Lucia Roveri, l’ultima strega della Mirandola

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Illustrazione di Koki Fregni

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Chissà perchè, ma a Mirandola, parliamo della vecchia città che re­citava spesso una parte importante nella storia d’Italia, le streghe sono sempre state di moda. Nessuno sa bene cosa facessero, quali fossero i lo­ro riti arcani, quali diavolerie inventassero nei loro turbinosi sabba, sta di fatto però che l’etichetta di patria delle streghe rimase affibbiata alla vecchia Mirandola per lunghi secoli. Si può dire che siano passati alla storia per merito dei Pico, dei loro grandi personaggi e delle loro vicen­de, ma anche per merito delle streghe che per molti decenni hanno con­tribuito a rendere un po’ misteriosa la nostra terra.

Scrive infatti Cesare Cantò nella sua immensa «Storia Universale» che «le streghe italiane si univano in vari luoghi, fra i quali il monte To­nale in Lombardia (anche se oggi il passo del Tonale fa da confine fra la Lombardia e il Trentino), al Barco di Ferrara, alla Spianata di Mirando­la, al monte Paterno (oggi Paderno) di Bologna e infine al Noce di Bene­vento».

Erano, come si direbbe oggi, cinque località deputate ad accogliere 1 misteriosi convegni delle streghe ed è singolare che ben tre di questi luo­ghi fossero in Emilia. Evidentemente le donne delle nostre terre possede­vano un certo trasporto verso questo misterioso e anche assai pericoloso mestiere. Perchè, nella migliore delle ipotesi, una donna accusata di stre­goneria finiva sotto le grinfie del Sant’Uffizio e quando non ritrattava era implacabilmente condannata al rogo. Nella storia vi sono migliaia di esempi di persone che, accusate di stregoneria, o comunque di eresia, so­no finite arrostite vive sulle pubbliche piazze. Il più famoso è certamente quello che si riferisce a Giovanna d’Arco, l’indomita Pulzella di Orleans che poi la Chiesa ha riconosciuta come martire e Santa.

Mirandola, come piccola capitale della stregoneria, come crocevia importante del malocchio e della magia, ha avuto nei secoli terribili vi­cende in questo settore, anche se poi, in definitiva, si trattava spesso di vere e proprie «epurazioni» suggerite dal potere per togliere di mezzo tutti i personaggi scomodi. Basti pensare che uno degli ultimi mirandole- si (seppure di elezione) finiti davanti al Sant Uffizio è stato il grande Don Zeno Saltini, padre dei «Piccoli Apostoli» e di Nomadelfia. Per lui non c’è stato certamente il rogo sulla pubblica piazza, ma sicuramente non gli sono mancati i guai.

Uno dei periodi più drammatici nella storia di Mirandola per quan­to riguarda la stregoneria fu certamente la prima metà del Cinquecento. Era un momento di grandi guerre, di sommovimenti politici e militari di enorme rilievo, culminati, proprio a Mirandola, con il famoso assedio di Papa Giulio II del 1511. In mezzo a tante guerre, la gente non sapeva più a che santo votarsi e, forse per questo, forse anche a causa della miseria e dell’incertezza, vi fu un improvviso aumento dei casi di stregoneria. De­cine di donne e di uomini, perfino sacerdoti insospettabili, furono accu­sati di arti malefiche, di stregonerie, di magia, di eresia. Forse è probabi­le che si trattasse soltanto di persone che avevano appreso che in Germa­nia un umile fraticello Agostiniano, certo Martin Lutero, cominciava a dire cose nuove e brucianti sulla Chiesa e sui corrotti personaggi di primo piano.

Sta di fatto che con la scomoda etichetta di «streghe» o «stregoni» furono processate, fra il 1520 e il 1530, centinaia di persone. Erano i tempi in cui comandava uno dei più grandi personaggi di casa Pico, quel Giovan Francesco II, che fu ottimo uomo politico, insieme letterato e, in un certo senso, precursore di Lutero. Ma questa sua vasta levatura men­tale non gli impedì di chiamare a Mirandola un grande inquisitore come Padre Leandro Alberti, uomo di eccezionale cultura ma di estrema rigi­dità in fatto di religione.

Padre Leandro Alberti, intorno al 1523, su precisa richiesta del con­te Giovan Francesco II Pico, giunse a Mirandola proveniente da Finale Emilia, dove aveva già «sistemato» parecchi casi di stregoneria. Dove il verbo «sistemare» significava in pratica mandare al rogo.

