Roxanne & Aleiandro – Un racconto di Niky Caleffi

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Irene si lasciò cadere pesantemente sulla panchina, con un sospiro, quasi in deliquio, i piedi doloranti negli anfibi militari, le gambe pesanti, la maglietta ed i capelli cortissimi madidi di sudore.
Denver può essere incredibilmente calda in ottobre e lei aveva percorso downtown in lungo e in largo per tutta la mattina, scattando foto, curiosando nei negozi, gustando i colori, i suoni, l’allegria multietnica, mentre la colonnina di mercurio raggiungeva gli 87 gradi Fahrenheit e il sole ormai allo zenit faceva evaporare persino i pensieri.
Poi, come in trance, era salita sul primo bus diretto alla biblioteca pubblica e ora sedeva nell’atrio, stravolta dal caldo e dalla stanchezza, sorseggiando una coca e cincischiando con la macchina fotografica, assolutamente incapace di riprendersi dallo stordimento e, al contempo, stranamente vigile.
Al contrario di quelle italiane, le biblioteche americane sono un punto di ritrovo e di aggregazione, piene di colore, accoglienti ed allegre. L’immancabile poliziotto sonnecchiava all’ingresso e l’atrio era animato ed invitante, l’aria condizionata un indescrivibile sollievo alla insolita calura di quell’autunno infuocato in Colorado.
I due ingressi dell’atrio collegavano la Fourteenth Avenue, e la Colfax e, per i più pigri o i più accaldati, attraversare l’atrio costituiva un buon sistema per accorciare il tragitto, qualsiasi esso fosse, di almeno un isolato.
L’italiana si divertiva quindi ad osservare il via vai di quell’assortito campionario di varia umanità, di cui gli studenti, fruitori per antonomasia delle biblioteche, costituivano sicuramente la percentuale più bassa dei passanti. Madri con bambini in carrozzina, gruppi di ragazzini di colore in divisa da rapper, aria strafottente ed occhi da cerbiatto, distinti signori con aria vagamente professorale, cowboys appena usciti da un film western d’altri tempi, un sacerdote di chissà quale confessione, anziane ma arzille signore dagli improbabili capelli color lavanda e turchini, stanche donne delle pulizie ciabattanti dietro carrelli colmi di scope.
E poi lei.
Irene era talmente presa dalla visione d’insieme, da quel quadro impressionista in continuo movimento, che a tutta prima percepì solo una sorta di nuvola rosa alla periferia sinistra del proprio campo visivo, poi finalmente la messa a fuoco riprese a funzionare e potè osservarla.
Entrava dalla Colfax ed il suo passo era sciolto e leggero, aggraziato come quello di una ballerina di danza classica. Intorno le fluttuava un abitino di voile rosa, una sorta di sottoveste impalpabile che le lasciava scoperte spalle, braccia e gambe di un incarnato quasi opalescente, da rossa naturale. E rossi infatti erano i capelli, di quella particolare tonalità ramata che nessun parrucchiere potrà mai riprodurre artificialmente. Due brevi treccine li trattenevano alle tempie, mentre il resto della capigliatura, serica e brillante, ricadeva morbidamente fino a sfiorarle le spalle.
L’incongruenza di quella visione quasi onirica si rivelò ad Irene solo in seguito, quando, giunta la ragazza più vicino alla panchina dove riposava, realizzò che calzava un paio di scalcagnati camperos e portava uno skateboard sotto il braccio, con la più grande naturalezza del mondo.
Camminava tra la gente guardandosi attorno come in cerca di qualcuno, spostando ogni poco lo skateboard da un braccio all’altro. Di quando in quando si fermava di fronte a qualche passante, Irene vedeva le sue labbra muoversi senza poterne udire le parole, ma la gente non la degnava di uno sguardo e passava oltre. Con aria sconsolata percorse tutto l’atrio fino all’ingresso sulla Quattordicesima ed uscì.
Irene, in preda ad un impulso incontrollabile, si alzò e la seguì, ma, uscita nel sole abbacinante, non la vide più.
