Un pilota ricorda – Crash! – IV Capitolo

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8 - Mirandola appare tra la foschia

Crash !

Sapete cos’è la catena degli eventi? In aeronautica chiamasi “catena degli eventi” quella serie di azioni susseguentesi che, se non interrotte per tempo in un qualsiasi punto della catena, portano all’atto finale: l’incidente.

Antefatto. Prima che comprassi il delta, al motore erano stati effettuati dei lavori. Quando avrò terminato di raccontare l’evento svelerò il mistero di ciò che risulterà essere il primo anello della catena.

Alcuni ex allievi della scuola hanno affittato un terreno nei pressi di Scortichino, vicino a Finale Emilia, ed hanno invitato tutti i piloti del campo all’inaugurazione. Pranzo gratis, impossibile declinare.

Il 24 settembre alle 9,30 del mattino si decolla. La giornata meteo si presenta abbastanza buona.

E’ sereno e non fa freddo, ma una fastidiosa foschia, a tratti quasi nebbia, rischia di rovinare la festa. Come se non bastasse si farà rotta verso est andando proprio incontro al sole ancora basso sull’orizzonte. Provate ad andare controsole con un po’ di foschia, vi sembrerà di avere davanti un muro di nebbia impenetrabile. Il trucco sta nel guardare verso il basso dove ancora vi è una discreta visibilità La soluzione migliore sarebbe stata di rimandare a più tardi la partenza, ma l’eccitazione del momento non ci fa ragionare e decidiamo di non cambiare i piani. Questo è il secondo anello della catena, il terzo è l’ignoranza.

Non so dove si trovi esattamente il paese anche se l’ho già sentito nominare e quando chiedo lumi mi si risponde di non preoccuparmi e di seguire gli altri. Non insisto ma col senno di poi avrei dovuto, anzi potevo cercarlo su di una cartina stradale, in fondo erano alcuni giorni che sapevo della trasferta. Ma ormai è fatta ed è inutile pensarci.

Il prossimo anello è il decollo stesso. Sono stato l’ultimo ad arrivare al campo e gli altri sono già quasi pronti. Cerco di affrettarmi, ma i controlli prevolo mi prendono un sacco di tempo. Terminato il riscaldamento del motore, i decolli sono già iniziati ed io riesco a partire solo per penultimo. Mi ritrovo in volo praticamente in coda al gruppo e capisco che avrò il mio bel daffare per non farmi lasciare indietro. Dopo nemmeno cinque minuti l’ultimo della fila, che è più veloce di me, mi sorpassa molto vicino e mi taglia la rotta. Per evitare la turbolenza dell’aria formata dalla sua elica, compio una brusca virata e quando riprendo la direzione giusta mi ritrovo ultimo della fila ad almeno trecento metri dal velivolo più vicino. Ecco il quinto anello.

La foschia a tratti svanisce, ma compaiono isolati banchi di vera nebbia. Arrivati all’altezza di Massa Finalese, il gruppo che riesco ancora ad intravvedere in lontananza passa a destra della cittadina, ma l’ultimo della fila che ho preso come punto di riferimento decide di passare a sinistra. Gli altri sono ormai lontani e per timore di restare solo decido di seguire lui; sesto anello.

Superato Massa, non c’è più nessuno in vista, siamo rimasti soli. Spero di seguire qualcuno che conosce la strada, ma la speranza muore ben presto. Lo vedo cambiare rotta un paio di volte, poi si abbassa e capisco che sta cercando un luogo consono ad un atterraggio. Lo trova facilmente, atterra ed io lo seguo. Spenti i motori mi si avvicina e mi chiede:

“Sai dove si trova Scortichino?” Mi cadono le braccia. Mentre esaminiamo la situazione in cui ci troviamo e consideriamo le varie possibilità, si avvicina un’auto. Ne scende una famiglia intera che abita nei pressi; ci hanno visti atterrare e sono venuti a curiosare, è un colpo di fortuna. Chiediamo loro se possono indicarci la strada. Naturalmente. In quella direzione, a meno di un chilometro, c’è un canale. Lo seguite ed il primo paese che trovate è Scortichino. Li ringraziamo e li ripaghiamo dopo il decollo con un passaggio sopra le loro teste a quota bassissima. Arriviamo sul canale ed iniziamo a seguirlo ad una cinquantina di metri di quota, ma nemmeno dopo un chilometro la fortuna ci abbandona. Entriamo in un banco di nebbia che ci riduce la visibilità ad una trentina di metri, riesco a malapena a scorgere il canale sotto di me. Se l’altro pilota che mi precede decide di fare dietrofront c’è il rischio concreto di una collisione in volo. Non ci penso due volte e viro di 180 gradi tornando sui miei passi. Atterro di nuovo da dove eravamo decollati. Non c’è più nessuno e sono solo. Il mio compagno evidentemente ha deciso di proseguire. Mi dirà poi che aveva paura come me di una collisione e non si era azzardato a tornare indietro. Dopo un po’ era uscito dal banco ed aveva trovato il campo di volo senza problemi.

