre parti l’uso di produrre il “sanguinaccio”, mentre la lingua veniva conservata in salamoia e le setole del maiale erano cedute al ciabattino del paese; a lavorazioni un po’ particolari erano sottoposte le frattaglie, come il fegato e il cuore. Insomma, il povero maiale regalava qualcosa a tutti, perfino ai ca­ni e ai gatti che in quel giorno festoso (tranne che per il maiale) non erano ignorati, grazie ai tendini, alle ossa e a piccoli ritagli di carne.

A parte lo zampone, prodotto tipico della “Bassa” che peraltro richiedeva una lavorazione un po’ complessa e, in seguito, una cottura decisamente lunga, il salume tipico delle nostre parti era il classico “salame fatto in casa”, al quale erano destinati i pezzi di carne più pregiati. La carne, ben tritata e macinata, era condita con grande perizia dal norcino, che metteva nel pastone le giuste quantità di sale, pepe nero e di spezie; poi il pastone passava den­tro una macchina manuale un po’ rudimentale che lo faceva entra­re nei budelli dello stesso maiale, che nel frattempo erano stati ben lavati con acqua e sale. Il salame più pregiato era considerato quello “gentile” (o anche, chissà perché, “fiorentino”) perché era insaccato nel budello più grosso, quello che coincideva con la par­te terminale dell’intestino del maiale. Dopo la rituale legatura con lo spago, che veniva fatta con una celerità sorprendente e affasci­nante per i profani, i salami, assieme alle coppe, ai cotechini e ai rotolini di salsiccia di prima categoria, erano legati ad una lunga pertica e poi messi ad asciugare nelle camere da letto, quelle rite­nute più asciutte. Dopo qualche settimana di asciugatura, con opportune aperture delle finestre nelle ore centrali del giorno, i sala­mi erano trasferiti in cantina per la stagionatura e qualcuno finiva addirittura sotto cenere, ritenuta utile per una buona conservazio­ne.

Nella tarda serata il rito dell’uccisione del maiale era pratica­mente finito e il norcino, con i suoi eventuali collaboratori, era quasi obbligato a trattenersi a cena, perché tutti avevano fame dopo il fin troppo frugale pasto del mezzogiorno. Sulle braci del camino erano messe ad arrostire alcune braciole e tante fette di polenta, ma spesso c’erano anche sulla tavola i maccheroni al pettine, oltre ad un numero imprecisato di bottiglie di lambru­sco.

Vorremmo aggiungere che nelle famiglie contadine, in questo periodo prenatalizio, si verificava anche l’ecatombe dei poveri cap­poni, cioè dei galletti evirati fin dalla più tenera età e praticamente “costretti” ad ingrassare per diversi mesi. Il cappone era indispen­sabile per ottenere, assieme alla carne di manzo, un brodo straor­dinario, quello giusto per esaltare al massimo i tradizionali tortelli­ni di Natale. Ma esisteva una strana leggenda, in virtù della quale era considerato molto fortunato colui il quale, mangiando la carne del cappone, trovava fra i denti, quel sottile filo di cotone usato nella ricucitura dello strappo causato dalla castrazione. Da ricorda­re infine, come curiosità, che le donne abili nel castrare, soprattut­to in primavera, i futuri capponi, conservavano i due piccoli “fa­giolini” dell’ex galletto per farli mangiare ai nipotini maschi. Erano una promessa di futura virilità, accompagnata da una battuta sorri­dente: “Stai mangiando la carne morta di un animale vivo”. Le an­ziane signore specializzate in questo intervento chirurgico erano molto abili, così come erano crudeli quando inchiodavano le zampette palmate delle oche su un pezzo di legno, per evitare che il povero animale facesse del movimento per potere ingrassare nel più breve tempo possibile.

Chi scrive questi omaggi alla memoria ha visto con i propri occhi un’anziana “razdora” che faceva ingurgitare ad una povera oca una grande quantità di granoturco usando addirittura un im­buto.

Tratto da: Antiche tradizioni mirandolane

Autore: Giusepppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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