Un paio di uomini in Stetson e jeans sedevano a terra, sul marciapiede, nell’esigua ombra proiettata dal cornicione del palazzo, fumando in silenzio e accarezzando un labrador nero ansimante per il caldo; Irene si avvicinò, chiese cortesemente se avessero visto una ragazzina vestita di rosa con uno skateboard sotto il braccio e per tutta risposta ottenne solo una pigra scrollata di spalle.
Se ne tornò quindi nella frescura della biblioteca, decisa a bivaccarvi almeno per un altro paio d’ore, fino a quando avesse ritrovato la forza di affrontare il tragitto fino al suo scalcinato motel a Lakewood, in periferia. Per il momento, anche solo attraversare la strada per visitare il Museo di Storia dirimpetto alla biblioteca le pareva un’impresa titanica.
Recuperò il suo posto sulla panchina nell’atrio e prese a sfogliare distrattamente una guida della città, tentando di organizzare un itinerario per il giorno successivo e decidendo alla fine per il Museo di Arte Moderna. Poi per gioco iniziò a puntare la sua piccola Pentax sulla gente che senza sosta attraversava l’atrio: un anziano senza tetto attirò la sua attenzione e venne immortalato mentre spingeva esausto un carrello del supermercato che conteneva sicuramente tutti i suoi averi, in cima ai quali troneggiava, come il custode di un tesoro, un gatto grigio, enorme e spelacchiato.
Poi un altro scatto in sequenza immediata: un pompiere che entrava dalla Colfax, gli abiti anneriti ed insanguinati, l’elmetto ammaccato, il viso sporco di fuliggine e una ferita sulla guancia, dove il sangue si era ormai rappreso in una crosta scura.
Correva e correva, si avvicinava sempre più e quando Irene comprese che si stava dirigendo verso di lei per un attimo ebbe timore che fosse arrabbiato per tutti quegli scatti. Invece, inaspettatamente, si fermò bruscamente e la guardò con occhi un pò febbrili.
“Salve, signora, vedo che è una turista, parla inglese?”.
Il primo pensiero di Irene fu che l’uomo fosse sotto shock, palesemente reduce da un intervento pericoloso, magari un grosso incendio o un grave incidente sulla highway e decise quindi di assecondarlo con gentilezza.
“Certo, signore, la comprendo perfettamente. Posso fare qualcosa per lei?”.
“Sto cercando una ragazzina di circa sedici anni, capelli rossi, abito rosa, camperos e uno skateboard. Per caso l’ha vista, è passata di qua?”.
Felice che il pompiere parlasse senza sintomi di trauma, ma che anzi paresse ben presente a se stesso e particolarmente preciso nella sua descrizione, Irene rimase tuttavia alquanto stupita che cercasse proprio la ragazzina che aveva così tanto colpito la sua fantasia e che era svanita nel caos della Quattordicesima.
“Signore, sì, ho visto circa un’ora fa una ragazza che corrisponde alla sua descrizione: è entrata dalla Colfax, si è aggirata un pò per l’atrio, come cercando qualcuno, poi è uscita sulla Quattordicesima. Ma, posso chiederle perché la sta cercando, ha forse fatto qualcosa di male? Mi pareva tanto dolce e smarrita…”.
“Sulla Quattordicesima, ha detto? Ok, grazie”. Il pompiere riprese a correre senza più degnarla di uno sguardo o di una risposta e in pochi secondi sparì nella direzione opposta dalla quale era arrivato poco prima.
Strana gente a Denver… Ma quella città le piaceva così tanto che era tornata, a distanza di un anno, per rivederne lo skyline, i parchi tranquilli infestati di scoiattoli, i visi della gente, dai tratti composti come un puzzle etnico, il traffico caotico, persino il mega stadio dei Broncos, proprio lei che odiava il football!
La donna se ne stette fino a pomeriggio inoltrato sulla panchina dell’atrio, nella speranza di veder ripassare la ragazzina, ma alla fine un certo languore le ricordò che dal mattino non aveva mangiato nulla e che era ora di concedersi un pasto decente e una buona nottata di riposo.