Il celebre inquisitore venne a Mirandola animato da grande fervore e da un inflessibile senso dell’ortodossia. Non poteva essere perdonato chi usciva, neppure di poco, dal solco tracciato dalla Chiesa Cattolica. Fossero streghe o eretici non importava, la destinazione per chi non si ravvedeva pubblicamente era un bel falò in piazza. Leandro Alberti fissò come propria sede il convento dei Padri Domenicani situata in località ora detta della Madonna della Via di Mezzo. La chiesa e il convento, di­strutti, come afferma il dott. Vilmo Cappi, nel 1511, erano appena stati ricostruiti. E il Tribunale dell’Iquisizione cominciò a funzionare a pieno ritmo, non certo con le odierne lentezze della giustizia. In breve tempo diverse dozzine di mirandolesi, accusati di stregoneria, di maleficio o di eresia, finirono bruciati in piazza. Poveri sventurati che probabilmente non avevano molte colpe, se non quella di essere stati denunciati da qual­cuno che gli voleva male. Quante fossero realmente le streghe vere, quel­le autentiche, non è dato sapere, anche se all’Archivio di stato di Mode­na esiste una vasta documentazione in materia.

Il luogo del supplizio era sulla pubblica piazza della Mirandola, tra la torre di San Ludovico del Castello (oggi sul luogo esiste l’edicola Reg­giani) e il portico detto del Ramaro e delle verdure, noto anche come il portico degli Ortolani. Il fatto strano è che il rogo delle streghe o degli eretici era uno spettacolo che nessuno voleva perdere e in breve tempo, quando si vedevano gli sbirri preparare il rogo, la piazza si riempiva di gente, per nulla disposta a perdere una sola battuta del macabro spetta­colo. Una forma drammaticamente strana di pubblico divertimento.

Il grande «lavoro» di Padre Leonardo Alberti preoccupò lo stesso conte Giovan Francesco II, che volle vederci chiaro. Il conte, fra l’altro, era un esperto della materia, tanto è vero che sull’argomento della stre­goneria aveva addirittura scritto un libro, dal titolo «Stryx, sive de ludificatione deamonum», in cui l’autore immaginava che una giovane stre­ga venisse arrestata a Mirandola al mercato delle erbe. Due persone si re­cavano al monastero della Madonna della Via di mezzo, assistendo al dialogo fra la strega stessa e il grande inquisitore, con le opinioni degli antichi e il racconto della strega al suo carceriere.

Fra i più importanti capi di accusa che venivano mossi alle donne presunte streghe c’era quello della partecipazione all’«orribil gioco della donna», in cui magia, filtri d’amore e prostituzione si intrecciavano in modo caotico. Comunque, gli accertamenti di Giovan Francesco II Pico sull’operato di Padre Leandro Alberti giunsero alla conclusione che le accuse dell’Inquisitore erano sempre fondate. Ma dopo un anno circa di permanenza alla Mirandola il grande Inquisitore fu allontanato dalla cit­tà dei Pico.

Ma, nei decenni seguenti, processi e roghi non mancarono. Perchè, dove non arrivava l’inquisizione, ci pensava spesso il popolino. Fu me­morabile alla Mirandola una sorta di «caccia all’untore» che si ebbe nel 1632, dopo la famosa epidemia di peste, che decimò la popolazione dello stato dei Pico. Bisognava trovare un colpevole per questo luttuoso even­to, e il popolo della Mirandola lo trovò in una povera donna che viveva in una casupola vicino alla chiesa di San Francesco. Le cronache del tem­po non ci danno il nome di questa povera disgraziata, ma essa fu usata come capro espiatorio della peste, nota a tutti come la peste manzonia­na. Fu lapidata con furia selvaggia in piazza, con una feroce partecipa­zione corale di tutti i mirandolesi, nonostante la fiera opposizione del duca Alessandro I Pico.

Scrive a questo proposito Giovanni Veronesi nel suo fondamentale libro «Quadro storico della Mirandola» che «non bastavano ai mirando­lesi le tante morti per fame, guerre e peste».

Ma tutto questo lungo discorso ci serve per arrivare al tema centrale di queste note, vale a dire l’ultima strega della Mirandola. Perchè la sua vicenda umana è tutta da raccontare, forse perchè è testimonianza della credulità popolare e delle molte mistificazioni che sono nate attorno a queste «terribili» streghe.

Infatti, per molti anni, nel Settecento, ebbe grande fama a Miran­dola e in tutta la Bassa modenese una profetessa, o strega che dir si vo­glia. Mirandola a quel tempo aveva perso la sua indipendenza ed era sol­tanto una cittadina senza molta importanza inserita nel Ducato di Mode­na, governato dagli Estensi, eserciti stranieri spesso scorrazzavano per questo territorio, la fame era grande e la miseria infinita.

