Fonderia Ghisa – La storia – Origini della fabbrica – Primo capitolo

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Visto l’interesse che ha suscitato il precedente articolo sulla Fonderia Ghisa di Mirandolaabbiamo pensato di approfondire l’argomento prendendo spunto da un libro scritto in occasione della mostra “Il Lavoro e la Memoria”uscito nel 1983 a cura di Vittorio Erlindo.

L’argomento è ampiamente trattato e abbiamo pensato di suddividerlo in più capitoli di cui questo è il primo.

Ringraziamo Paolo Mattioli, proprietario del volume, che ce lo ha gentilmente concesso.

1936 Pianta della Fonderia Focherini in via Verdi - Roberto Neri

STORIA

Origini della fabbrica

La nascita della Fond-Ghisa di Mirandola risale al 1935.

Si chiamava allora “Metallurgica Focherini” dal cognome del pro­prietario signor Italo Focherini.

La fabbrica era ubicata a quel tempo nella contrada della Posta, at­tuale Via Verdi.

Così come tante imprese industriali di piccole e medie dimensioni sorte tra la fine dll’800 e la prima metà del ’900, l’Azienda nasceva all’interno delle mura in pieno centro storico.

L’insieme dei capannoni si estendeva su di una area di 3.600 m.2 ed era contenuto ad est da Via Circonvallazione, a sud da Via F. Mon­tanari, ad ovest dalla contrada della Posta e a nord dalle case d’abitazione della famiglia Luppi.

L’entrata della fabbrica era nella contrada della Posta, tra i reparti fusori e l’ufficio tecnico-amministrativo.

Accanto agli uffici, sulla destra, la residenza della famiglia Foche­rini, attualmente occupata da un magazzino farmaceutico.

Così come per tantissime realtà produttive di quel tempo, abitazio­ne padronale e impresa industriale fanno un solo corpo. L’organizzazione degli stabili era così suddivisa:

  • modelleria in legno
  • modelleria e placche
  • reparti di fusione
  • meccanica (manutenzione e montaggio)
  • sabbiatura
  • sbavatura
  • verniciatura e smalteria
  • uffici, magazzini, spedizione.

Per una realtà come quella mirandolese, che sul piano economico era quasi completamente dipendente dall’agricoltura, la nascita di una seppur piccola impresa di carattere industriale rappresentò una positiva novità rispetto le possibilità occupazionali del tempo, sia per il tipo di mestiere in sè che per la stabilità e la durata del la­voro.

“Fra il 1871 ed il 1936 quattro milioni e mezzo di meridionali erano stati costretti ad emigrare stabilmente all’estero. Un vero e proprio esodo di popolo che aveva degradato il Mezzogiorno. Nel 1871 l’emigrazione rappresentava il 5% dell’aumento naturale della po­polazione; ma nel 1911 questa incidenza era salita al 62,5% per poi stabilizzarsi attorno al 52%. Dal 1871 al 1936 soltanto 200 mila la­voratori avevano trovato occupazione in attività supplementari a quelle esistenti davanti a 4 milioni e 300 mila persone in età da la­voro.

Questa situazione stagnante aveva consolidato il predominio dei ceti semifeudali, arrocati nello sfruttamento di aziende fondiarie arretrate. Il 50% della terra coltivata era soggetta all’impresa a contratto, con varie forme di patti agrari (colonie, mezzadrie, affitti, compartecipazioni) in cui trovava occupazione una popolazione im­poverita. Il latifondo, la superfice a cereali o pastorizia, si estende­va dalle zone collinari-montane anche ad ampie porzioni delle limi­tate pianure. La coltivazione dei cereali, in particolare del grano, a cui i governi avevano assicurato un prezzo interno protettivo molto più alto di quello estero, rappresentava oltre un terzo di tutto il pro­dotto vendibile dell’agricoltura. Ciò voleva dire poche giornate di lavoro e poco reddito per i lavoratori, ma anche rendita costante per i proprietari1”.

Il mercato del lavoro in agricoltura era dominato anche a Mirando­la da alcune regole fisse come:

a) la stagionalità per gran parte dei lavori agricoli

b) una bassa professionalità richiesta ai lavoratori

c) una paga al limite della sussistenza.

Non che le paghe dell’industria fossero di gran lunga più alte ri­spetto a quelle del settore agricolo, tuttavia la sicurezza del posto di lavoro, la possibilità di imparare un “mestiere”, di avere un ora­rio di lavoro regolato dall’orologio e non dal sole, costituirono un’attrattiva per molti lavoratori ed in modo particolare per i giova­ni. Lavorare allora in metallurgia doveva rappresentare una sorta di privilegio se ancora negli anni ’50 sono più di 900 le domande di la­voro depositate nell’ufficio del personale dell’azienda.

Esarmo, operaio anziano della Fond-Ghisa, suole raccontare: “Quando eravamo giovanotti e si andava a ballare nelle frazioni in occasione delle fiere e delle sagre paesane, spesso la madre con una gomitata sollecitava la figlia dicendo: “su vai a ballare con quello, lavora alla Focherini!”.

Non che il lavoro fosse leggero, nè pulito, anzi, si racconta che agli inizi quando si formava tutto a mano era tanta la polvere che si fa­ceva fatica a vedere da un lato all’altro del capannone.

Era tuttavia sicuro, era un lavoro che usciva dalla morsa ingenero­sa dell’agricoltura e che si apriva a possibili sbocchi nel settore in­dustriale.

È nota l’ostilità dei proprietari terrieri della Bassa verso il nascere delle nuove industrie.

La fabbrica in un certo senso metteva in discussione tutta una se­rie di dipendenze, di obblighi cui erano, per tradizione, costretti i la­voratori agricoli.

  • diritti conquistati nelle fabbriche dal movimento operaio rischia­vano infatti di mettere in discussione i già difficili e instabili equili­bri tra lavoratori agricoli e agrari; questi peraltro potevano contare su ampie aree di manodopera in attesa di occupazione, su basse remunerazioni, e contenuti livelli di conflittualità.
  • ritornello che i proprietari terrieri amavano ripetere era che sareb­bero, in futuro, potute venire a mancare le braccia indispensabili per lavorare la terra.

Come si vedrà più tardi, e le statistiche stanno a dimostrarlo, non è sicuramente stata la gente della campagna a defilarsi man mano dalla agricoltura. Il possente incremento di macchine e attrezzatu­re nelle campagne accompagnato a nuovi e più avanzati sistemi di coltivazione e conduzione dei fondi, nel giro di pochi decenni, riu­scirà a cacciare dalle campagne centinaia di migliaia di contadini verso i centri urbani e nuove professioni, provocando squilibri, strozzature e contraddizioni poi esplose in tutta la loro drammatici­tà negli anni ’50-’60, quando sviluppo economico e sviluppo indu­striale si erano già fatti più rapidi ed intensi.

Tratto da “IL LAVORO E LA MEMORIA: Fonderia Ghisa Mirandola 1935 – 1982 – A cura di Vittorio Erlindo

fonderia 11

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