Ma la mattina successiva, a dispetto del suo programma sul Museo di Arte Moderna, era tornata invece alla biblioteca. Il ricordo della ragazzina intravista il giorno precedente, inspiegabilmente, non le dava tregua.
Di buonora era già appollaiata sullo sgabello di una caffetteria, sbocconcellando un bagel e sorseggiando il solito caffè lungo da un enorme bicchiere di polistirolo, pensando che avrebbe pagato anche dieci dollari per un espresso italiano.
Dalla sua postazione godeva di un’ampia visuale dell’atrio e in cuor suo sperava di rivedere quella ragazzina, di poterle parlare, di chiacchierare un po’ con lei. Non le era mai accaduto prima di provare un tale inspiegabile interesse per una persona vista per pochi secondi durante un viaggio dei tanti e magari conoscendola avrebbe trovato un perché, o forse avrebbe soltanto scambiato due chiacchiere piacevoli con una sconosciuta.
Terminata la colazione riprese il suo vezzo di tenere accesa la macchina fotografica e di inquadrare cose e persone, sempre pronta per uno scatto, per cogliere il dettaglio, l’attimo da ricordare per sempre.
All’improvviso eccola apparire nel minuscolo schermo della macchina digitale, una nuvola rosa come il giorno precedente.
Il suo sguardo smarrito si posò all’improvviso su Irene, e questa realizzò che i suoi occhi erano azzurri come il cielo sulle Rocky Mountains in un mattino di primavera.
“Ciao, mi chiamo Roxanne, e tu? Belli i tuoi jeans”.
Sorrideva con allegra dolcezza, forse era anche più giovane di quanto Irene avesse supposto, aveva un’espressione così aperta, vulnerabile, infantile.
“Ciao, che bel nome Roxanne. Io sono Irene e vengo dall’Italia. Grazie, ma i miei jeans non sono niente di speciale, il tuo vestito invece è uno schianto, davvero, e poi con i camperos è così cool! Senti, ti ho vista anche ieri qui in biblioteca, mi hai incuriosita, ho visto che fermavi i passanti, che parlavi, non so, chiedevi qualcosa, ma nessuno ti degnava di uno sguardo. Poi è arrivato di corsa un pompiere, pareva un sopravvissuto alla tragedia delle Twin Towers, e …. mi ha chiesto di te. E’ successo qualcosa, sei nei guai, posso magari aiutarti in qualche modo?”.
“Ah, sì, quello lo conosco, mi cerca da giorni, poveretto… No, stai tranquilla, non ho fatto niente di male, non sono nei guai, non più, almeno…. Piuttosto, dimmi se per caso ieri hai incontrato un ragazzo alto, coi capelli e gli occhi neri, genere ispanico, se mi spiego. Anche lui con uno skate, jeans stracciati e una bandana rossa. L’hai visto?”.
Il suo sguardo era ansioso, il tono della richiesta preoccupato, la voce quasi sull’orlo del pianto. Irene era dispiaciuta di non poterla aiutare, aveva osservato tante persone, ma un ragazzo così non lo aveva proprio visto, ne era sicura.
“No, Roxanne, mi dispiace. Ho visto e fotografato un sacco di gente, ieri sono stata qui buona parte del pomeriggio, ma non ricordo alcun ragazzo che possa corrispondere alla descrizione che mi hai fatto. E’ un tuo amico, come si chiama?”.
“E’ Alejandro, siamo amici d’infanzia e compagni di scuola, veniamo sempre qui con lo skate, è divertente andare su e giù per la Quattordicesima, fermarci al chiosco e bere una coca, poi andare a casa a fare i compiti. Non capisco cosa sia successo, non ricordo nulla degli ultimi giorni, è come se avessi avuto un black out nella testa… So solo che devo stare qui nei paraggi e cercare Alejandro….”.