Ed ora cosa faccio? Torno a S. Felice oppure aspetto che si alzi la nebbia e ritento? Opto per la seconda soluzione non sapendo che in realtà non avrò opzioni da scegliere. Attendo oltre mezz’ora ingannando il tempo espletando alcune urgenti funzioni corporali in un fosso nascosto da alcuni cespugli, poi decido che è ora di riprovarci. Avvio il motore, allaccio le cinture e accelero. Via verso l’alto dei cieliiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii

Acceleratore bloccato col motore al massimo dei giri. Il delta sale vertiginosamente e niente sembra poterlo fermare, entrerò in orbita. Con la punta del piede tento di sbloccare il pedale, ma dopo vari tentativi mi rendo conto che il problema è altrove. Purtroppo è il cavetto che non torna indietro e dalla mia posizione non riesco ad afferrarlo per tentare di sbloccarlo. Non mi resta che spegnere il motore e scendere in planata. Spingo la levetta dei contatti ed il silenzio improvviso mi fa quasi sussultare. La salita si interrompe immediatamente. Ora devo mantenere il velivolo in leggera picchiata per non perdere velocità ed andare così in stallo. Inizio a volteggiare in una lenta spirale discendente e mi guardo intorno per trovare un posto idoneo all’atterraggio. Le simulazioni di emergenze fatte durante le lezioni di volo mi vengono ora in aiuto, soprattutto evitandomi di andare in panico, sarebbe la cosa peggiore. Arrivo alla conclusione che la cosa migliore sia di atterrare da dove sono partito. Conosco già il terreno e posso arrivarci facilmente. Non avendo però il supporto del motore ho solo un tentativo a disposizione e devo cercare di arrivare non troppo corto né troppo lungo, insomma devo fare un atterraggio di precisione. Sono a più di mille metri di quota ed ho tutto il tempo per guardarmi attorno e questo forse non è un bene. Da questa altezza il campo mi appare molto più piccolo di quanto non ricordassi e ciò mi riempie di insicurezze e dubbi. Continuo a scendere lentamente, in un assoluto silenzio rotto solo dal fruscio del vento tra i tiranti d’acciaio dell’ala.

Settimo ed ultimo anello della catena degli eventi. Mentre scendo cercando di prepararmi al momento cruciale, noto a fianco della pista scelta un’altro campo lungo oltre il doppio e largo altrettanto. Non ha ostacoli né in entrata né in uscita ed il terreno appare simile all’altro. Non noto purtroppo i due pali che si trovano un po’ distanti dai bordi. Penso che la maggior lunghezza sia sinonimo di più affidabilità e decido di atterrare lì. Diminuisco il raggio delle virate per perdere quota più in fretta e faccio rotta per il nuovo obiettivo. La discesa verso la pista è praticamente perfetta. Arrivo in testata ad un’altezza di cinque metri ed è soltanto ora che mi accorgo dei cavi elettrici che la attraversano intersecando esattamente la linea di volo. In un attimo devo prendere la decisione: passarci sopra rischiando di stallare e precipitare o sotto rischiando un contatto duro? L’attimo passa. Tiro indietro la barra con tutte le mie forze e poi la spingo di nuovo in avanti velocemente. Passo sotto i cavi per un pelo, ma ormai sono a terra. Il rumore che fa un delta che si fracassa al suolo è indescrivibile. Tubi che si tranciano o si piegano, lo struscio del velivolo che ara il terreno, il botto dell’ala che si pianta a terra di prua. Poi il silenzio, diverso dal silenzioso volo in planata. Non c’è più la poesia del fruscio del vento fra i cavi. Solo un senso di sorpresa stordita.

Mi ascolto per qualche secondo, niente dolore è tutto ok. Mi slaccio le cinture e mi districo dai rottami. Lascio cadere a terra il casco, sono un po’ frastornato. Mi guardo in giro e non c’è nessuno. Guardo i cavi della linea elettrica e li maledico pur sapendo che non hanno colpa alcuna, poi giro intorno al delta cercando di fare una prima stima dei danni. Il carrello ha tutta la parte sinistra devastata, ma sembra recuperabile. L’elica è intatta ed il motore non sembra danneggiato, ma i bulloni che lo ancorano al telaio devono aver subito un violento stress e saranno da cambiare. L’ala è decisamente da buttare, i tubi d’alluminio sono tutti piegati o tranciati di netto, alcune stecche sono rotte e la tela presenta numerosi strappi. Sconsolato, visto che non posso farci niente, mi avvio verso la strada poco distante e mi accingo a fare l’autostop. Un’automobilista mi carica e mi porta a Scortichino. Finalmente arrivo al campo dove tutti sono molto preoccupati per la mia assenza, e la preoccupazione aumenta quando mi vedono arrivare a piedi. Spiego in poche parole la situazione e li rassicuro sulle mie condizioni fisiche. Lucio è andato in ricognizione per cercarmi. Non trovandomi torna al campo e vedendomi incolume si sente sollevato.

Il pranzo si svolge in un ambiente sereno ed allegro e nel pomeriggio ci divertiamo a scorazzare per il paese su di un carro agricolo trainato da un trattore e cantando a squarciagola “se non son matti non li vogliam”. Verso sera si decolla per tornare a S. Felice, mentre io salgo su di un camioncino con due amici del luogo ed andiamo a recuperare il delta che poi portiamo nell’officina di Camposanto. Quando controlliamo il gruppo dell’acceleratore scopriamo finalmente il colpevole, il primo anello della catena. Quando sono stati eseguiti i lavori sul motore, un minuscolo truciolo di alluminio si è infilato nel cilindretto mosso dal cavetto dell’acceleratore. Nell’ultimo decollo si è spostato andando a bloccare il movimento di ritorno; bella sfiga!

Il giorno dopo solito dolorino al fianco e ancora due costole fratturate. Farò in tempo a guarire prima che il delta sia di nuovo in grado di volare attrezzato con una nuova ala. Per la verità è la vecchia Atlas 21 usata dal delta della scuola, ma va bene così.

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