Studio dei dialetti della Bassa Modenese – I rapporti fra il dialetto di Mirandola e quelli di San Felice e Camposanto

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Daniele Vitali

Daniele Vitali

Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea.

Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020, in 4 volumi) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

È attualmente impegnato in uno studio sui dialetti delle province di Ferrara, Modena e Mantova, oltreché del Veneto.

I rapporti fra il dialetto di Mirandola e quelli di San Felice e Camposanto

La volta scorsa si è parlato un po’ a grandi linee dei dialetti della Bassa modenese simili a quelli di Mirandola, promettendo di tornare sull’argomento e di parlare, fra l’altro, dei dittonghi di San Felice.

Si tratta di una differenza macroscopica che consente di distinguere subito il mirandolese dal sanfeliciano il quale, sotto questo profilo, sembra proprio “un altro dialetto”.

Ad esempio, laddove in mirandolese “fiera, miele, pecora, fuoco, rosa, scuola” si dicono fêra, mêl, pêgra, fôg, rôṡa, scôla, il sanfeliciano ha fìara, mìal, pìagra, fùag, rùaṡa, scùala coi dittonghi /ia, ua/.

Questa situazione apparentemente così diversa ha però la stessa origine, ossia e, o aperte brevi latine. Tali vocali infatti dettero i dittonghi /je, wo/ in tutta l’Emilia-Romagna, dopodiché a seconda dei luoghi ci sono state evoluzioni diverse: a Parma e a Piacenza questi dittonghi dettero /ee/ e /øø/ (in alfabeto fonetico, /ee/ indica una e chiusa lunga, come ê del mirandolese, mentre /øø/ sta per la ö del tedesco; poi sia in parmigiano che in piacentino questa /øø/ si è trasformata in /oo/, cioè ô lunga del mirandolese); invece, a Reggio, Modena, Bologna e in Romagna si ebbe la trasformazione di /je/ e /wo/ rispettivamente in /iə/ e /uə/, dopodiché la “vocale indistinta” cominciò a tendere ad una a alta e posteriore e si ebbero gli odierni /ia, ua/ di San Felice.

Sappiamo dai documenti antichi che anche Bologna e Ravenna avevano /iə, uə/, poi trasformatisi in /ii, uu/ (infatti in bolognese “fiera, fuoco” si dicono fîra, fûg), e lo stesso era accaduto a Modena e a Reggio. Però queste due città, trovandosi a metà strada fra Parma e Piacenza coi loro /ee, øø/ e Bologna e la Romagna coi loro /iə, uə/, risultarono a lungo incerte: ad esempio, sappiamo dagli antichi documenti modenesi che /ee, øø/ e /iə, uə/ si sono fatte concorrenza per secoli. Come noto, /øø/ c’è ancora in montagna, mentre /ia, ua/ ci sono per l’appunto a San Felice: le aree laterali sono più conservative della zona ad alto traffico della Via Emilia, dove si trova il capoluogo provinciale Modena.

Ebbene, siamo certi che Mirandola un tempo avesse /ia, ua/ come San Felice: nel Vocabolario di Meschieri si legge a pag. VI che laddove in mirandolese urbano “chiesa, fuoco” si dicevano già allora ṡa, fôg, in campagna si diceva cìaṡa, fùag, come a tutt’oggi in sanfeliciano. Nella sua introduzione alla ristampa anastatica del Meschieri pubblicata nel 2007 dall’Associazione “La Nostra Mirandola”, Fabio Marri osserva che poco prima di Meschieri un altro autore mirandolese ottocentesco, Carlo Ciardi, attestava entrambe le possibilità pure in mirandolese, solo che i dittonghi “sanfeliciani” erano usati “dal popolazzo”, mentre la situazione odierna con ṡa, fôg era quella delle persone più colte e borghesi.

In pratica, il mirandolese e il sanfeliciano dovevano essere un tempo quasi identici (dal momento che la questione dei dittonghi è il loro elemento distintivo principale), dopodiché il mirandolese si orientò sulle soluzioni del modenese urbano, lasciando indietro il sanfeliciano che, se non temessimo di causare scandalo a livello locale, potremmo considerare “un dialetto rustico del mirandolese”.

Poco più a sud di San Felice c’è Camposanto. Lì il dialetto ha già diverse differenze: come abbiamo notato la volta scorsa, ad esempio, a mär, päl, andär “mare, palo, andare” di Mirandola e San Felice corrispondono in camposantese mèr, pèl, andèr come a Modena e a Bologna (del resto, non è lontana da Camposanto la zona di Crevalcore, che presenta tratti sia modenesi che bolognesi).

Ebbene, va aggiunto che il camposantese presenta ṡa, fûg come il bolognese e il crevalcorese, ossia i dittonghi sanfeliciani /ia, ua/ sono diventati /ii, uu/. La distribuzione è proprio succedanea della situazione sanfeliciana, dal momento che “rosa, scuola” si dicono ṡa, scûla mentre il bolognese ha ṡa, scôla perché queste due parole a Bologna non dittongarono mai.

E così, poiché la situazione sanfeliciana odierna come s’è detto rappresenta una fase più vecchia del mirandolese, possiamo dire che anche il camposantese rientra a pieno titolo fra i dialetti della Bassa modenese strettamente imparentati al mirandolese, nonostante certe influenze della campagna bolognese.

Daniele Vitali

Alla pagina www.bulgnais.com/ventoesole.html si troveranno varie versioni della storiella esopica “Il Vento e il Sole” in numerosi dialetti dell’Emilia-Romagna e dintorni: fra questi anche Mirandola, Modena, Cavezzo, Medolla, San Possidonio, Concordia, San Felice e Camposanto.

Più precisamente, in questo caso:

San Felice

Camposanto

Crevalcore

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