Chiacchierando chiacchierando, la donna e la ragazzina erano uscite e, attraversata la Quattordicesima, si erano sedute su una delle panchine di fronte al Museo di Storia, approfittando di una lieve brezza che scendeva dalle montagne e dell’ombra proiettata da una tenda parasole. Di tanto in tanto qualche passante osservava Irene con strana curiosità, scuoteva la testa e passava oltre, girandosi più e più volte nella sua direzione con espressioni che andavano dallo stupito, all’ilare, al preoccupato. Lei non capiva, ma tutto sommato non le interessava, preferiva chiacchierare con Roxanne, che tuttavia pareva diventare sempre più agitata di minuto in minuto.
“Mi sa che non viene neanche oggi, che strano. Intendo Alejandro, naturalmente…. E’ venuto per una settimana intera, poi è sparito e da allora non l’ho più visto. Beh, Irene, ora devo proprio andare, mi aspettano, non posso trattenermi più di qualche ora al giorno”.
Detto questo si era alzata di scatto, colta da una improvvisa frenesia.
“Aspetta, Roxanne, mi dispiace se Alejandro ti ha dato buca e mi dispiace anche di non poterti aiutare a cercarlo. Oltretutto oggi è il mio ultimo giorno a Denver, domani parto, devo tornare in Italia”. E lo disse sicuramente con un rammarico mai provato prima al termine di nessuno dei suoi vagabondaggi in giro per il mondo. Quella città, e ora quella ragazzina singolare, appena conosciuta e già da salutare, l’avevano colpita nel profondo, suscitando emozioni forti, contraddittorie, inspiegabili.
“Ti lascio il mio numero di cellulare, per favore, Roxanne, fammi poi sapere di Alejandro, guarda, chiamami anche a carico del destinatario, ma fallo. Ti prego…”. Così dicendo strappò un foglio dal suo inseparabile taccuino e vi scribacchiò un numero di cellulare.
“Non so se potrò, non ne sono sicura, sono così confusa, mi sa che devo capire ancora un sacco di cose…. Ma … grazie di tutto, grazie per avermi ascoltata… Chissà, forse un giorno ci incontreremo di nuovo, ci sono tanti altri luoghi oltre Denver, anche se credo che la mia città mi mancherà sempre… Ciao, Irene, fai buon viaggio, viaggiare è bello, sempre e comunque, dà un senso a tutto”.
Salutandola con queste parole sibilline, Roxanne depose un leggero bacio sulla guancia accaldata di Irene, piegò il foglietto col numero di telefono e lo strinse forte nel pugno, le regalò un ultimo sguardo un po’ triste, cercando di camuffarlo con un sorriso, volse le spalle e lentamente si avviò verso la biblioteca.
Irene la osservò andarsene, il passo leggero, quasi fluttuante, i capelli di seta mossi dalla brezza, lo skate sotto il braccio. Ad un tratto un autobus transitò sulla Quattordicesima e si frappose per un attimo alla vista. Dopo il suo passaggio la strada era sgombra e Roxanne era sparita.
Irene si trattenne ancora per un’ora su quella panchina, meditando sulle ultime parole della ragazza, non riuscendo a coglierne il senso e angosciandosi oltre misura. Molto di quanto aveva detto suonava abbastanza insensato, eppure sentiva che Roxanne non era pazza, ma solo confusa, smarrita, inconsapevole…
Il buon senso finalmente ritornò a far capolino nella sua mente stordita dal caldo e da quell’incontro così enigmatico: doveva fare i bagagli, saldare il conto del motel, trovare un posto dove cenare e cercare di dormire qualche ora prima di dover correre all’areoporto e saltare sul primo volo del mattino per Washington, e da lì a Roma. Fine del viaggio.
Ma i viaggi finiscono poi davvero?
Era questa la frase ricorrente che la accompagnò per tutta la serata e gran parte della notte. Roxanne aveva parlato di incontrarsi ancora, Irene sapeva che era impossibile, probabilmente non sarebbe mai più tornata a Denver, ma perchè la ragazzina aveva affermato che ci sono tanti altri luoghi oltre Denver? Cosa aveva inteso dire? E perchè continuava a frullarle in testa quella domanda insensata: i viaggi finiscono davvero?