La nostra grande profetessa era una certa Lucia Roveri, una astuta popolana della Mirandola, nata nel 1728. Questa donna, totalmente analfabeta (come del resto il novanta per cento della popolazione), verso i vent’anni cominciò ad avvertire gli stimoli esistenziali di una non ben accertata vocazione di tipo pseudo-religioso. Iniziò così a profetizzare, a illustrare una nuova confusa religione, a compiere sortilegi e fatture, a «segnare» la gente, a guarire le malattie, a leggere perfino nel passato e nel futuro.

Andava per le strade e le piazze dicendo di essere portatrice di un nuovo «verbo», affermava che Dio, Il padre divino, avrebbe di nuovo ri­preso sembianze umane e che si sarebbe di nuovo incarnato come era successo 1700 anni prima a Betlemme. Naturalmente Dio si sarebbe in­carnato proprio in lei. Ma soltanto così ci sarebbe stata una nuova reden­zione, anche perchè l’altra, quella di Gesù, non era servita a molto. Il mondo era fin troppo pieno di peccatori e di peccati, di guerre, di trage­die, di gente cattiva, ma lei, Lucia Roveri della Mirandola, sarebbe stata il nuovo messia.

Raccontando queste storie, la brava Lucia Roveri, che era certa­mente analfabeta ma non certo stupida, riusciva a strappare discrete ele­mosine in denaro presso la gente più credulona, affermando, in modo particolare, che lei era in grado di sapere il destino dei poveri defunti, con una sorta di comunicazione diretta con il mondo dei trapassati. In poche parole, dietro mancia competente, era in grado di dire se un de­funto era finito all’inferno o al purgatorio, oppure, ma il caso era abba­stanza raro, se era salito nella gloria del paradiso. Era certo, comunque, che il paradiso non era affollato, però, con un’ulteriore elemosina, e con molte preghiere rivolte direttamente a Dio Padre, era possibile accelerare il passaggio dall’inferno al purgatorio ed eventualmente frà i beati del paradiso. Forse era solo questione di prezzo.

Il bello è che la vicenda profetica e stregonesca di Lucia Roveri andò avanti per quasi trent’anni. Girava per le vie cittadine e per le strade di campagna, seguita sempre da un codazzo di «fedeli», lanciando strani e incomprensibili messaggi profetici. Le autorità civili, già pervase da un barlume di spirito illumunistico, lasciavano fare, visto che era praticamente innocua e non disturbava l’ordine pubblico, mentre i preti non tralasciavano, nelle loro prediche, di indicarla come eretica.

Però risultava che parecchia gente era guarita dalle sue malattie, le sue «segnature» guarivano distorsioni e storte, dolori reumatici e piccole febbri. Sta di fatto che la sua fama resistette, come si è detto, per circa trent’anni.

Ma è chiaro che la vicenda di Lucia Roveri non poteva durare in eterno. E la sua conclusione fu assai singolare.

Infatti un giorno arrivò in una casa di San Martino Carano e un fur­bo contadino del luogo, sicuramente incredulo e malizioso, volle cono­scere la sorte di suo padre, il quale, disse, era morto da poco tempo. Lu­cia Roveri, dopo una breve ma intensa concentrazione psicologica, sen­tenziò che il padre del contadino era finito in purgatorio, che soffriva pa­recchio, ma che, con una buona elemosina, poteva ottenere il trasferi­mento in paradiso dove, come ognuno può intendere, si stava assai me­glio.

Il contadino, allora, spalancò una finestra della sua casa e indicò al­la profetessa e al codazzo di «fedeli» che sempre la seguivano, il padre, che stava tranquillamente zappando in un campo poco distante.

Per Lucia Roveri fu un vero e proprio trauma, il crollo di tutto il suo mondo profetico, la fine ingloriosa di una lunga incredibile vicenda. Si espose al ridicolo, il peggior guaio per un profeta. E allora, appresa la faccenda, anche le autorità religiose scesero in campo, con giusta ragio­ne, e Lucia Roveri dovette abiurare nella chiesa dei Cappuccini della Mi­randola, davanti a tutti i chierici del seminario e di fronte a uno stuolo di preti della Collegiata che, nonostante tutto, l’avevano patrocinata, cioè avevano perorato la sua causa. Ma questa abiura certamente l’aveva sal­vata dalla assai più dura punizione del rogo.

Triste fa la fine dell’ultima strega della Bassa. Lucia Roveri morì nella miseria più squallida e nel più totale abbandono all’età di 60 anni, nel 1778, ospite dell’albergo dei mendicanti di Reggio Emilia, dove il go­verno ducale l’aveva fatta accogliere.

Ma di lei si parlò a lungo, accanto agli immensi camini e nelle stalle. Resta soltanto il mistero di come l’ultima strega della Mirandola fosse riuscita ad illudere tanta gente con i suoi trent’anni di magie e di «profe­zie».

 Giuseppe Morselli

Tratto dall’opuscolo “La Sgambada” 13a Edizione della Maratona Popolare

Anno 1984

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