Giovanni Pico – L’entrata a Firenze di Carlo VIII

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Giovanni Pico – L’entrata a Firenze di Carlo VIII

Al rullio dei tamburi

Per i borghi di Firenze rullavano i tamburi. Avrebbero dovuto essere rullìi festosi. Ma quelli di un invaso­re, anche se si definisce “ospite e li­beratore”, sono sempre lugubri.

Era il 17 novembre del 1494. Un lunedì. Quei tamburi erano dell’armata di Carlo VIII.

Il Re di Fran­cia stava entrando a Firenze, sotto un baldacchino, dalla Porta di San Frediano, seguito da un gran nu­mero di Baroni e Cavalieri. Era calato in Italia, pur­troppo sollecitato da certi Signori italiani a dispetto di altri. Firenze doveva essere, e fu, una tappa.

“Io non sono qui per conturbare, ma per pacificare” disse il Re ventiquattrenne, vestito a festa con un rassicuran­te mantello di broccato bianco e oro, ma con la lan­cia da conquistatore alla coscia, come ammonimen­to. I fiorentini finsero di credere alle sue parole, ma rimasero vigili. Perciò fino a quando, dieci giorni do­po, quegli “ospiti”, vista la mala parata, non se ne an­darono, accesero al calar del sole tanti ceri per illuminare la notte: ufficialmente in segno di festa, ma nella realtà per evitare insidie.

L’eco di quei rullìi, di quel cadenzare di passi mi­litari, di quelle grida ambiguamente festose, dovette oltrepassare anche i muri del convento di San Marco, e giungere in quella celletta monacale dove stava morendo, a soli trentun anni, il Mirandola, agitato da febbri misteriose che lo avevano assalito tredici gior­ni prima. ( Leggi anche: Giovanni Pico fu avvelenato, ma da chi?).

Il convento di San Marco era la roccaforte dei do­menicani. Assisteva a quell’agonia, pregando alla sua maniera concitata, Girolamo Savonarola, il frate che con le sue prediche e le sue invettive stava scuoten­do, fino a farlo crollare, il potere dei Medici, e minac­ciava la vendetta di Dio sulla corruzione della Curia romana. Era anche a quel capezzale per l’ultimo salu­to il nipote Alberto Pio, figlio di una sorella, mentre l’altro, il nipote del cuore, Gianfrancesco, giunse troppo tardi per salutarlo.

Pico, negli ultimi due anni, si era molto avvicinato al frate riformatore e profeta, ma certo non condivi­deva il suo giudizio su quella calata dei francesi salu­tata così da Savonarola: “Finalmente tu se’ venuto, o Re. Noi ti riceviamo col cor iocondo. La tua venuta ha letificato e’ nostri cori, ha esilarate (acceso) le menti nostre

Quel Re, comunque, conoscendo la fama di cui godeva Pico anche in Francia, gli inviò subito, per mostrarsi riguardoso, due suoi medici, che gli augu­rarono la guarigione con una lettera di suo pugno.

Il Mirandola non aveva aderito all’insistente invito del frate di vestire il saio bianco e nero dei domeni­cani, come, a detta di Gianfrancesco, sembra gli avesse promesso, rifiuto di cui Savonarola trovò mo­do di rammaricarsi e di vendicarsi di lì a pochi giorni.

Le ultime parole di Pico furono serene: “La morte – disse – più che il termine della sofferenza, è la fine delle offese a Dio. Inoltre, non sarà per sempre”. Poi, chiese scusa a tutti e spirò dolcemente. Fu allora che i frati di San Marco lo rivestirono con il loro abito, ma soltanto per onorare la sua spiritualità, anche se ciò generò qualche equivoco.

L’anno prima, nel testamento, Pico aveva dispo­sto che ai famigli più anziani fosse garantito vitto e alloggio per tutta la vita, e ai più giovani fosse corri­sposta una somma di danaro a seconda delle funzio­ni e dei meriti.

Quando giunse, il nipote Gianfrancesco, che si dedicherà a tenere vivo il suo ricordo e a tramandare il suo pensiero, potè soltanto ripetere quell’espres­sione latina attribuita a S. Ambrogio e a S. Agostino: “Non dobbiamo addolorarci di aver perduto troppo presto un tale uomo, ma ringraziare Dio, per il qua­le ogni cosa vive, di avercelo donato”.

Miniritratto di Carlo VIII

Quando fu incoronato Re, aveva 14 an­ni e non sapeva né leggere, né scrivere. Migliorò poco.

Era basso, brut­to, gobbo, malaticcio, poverino. E crebbe così.

Cavalcava sempre il cavallo più alto per non apparire il cavaliere più basso. E ciò gli creò un grosso complesso. Fino a vent’anni lasciò governare la sorella, Anna di Francia.

Sposò la diciassettenne Anna di Bretagna, anche lei fragile e un po’ zoppa. Tutti i figli gli morirono in tenera età. Forse, a causa della sua sifìlide, che in Italia veniva chiamata “malfrancese” e in Francia “mal de Naples”.

Un suo biografo ha scritto che era più disposto a pentirsi dei peccati che ad evitare di commetterli.

Preso quasi da un raptus, volle la gloria, e, sobillato da Ludovico il Moro che governava Milano, ideò la conquista del Regno di Napoli che era in mano agli Aragonesi. Non avendo, però, i danari sufficienti per la spedizione, li elemosinò un po’ bruscamente dagli alleati italiani che glieli diedero con la speranza che lui potesse cavare le loro castagne dal fuoco.

La sua entrata a Firenze determinò la defenestrazione di Pie­ro de’ Medici e rafforzò il Savonarola. Per fortuna, anche sua, vi sostò pochi giorni.

A Napoli arrivò il 22 febbraio 1495. La spedizione in Italia si risolse in un fallimento e fu già molto se non venne ucciso come molti dei suoi generali. Morì per un ictus a ventotto anni, nel 1498, sognando un’altra spedizione in Ita­lia.

Il Guicciardini commentò: “Finì la vita con la quale haveva, con maggior impeto che virtù, turbato il mondo”, Voltaire, più causticamente, disse che in Italia aveva prima preso Genova, Napoli e la sifilide, ma poi aveva dovuto restituire Genova e Napoli, re­standogli soltanto la malattia. Lo storico Pastor lo li­quida dandogli del “frivolo e scostumato”.

Morì – è quasi umoristico – battendo la testa con­tro una porta. È quasi simbolico.

Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Francesco

Autore : Jader Jacobelli

Edizioni Laterza – Anno 1994

 

 

 

 

 

 

 

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