Va da sé che passò la notte praticamente in bianco, quasi incapace di chiudere occhio e riposare un poco in vista delle lunghe ore da passare rincorrendo aerei fino in Italia. Aveva gli occhi gonfi e brucianti e la testa in fiamme quando, alle sei del mattino successivo, arrivò all’areoporto. Si trascinò, già esausta ancora prima di partire, verso la macchinetta del check in automatico, rispose educatamente a tutte le domande del funzionario doganale, nulla andò storto al passaggio attraverso il metal detector e finalmente potè accedere alla zona di imbarco.
Si accasciò su una poltrona e cadde addormentata come un sasso, fino a quando la destò il gracchiare dell’altoparlante che chiamava gli ultimi ritardatari del volo per Washington.
Espletate con frenesia le solite noiose formalità, si avviò verso il tunnel di imbarco, trovò il suo posto a sedere, ripose lo zaino nel vano portaoggetti e si accomodò vicino al finestrino. La vista dello squallido aeroporto e delle piste la intristì oltre ogni dire, realizzò che il viaggio era proprio finito e cadde preda della malinconia che sempre la coglieva quando si rendeva conto di aver concluso un’esperienza.
L’aereo era decollato da circa mezzora quando Irene terminò di leggere il libro che si ero portata, così prese a frugare nella tasca del sedile di fronte al suo, nella speranza di trovare una rivista che la aiutasse a vincere la noia delle ore che ancora l’attendevano prima di arrivare al primo scalo. Trovò uno sgualcito quotidiano di Denver, di alcune settimane prima, probabilmente dimenticato da qualcuno e sopravvissuto alla pulizia dell’aeromobile.
Annoiata, prese a sfogliarne distrattamente le pagine, fino a quando tre foto sgranate in bianco e nero attirarono all’istante la sua attenzione. Non vi era dubbio, due dei soggetti ritratti erano Roxanne e il vigile del fuoco incrociato nella biblioteca, mentre il terzo corrispondeva in pieno alla descrizione fatta da Roxanne del suo amico ispanico.
Il cuore prese a batterle all’impazzata e, in preda a curiosità, ansia, timore e incredulità, iniziò a leggere l’articolo riportato sotto le foto.
“Denver, 15 settembre 2008:
Il tragico incidente occorso alcuni giorni fa sulla Colfax, pur lasciando dietro a sé uno strascico di perdita, dolore e tristezza, ha avuto oggi un epilogo felice per una delle persone coinvolte nello scontro. Alejandro Ibarra, quindici anni, si è svegliato dal coma dopo una settimana di prognosi riservata. Pare un miracolo che il ragazzo si sia ripreso da quello che i sanitari avevano dichiarato stato di coma vegetativo permanente. Alejandro ha improvvisamente aperto gli occhi e con voce incerta ha pronunciato alcune parole, delle quali l’infermiera presente in quel momento ha potuto intendere solo un nome, Roxanne.
Al capezzale sono accorsi immediatamente i familiari del giovane, increduli e felici di trovare il ragazzo desto e cosciente. La capacità di comunicare appare in via di ripresa, anche se al momento il giovane riesce a pronunciare in modo comprensibile solo il nome dell’amica.
Ricordiamo ai lettori che il terribile scontro frontale tra l’autobus del college frequentato dai ragazzi e un autoarticolato che per errore transitava sulla Colfax era avvenuto il sette settembre scorso. Nell’impatto devastante persero la vita due persone: Roxanne Amanda Colberry, giovane studentessa, amica di Alejandro Ibarra, e John Robert Ridgewood, eroico vigile del fuoco, che, dopo aver tratto in salvo Alejandro, perì nel tentativo di estrarre Roxanne dalle lamiere contorte dell’autobus in fiamme, poi esploso.
Alejandro è stato più fortunato: pur riportando gravi traumi ed ustioni e la perdita di coscienza, che pareva dovesse essere permanente, ora è fuori pericolo: i medici hanno sciolto la prognosi e garantiscono che ritornerà alla piena normalità. I familiari si sono per ora rifiutati di metterlo al corrente della morte dell’amica, per evitare che lo shock possa rallentare la ripresa fisica e mentale del ragazzo
Dalla Redazione del Denver Post: Mike J. Bell”.
Niky Caleffi

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