Supercinema paradiso (scritto il 6/5/2011)

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Li ricordo tutti, i cinema della mia infanzia. O almeno credo: il Pico (tanto per non dimenticare dove si viveva), il Fenice (meglio ribadire), il cinema Italia (quello dei preti), il Teatro Nuovo; prima che entrassi nell’adolescenza sorsero il Supercinema e il Capitol, e scomparvero i primi due. Di ognuno ho un ricordo, a volte legato ad un film, a volte ad episodi estranei alla cinematografia. Del Fenice ricordo “Duello nel pacifico”, con Lee Marvin e Toshiro Mifune, un film singolare, che però mi piacque molto. Grazie ad una rapidissima ricerca sul web posso affermare che il pomeriggio che entrai in quella sala avevo tredici anni. Al Pico vidi un paio di film di James Bond, e qualche commedia all’italiana. Del Capitol voglio menzionare solo “Ricomincio da tre”, che mi divertì molto e mi fece conoscere Troisi, ma che molti miei concittadini trovarono incomprensibile per via del dialetto. I ricordi più numerosi e per così dire più complessi sono però legati soprattutto al cinema Italia e al Teatro.

Da bambini si andava al cinema Italia, perché davano film visibili a tutti. E ci si andava la domenica pomeriggio, dapprima coi genitori o coi nonni, poi, cresciuti un po’, con gli amici; e c’era molto più gusto. I generi erano fondamentalmente tre: film di romani, detti anche di Maciste, che comprendevano quelli mitologici, allora in gran voga; film di cowboy, e film di spadaccini, ossia di cappa e spada. Il genere di pellicola proiettata lo si poteva intuire anche senza guardare il cartellone, semplicemente osservando il comportamento dei maschietti all’uscita: dai duelli combattuti appena fuori dal buio della sala ci si potevano figurare le armi, e quindi il periodo storico. Grande entusiasmo, tra quelli di romani,  riscuotevano le storie di gladiatori: tutti volevano essere Spartaco, o perlomeno uno dei suoi seguaci. Tra i film d’avventura, naturalmente non mancavano quelli di pirati e quelli tipo Robin Hood. C’era anche un altro grosso filone, i film da ridere, come quelli con Franco e Ciccio, e film meno classificabili, che però spesso ci affascinavano o ci commuovevano, come il sempiterno Marcellino Pane e Vino, o storie che parlavano di ragazzini come noi, come “La guerra dei bottoni”, ma soprattutto “I ragazzi della via Paal”. E poi, naturalmente, i cartoni animati. Tra i numerosissimi film che vidi in quella sala ne cito solo alcuni, che mi colpirono particolarmente: “Viaggio allucinante”, quello degli uomini miniaturizzati inviati attraverso il corpo di uno scienziato, allo scopo di curarne un ematoma (vado a memoria), “Gli argonauti”, di cui, oltre la serie di mostri mitologici come le Arpie, mi impressionava come gli dei muovessero pezzi umani sulla scacchiera; “West and Soda” e “Vip, mio fratello superuomo”, grandi prove del grande Bozzetto, e “A piedi nudi nel parco”, che mi fa ridere tuttora.

A quattordici anni scattò improvvisa la preferenza per il Teatro Nuovo. Sebbene amassi già il cinema di un affetto che non sarebbe mai venuto meno, le prime turbe ormonali mi fecero preferire il luogo all’evento. Cosicché si andava al Teatro anche se proiettavano pellicole infami, pur di acquattarsi nell’accogliente intimità di un palco. Il problema di raccontare il film ai genitori (di lei specialmente) si risolveva mettendosi d’accordo con un’altra coppia di amici: due guardavano il primo tempo, gli altri due il secondo, poi, all’uscita, si mettevano frettolosamente insieme i dati. Naturalmente, sempre per via degli ormoni, la consegna non veniva quasi mai rispettata, e spesso si dovevano chiedere lumi ad altri amici non accoppiati, che magari ti mentivano di proposito, per invidia, di modo che quel che la mamma ascoltava era spesso una trama troppo assurda o troppo scontata per sembrare vera. I più disinvolti, poi, del film non vedevano mezzo fotogramma, e le luci dell’intervallo a volte li coglievano nel bel mezzo delle effusioni. D’altronde, le festine dagli amici e il cinema erano le uniche occasioni concesse, e bisognava profittarne.

Qualche mese fa ne avevo fotografato l’esterno, ormai chiuso. L’altro ieri, percorrendo la circonvallazione, ho notato casualmente un movimento, quello di un grosso braccio meccanico. Stavano tirando giù il Supercinema. Avevo con me la piccola fotocamera digitale, e dopo averla infilata in un buco della recinzione ho scattato le foto che vedete. La prima, quella della saracinesca sfondata dalle macerie, mi ha riportato di colpo a un pomeriggio di più di trent’anni fa, quando, prima di entrare, mi fermai lì davanti a leggere l’entusiasta recensione di Oreste Del Buono a quello che diventò subito un film del cuore, “Barry Lyndon”. Nella seconda foto, un luogo il cui fascino stava nell’accogliente, seducente semibuio, è crudelmente inondato, e per l’ultima volta, da una luce impietosa e indifferente.

Il cinema Italia è stato riaperto molti anni fa; ora si chiama Astoria, ed è molto simile a quello che ricordo io. Ma tra poco l’impietosa luce ferirà a morte anche il Capitol. Che capitolerà davanti alle ruspe. Proprio il Capitol, quello adiacente alla Bussola, quello del Castello d’Oro, delle feste di carnevale, e di tanti bei film; il Capitol, la cui architettura sembrò allora così ardita, e moderna. Una sala come ce n’erano solo in città, si diceva. Adesso che i cinema come il Capitol vengono demoliti, si va in città nelle multisale, ma di preferenza si noleggia un dvd e lo si guarda a casa. Mio padre mi racconta ancora di quando mezzo paese si faceva tre o quattro chilometri a piedi o in bici per andare a San Giacomo Roncole a vedere i film proiettati contro un muro da Don Zeno, quello di Nomadelfia. Si vedeva poco e scuro, il sonoro era pessimo, i “cos’ha detto?” erano frequenti. Per di più, come nel film di Tornatore, don Zeno censurava i baci; solo che invece di tagliare gli spezzoni metteva la mano davanti all’obiettivo. Ma come vorrei esserci stato, almeno una volta.

Maurizio Goldoni

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