Luglio – Angurie e meloni

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ANGURIE E MELONI

Perché nelle campagne della “Bassa (quella più bassa) luglio è anche il momento magico per apprezzare la bontà dei meloni, dapprima, e poi delle angurie. È in questo periodo che la valle mirandolese e dei comuni circostanti esprime il meglio di se stes­sa, con una produzione di meloni e di cocomeri di qualità ecce­zionale. E i nostri antenati, che non usavano il computer ma ave­vano una grande sensibilità verso le buone produzioni agricole, ebbero l’accortezza di allestire proprio a Mirandola, illustre città e centro della Signoria dei Pico, una grande fiera che oggi potrem­mo chiamare agroalimentare.

Gli studiosi della città dei Pico affermano che già sul finire del Cinquecento a Mirandola era nata una fiera che si teneva nella ter­za domenica di luglio e che, naturalmente, era una rassegna preva­lentemente agricola. In seguito venne conosciuta come “la fiera dei meloni e delle angurie”, poi una trentina di anni fa questa fiera è stata anticipata a maggio, assumendo vari altri nomi, non ultimo quello a dir poco comico di “fiera dei magici incanti”.

La coltura dei meloni nella bassa pianura modenese ha vera­mente radici molto antiche, così come la coltivazione delle angu­rie. I terreni più adatti per queste cucurbitacee sono da sempre i cosiddetti “terreni vallivi” (o, in dialetto, i “terreni forti”) che si stendono da Quarantoli fin verso San Martino Spino, interessando anche rilevanti parti dei territori di Finale Emilia, San Felice sul Pa­naro, Camposanto, Medolla e Concordia. Ottimi risultati si ottenne­ro anche nella zona dell’ex bosco della Saliceta dopo che, al termi­ne dell’ultimo conflitto mondiale, il bosco fu totalmente abbattuto per dare possibilità di lavoro a parecchia gente.

I meloni non solo hanno dato una prova storica della loro colti­vazione nei secoli addietro, ma hanno anche offerto una significa­tiva svolta alla storia di Mirandola, poiché esattamente l’8 agosto 1504 moriva a Mirandola uno dei due Signori della città, Federico I Pico, il quale condivideva con il fratello Ludovico il dominio della Signoria di Mirandola e della contea di Concordia.

Orbene, i medici di corte non esitarono a dire (probabilmente “invitati” dal fratello superstite) che la colpa di questa morte im­provvisa era da attribuirsi ad un melone troppo freddo, mentre il popolo era convinto che nel melone fosse stata introdotta una di­screta quantità di veleno, assai di moda in quei tempi in cui la smania per il potere non era inferiore a quella odierna. Sicuramen­te è meglio l’attuale accoppiata melone e prosciutto, che riesce ad ottenere grandi consensi presso tutti i buongustai.

Pure molto apprezzati fin dai primi anni del Quattrocento erano i cocomeri della “Bassa”, anche perché la consumazione della “langoria” era nello stesso tempo un rito e una festa. Nelle case della povera gente l’arrivo del cocomero era salutato con grande gioia di tutti, ma soprattutto dai bambini.

Veniva consumato generalmente di sera e si mangiava con il pa­ne, come una cena speciale. La cerimonia dell’anguria cominciava verso mezzogiorno quando il grosso frutto veniva messo a raffred­dare dentro l’acqua fresca del pozzo; l’anguria restava lì a galleg­giare fino a sera e assumeva una freschezza del tutto naturale, mil­le volte migliore di quella che oggi forniscono i moderni frigorife­ri, perché era un fresco naturale. Poi con una laboriosa operazio­ne, il cocomero veniva tolto dal pozzo e finalmente portato in ta­vola. Il capo famiglia provvedeva al taglio dell’anguria e, una volta tanto, le prime fette toccavano ai bambini, che affondavano con gioia i loro denti in quelle fette rosse e dolci, purtroppo ricche di semi scuri. In effetti qualche seme finiva in gola ma non c’era da preoccuparsi; semmai era opportuno fare due volte la pipì prima di andare a letto, perché, come tutti sanno, il cocomero ha notevo­li proprietà diuretiche e non era difficile, il mattino seguente, tro­vare qualche lettino bagnato.

Sempre in tema di angurie, va ricordato che in tutti i paesi e an­che nelle città, l’estate era contrassegnata dalla presenza di vari chioschi dove si vendevano le angurie a fette. Questi chioschi esi­stono ancora oggi, anche se sono meno frequenti di un tempo, e il titolare era un autentico maestro nel tagliare le fette tutte uguali, non prima, però, di affondare uno strano strumento simile ad un grosso tubo nel “cuore” dell’anguria per ricavarne il cosiddetto “garù”, cioè la parte centrale e migliore del cocomero, che era an­che la parte priva di semi.

Dalle nostre parti, comunque, esiste tutta una letteratura sulla storia di queste “baracchine” estive dove si vendevano le fette di angurie: storie di amicizie e di amori, di racconti strani e di avven­ture raccontate da quella ristretta ma stupenda categoria di perso­ne che non si decidevano mai ad andare a letto.

Ma torniamo a luglio che, come si è detto e come tutti sanno, è il mese più caldo dell’anno e i nostri bisnonni non dimenticavano di dire che in questo periodo anche gli animali cercano il fresco o comunque un po’ di riparo dai raggi del sole, mentre sugli alberi le cicale si danno un gran daffare con il loro monotono cicaleccio. Un vecchio proverbio diceva che “Quando fila la vecchietta, anche il can cerca l’ombretta”. Ma la “vecchietta” di questo proverbio non è una tranquilla signora piuttosto anziana, ma quella sorta di bale­nio accecante, quasi liquido che si può notare all’orizzonte quando fa veramente caldo e che oggi si nota particolarmente sulle strade asfaltate. Ma anche oggi la frase “fare la vecchia” significa fare ri­specchiare i raggi del sole mediante uno specchio.

Era quindi un segnale di grande calura, tale da costringere an­che i cani e gli animali a cercare un po’ di ombra, che invece è de­testata da chi vuole abbronzarsi al mare.

Tratto da: Antiche tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno: 2006

Illustrazione di Aleardo Cavicchioni

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