Castello Carrobio
1898-1914 Finale Emilia – Massa Finalese
Maestoso e splendido come un castello di fiaba questo singolare complesso si erge oggi ai margini dell’abitato di Massa Finalese, circondato da un vasto parco in fondo a un lungo viale di tigli che dalla Chiesa parrocchiale di S. Geminiano si apre ad aiuola a ridosso del muro di cinta nei pressi dell’entrata laterale.
Il castello è frutto di due successivi momenti costruttivi. Una prima fase terminata nel 1900 vide la realizzazione dell’attuale corpo centrale, del piccolo borgo rurale e del sistema di recinzione con torretta cuspidata e
porte merlate di accesso. Nella seconda fase (1911-1914) l’aggiunta delle ali laterali, di una più ampia recinzione e dell’intero parco trasformò la fisionomia rigida e bloccata del primitivo maniero in un ambiente di grande valenza scenografica.
Il suo aspetto «antico» fu subito intrigante, se in una lettera del 1903 (ASMo, Fondo Spinelli, filza 73, fase. Massa Finalese) indirizzata ad Alessandro Spinelli, direttore della Biblioteca Estense di Modena, un’amica scriveva da Finale: «Perchè tu non prenda un abbaglio sul Castello Carobbio credo bene comunicarti quanto ne ho inteso dire. Questo è di costruzione recente, sorto 4 o 5 anni orsono dalle fondamenta, fatto edificare dai Sacerdoti, copiando in minori proporzioni un Castello che il fratello della di lui moglie possiede in Germania (…) Il Sacerdoti ha fatto innalzare il tinnito edifizio su uno di due poderi denominati Carobbi — e da questo è venuto il Castello di Carobbio — poi sborsando una tassa di 50 m. Lire si è fatto Conte di Carobbio. Ti avverto di tutto questo perchè se tu intendi occupartene come di cosa storica, badi di non prendere una cantonata. Tua aff.ma Giulia».
Già da allora quindi il poderoso «turrito edificio» incuriosiva gli storici, estraneo com’era al territorio della Bassa caratterizzato da ville tipologicamente del tutto diverse e dalle case coloniche all’intorno. Tuttavia la lapide in marmo, ancor oggi visibile all’interno della corte, era chiara testimonianza della sua origine: “HOC CASTELLUM/VICTOR COMES CURR UBII/AD HONOREM/HELENAE UXORIS OPTIMAE/SIBI SUISQUE/AEDIFICANDUM CURA VIT/A.D. MCM.”
Vittorio Sacerdoti, poi Conte di Carrobio, veneziano ma residente a Roma, fece erigere il castello perchè la «nobilissima» moglie austriaca, Elena von Gutmann, potesse trascorrere i mesi delle stagioni di mezzo nella vasta tenuta del Carrobio senza rimpianto per i passati soggiorni in Boemia. Esso fu elevato su uno dei sette poderi da cui era inizialmente costituita la proprietà: 796 biolche modenesi poste «in situazione eminente» così da essere «esantate da qualsivoglia inondazione» come precisa la perizia stesa nel 1813 da Emanuele Sacerdoti appartenente alla ricca famiglia ebraica dei Sacerdoti di Modena, per l’acquisizione della tenuta da Antonio Borsari, uno dei maggiori possidenti della Terra del Finale (R. Torelli, 1987).
Il modello fu il castello di Tobitschau, residenza boema dei nobili viennesi von Gutmann. Nella massiccia costruzione a tre piani dalle quattro torri angolari ottagonali e avancorpo più alto a guisa di mastio, le pareti murarie sono alleggerite dalla partitura regolare delle finestre ogivali e dalle decorazioni in pietra, cotto e cemento.
