“Al limunàr” vendeva quasi 3000 copie dal Barnardón ogni anno, ed anche elastici, noce moscata, limoni e tacapàgn, le grucce appendiabiti. Camminava ciondolando lentamente lungo le corsie tra i banchi del nostro mercato tenendo i prodotti sul palmo delle mani e in una cesta di vimini. Prima dell’alba Fedele Mascheroni (questo era il suo nome) partiva in bicicletta da Mirandola e non c’era pioggia, neve o vento che lo fermasse. Un vero personaggio, tanto che nel lontano 1948 fu eletto nel paese dei Pico alla carica di Principe di Franciacorta, e commerciante fino all’osso. Se al mattino arrivava a Finale carico delle sue merci, se ne ritornava a casa con sacchi pieni di gatti congelati, e in un baleno li vendeva tutti.
Chi se la sente ora d’affermare che solo i finalìn erano degli incorreggibili magnagàtt? Fedele se n’è andato all’età di 72 anni nel 1980, forse nell’ultimo periodo in cui sono scomparsi del tutto quei protagonisti del mercato che trasformavano la piazza in palcoscenico, ove davano gratuitamente i più svariati spettacoli trasformandosi in salaci imbonitori. Massicce dosi di malizia e di sana improntitudine, la parlantina degli oratori di vaglia, parecchia voce, un bel po’ di fantasia, e il richiamo era assicurato. E un tempo si usavano solamente le mani a cono davanti alla bocca e al massimo un megafono di latta; niente altoparlanti, niente microfoni, niente amplificatori. Gli sproloqui degli imbonitori professionali, di quelli dotati di vera vocazione, erano addirittura proverbiali, come il venditóre di grasso di marmotta che si faceva vedere ogni tanto davanti al cinema Garibaldi: “Aiaial / si è scottata la massaia / l’unguento di marmotta! / sfregare dall’alto in basso / e dal basso in alto / fin che non è sparito il gonfiore…” E tutti accorrevano a farsi ungere ed a comprare.
Nella stessa zona c’era spesso anche Callegari, con il suo famoso (a suo dire) amaro “che faceva passare tutti i mali”, ed il venditore di lamette tedesche “Solingen” che, per calarsi nell’atmosfera, parlava un tedesco alquanto maccheronico: batteva le lame sul legno del banco e per dimostrarne la qualità e durevolezza faceva la barba a qualche volontario tra il pubblico, che non mancava mai di farsi avanti. Questi venditori dovevano credere assolutamente nella propria merce: offrivano merce povera, ma con qualità declamate come miracolistiche. La grande idea stava proprio in questo: trovare prodotti impensati e venderli a prezzi d’affezione come, per intenderci, i rimedi per i calli (il famoso callifugo) o la “polvere rosata”, semplice pomice colorata, spacciata per una mirabolante miscela adatta a lucidare ottoni ed argenti. Così come pure il piccolo utensile per tagliare il vetro, che tra le mani del dimostratore faceva mirabilie e poi nella realtà nessuno sapeva utilizzare, e l’affilatore di lame da barba o ancora il lucido per le scarpe nero come al furmigón stampigliato sulla scatoletta. Da navigati professionisti decantavano le qualità dei prodotti, la provenienza, la fatica per procurarseli e l’eccezionalità della loro presenza sulla piazza. Prima però, pur di avere pubblico che li stesse ad ascoltare e che fosse interessato, cominciavano magari a parlare con se stessi, oppure gridavano, raccontavano storielle, interpellavano i passanti in qualsiasi forma, purché si fermassero. Altre volte brandivano qualche oggetto strano, presentavano piccoli animali, suonavano uno strumento o si esibivano in qualche gioco di prestigio. C’era un tipo che riscuoteva molti consensi a Finale e che per attirare i clienti suonava un originale contrabbasso, costituito da una forca per il fieno ai cui estremi era tesa una corda e nel bel mezzo un imbuto per amplificarne le vibrazioni. Non è poi detto che anche tra gli ambulanti dei banchi tradizionali non vi fossero personaggi stravaganti ed originali: il finalesissimo Jusfin al pessàio richiamava con alti gorgheggi le rezdóre al suo banco, nel quale le rane erano sempre in prima fila, Mario Macòn Tassinari, grande ballerino, indossava sgargianti vestaglie lunghe sino ai piedi perché – diceva – attiravano la clientela femminile. (…)
Poi i magnàn con distese di paioli, il piccolo banco dell’orologiaio e quello altrettanto minuscolo di quel paziente signore che ricaricava e riparava le stilografiche, l’intera stirpe dei Faméa, l’Ines, la Pace, la Viola e la Sunta in fila a vendere ortaggi e verdure e più distante, sotto la gradinata dell’acquedotto, il commercio di polli e conigli vivi. Tempi diversi in cui anche la gente era diversa. Adesso tutti hanno fretta e passano fra i banchi dei mercato alla spicciolata, E’ cambiata anche la pubblicità. Quella televisiva ha il vantaggio di arrivare dentro le case e non ha più bisogno dei “tempi di convincimento” dell’imbonitore che parlava e parlava; adesso i tempi sono brevi, sono “spot” essenziali accompagnati da musiche e belle donne, avvincenti quanto un film di successo. Cari vecchi ambulanti e imbonitori del tempo passato, vi hanno rubato le idee e il mestiere] Ma vendere allora ad una clientela costantemente in bolletta era una cosa tremendamente seria.
Ci volevano abilità, costanza, tanto sacrificio e un lavorìo metodico, incessante; e ci voleva anche e soprattutto tanta fantasia. Perché qualche volta la gente vuole anche i sogni, sogni e speranze di cui riempire in quei mercati le smilze sporte della spesa, altrimenti tanto spesso desolatamente vuote
Racconto scritto da Celso Malaguti tratto da “Il Setaccio della memoria” Comune di Finale Emilia e Comune di Cavezzo anno 2000