La facciata sud presenta una foratura scalare di tipo gotico veneziano in simmetria ascensionale: dalla loggia aperta a pianterreno alla veranda quadripartita del piano nobile, quindi a una finta quadrifora e a due sole finestre al terzo piano. Il gusto eclettico, allora diffuso nella cultura architettonica europea, permise di accostare simultaneamente in un unico edificio le due terre d’origine dei proprietari del castello, l’Austria e Venezia, creando un effetto visivo paradossale e estraniante, fuori da una grammatica stilistica codificata e unitaria. Ma la replica degli stili non si fermò qui. Il conte Vittorio, dopo l’ulteriore ingrandimento della tenuta con l’acquisto nel 1909 dello storico Bosco della Saliceta — già di proprietà ducale, poi dall’Unità d’Italia passato in altre mani — decise di fare del castello di Carrobio una residenza di rappresentanza ufficiale, dove ricevere con feste, pranzi, battute di caccia gli aristocratici ospiti provenienti da tutta Europa, come si conveniva a un ambasciatore del Regno e a una dama di corte della regina.
Nel 1911 l’ingegnere Ettore Tosatti di San Felice sul Panaro fu incaricato del progetto di ampliamento, come risulta dai due disegni acquerellati rinvenuti presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Finale, recanti le piante del pianterreno e del primo piano del castello da lui firmati. I lavori, eseguiti dal «muratore» Gaetano Grillenzoni, terminarono presumibilmente nel 1914, se in una lettera del Tosatti (Archivio Ufficio Tecnico Comune di Finale, fase. Castello Carrobio) si parla in quell’anno di finiture di lavori «all’ingresso del viale presso la chiesa».
L’ampliamento, evidenziato nei disegni da una diversa coloritura all’acquarello, è costituito da due ali aggiunte al corpo centrale: l’ala est di rappresentanza chiusa su tre lati a formare una corte interna su cui affaccia un loggiato ad archi trilobati, retti da colonnine in pietra con basi sagomate, capitelli a foglie stilizzate e balaustra in marmo traforata; l’ala ovest destinata a funzioni private — stanze da letto, bagni, boudoirs — e formante una corte aperta sul parco. Al pianterreno tutta la zona dei servizi, l’androne di svuoto per le carrozze, le cucine e le dispense, le stanze da letto per la servitù.
Pur nella simmetria della composizione architettonica, i sìngoli elementi — torri muri aperture — diversi per dimensioni e forme generano spazi continuamente cangianti, scorci e punti di vista di grande effetto scenografico. Il gioco volumetrico dei pieni e dei vuoti si arricchisce articolandosi su piani diversi in altezza e profondità: torri, terrazzi, ballatoi, terrapieni, scale, loggiati, in un rapporto di continuo scambio fra l’interno e l’esterno. Privilegiato sul fronte meridionale del castello il rapporto con il parco, mentre dal lato opposto permane l’area di accesso alla corte agricola preesistente, corte tipicamente padana con essicatoio centrale e barchesse di ricovero per gli attrezzi ai lati.
Il lungo viale di tigli costituiva l’ingresso d’onore aprendosi poi nel parco: viottoli e aiuole con siepi odorose di bosso, querce, magnolie e cedri del Libano. Appartati, il campo da tennis e il piccolo gazebo per il té. Nella seconda fase di fabbrica al tardo medievalismo di matrice veneziana venne sostituito il gusto neogotico derivato dalle opere di Alfonso Rubbiani e della sua cerchia. Nella decorazione a formelle di cotto delle finestre, nel vivace gioco di profilatura dei cordoli in pietra, nelle forature lobate delle balaustre i rimandi sono precisi: l’architettura tardogotica bolognese di Antonio di Vincenzo (Loggia dei Mercanti, S. Petronio) e di Fioravante e Aristotele Fioravanti (Palazzo degli Anziani, Palazzo del Podestà). Le cancellate in ferro sono polittici, finestroni e vetrate: il modello è ancora S. Petronio.
L’ingegnere Tosatti si rivela dunque progettista colto che sa affidarsi ad abili maestze. Raffinatezza e maestria esecutiva caratterìzzano infatti le decorazioni architettoniche in pietra e cotto, mentre nel corpo centrale una maggiore durezza e piattezza forme è imputabile all’uso qui assai rozzo e pesante del cemento quale materiale di decorazione. Il castello fu teatro di importanti avvenimenti locali, ricordati ancora oggi, in cui ebbe modo di manifestarsi il prestigio della famiglia: il matrimonio della figlia Lucia 1931, la visita del principe Umberto di Savoia nel 1935. Ma vide anche la guerra tra persecuzioni razziali, le occupazioni dei vinti e dei vincitori, le lotte politiche e sociali del dopoguerra, che determinarono il graduale abbandono del castello e le trasformazioni della tenuta, tra cui la distruzione del Bosco della Saliceta e la sua divisione in lotti agricoli per i contadini.
Giovanni Benatti
Castello Carrobio. Gli interni 1898-1914
Finale Emilia, Massa Finalese.
Pressoché nulla resta dell’arredo del castello: furti e vandalismi si sono succeduti da quando la proprietà cessò di essere dei Conti di Carrobio.
Alla morte dei conti Vittorio ed Elena la tenuta fu suddivisa fra i tre figli Mario, Lucia e Renza. Dal 1972 al 1975 fra il conte Marco, figlio di Mario, e il Comune di Finale Emilia intercorsero lunghe trattative di vendita che parevano felicemente concluse, come testimonia il Decreto prefettizio di autorizzazione di acquisto del 9 dicembre 1974. Il 30 dicembre il castello e il parco furono vincolati dalla Commissione Provinciale per la tutela delle bellezze naturali di Modena e della Soprintendenza ai Monumenti dell’Emilia. Ma l’acquisto non venne mai effettuato. Acquistato da un privato che lo lasciò nel quasi totale abbandono, il castello è stato ripetutamente spogliato. Soltanto recentemente con un ulteriore passaggio di proprietà si sono iniziati i lavori di restauro e ripristino che si auspica possano procedere nel pieno rispetto della realtà storica dell’edificio.
L’ingresso si presenta fastoso e imponente. Uno scalone a tre rampe su voltine conduce ai tre piani del castello articolandosi con ballatoi attorno alla ampia hall coperta da un lucernario a padiglione in ferro e vetro, cui era appeso un grande lampadario a bracci sovrapposti in vetro di Murano, delicatamente colorato, che ingentiliva la severità castellana dell’ambiente. I motivi floreali delle ringhiere e dei mensoloni di sostegno in ghisa sono ripresi nei fregi a monocromo delle pareti, lungo le quali un tempo stavano i ritratti di famiglia, tra cui quelli del Conte Vittorio Carrobio di Carrobio e della Contessa Elena nelle loro vesti ufficiali, eseguiti dal pittore Erulo Eruli a Roma, residenza abituale dei conti.
Lo stemma in biancone di Verona della famiglia ebraica dei Sacerdoti — due mani volte verso l’alto con le dita congiunte a due a due — campeggia sopra al portale d’ingresso entro una ricca decorazione a conchiglia con motivi floreali dipinta a monacromo. Esso, replicato un po’ ovunque, appariva anche negli intarsi dei mobili più importanti, ora scomparsi.
Dirimpetto alla hall il Salone Impero con ampia finestratura e terrazzo inizia la serie delle sale di rappresentanza che si susseguono nell’ala di levante tutt’intorno alla corte chiusa. Ogni sala era denominata secondo lo stile con cui era arredata: la Sala Impero con l’aquila imperiale al centro del soffitto e altre otto aquile in bronzo a coronamento delle pareti decorate con motivi neorinascimentali in stucco bianco; la Sala gotica, studio del conte, con volta a crociera costolonata e decorazioni in stile gotico-veneziano in stucco verde pallido; la Biblioteca con boiserie e divani in pelle capitonné all’inglese; la Sala da pranzo piccola e quella grande con soffitti cassettonati in stucco e carta da parati simulante cuoio bulinato; il Salone da ballo veneziano con grandi finestre ogivali aperte sul loggiato interno.
Nell’ala di ponente due appartamenti privati — Bianco e Giallo — sono simmetricamente disposti lunto la corte aperta, coi bagni e i piccoli boudoirs racchiusi nelle torrette ottagonali che invece nell’ala opposta nascondono le scalette di servizio.
Eclettismo dunque anche all’interno, nell’arredo e nella decorazione, simulazione di stili e di materiali per un’immagine finta, negazione del modello che vuol riprodurre eppure immagine essa stessa autonoma.
Giovanni Benatti
Tratto da: Architetture a Mirandola e Nella Bassa Modenese.
Cassa di Risparmio di Mirandola
Anno 1989