Marzo – Le tradizioni – Tempo di semine e di imbottigliamento

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Ma il mese di marzo, oltre ad essere per così dire estroverso, con giornate bellissime e momenti di ritorno all’inverno più crudo, era soprattutto il tempo del ritorno al lavoro dei campi a tempo pieno, con tutte le incombenze che il maltempo invernale aveva costretto a rinviare: era (ed è ancora) il momento degli innesti sul­le varie piante (da qualche parte chiamati anche “marze”), è il mo­mento di zappare e di erpicare, ma è anche la fase propizia per la semina dei cosiddetti “cereali marzuoli”, come il mais, l’orzo e l’a­vena; è anche il tempo giusto per seminare i piselli, i fagioli, le fa­ve (ormai scomparse dalle nostre terre) e i pomodori.

Per quanto riguarda le verdure da orto (cioè gli ortaggi), biso­gna essere molto attenti, perché bisogna eseguire la semina con la luna giusta, cioè nelle fasi calanti del nostro satellite naturale. Infi­ne, in questo periodo si procede anche alla importante semina dei meloni e delle angurie, anche se oggi molto spesso la vecchia se­mina si trasforma in trapianto.

Come si è detto in precedenza per il mese di febbraio, anche in marzo parecchia attenzione deve essere rivolta ad un’altra fase propizia per l’imbottigliamento domestico del vino, che va sistema­to nelle giornate non ventose e con le fasi lunari propizie, cioè quelle di luna calante. A questo proposito, vorremmo ricordare un episodio che è quasi entrato nella leggenda: molti decenni or sono un antico lunario dialettale della Mirandola, il vecchio “Barnardon”, indicò in modo errato, forse per un banale errore di stampa, le diverse fasi lunari. Un contadino che aveva imbottigliato il suo vino secondo le indicazioni non esatte del lunario, voleva citarlo in giudizio poiché il vino non aveva dato l’esito sperato. Poi fatico­samente si arrivò ad una sorta di pace a base di Lambrusco, però imbottigliato nella luna esatta.

Sempre nelle campagne, un tempo si cercava ancora una volta di agevolare la buona quantità dei futuri raccolti con alcune opera­zioni scaramantiche: si bruciavano all’aperto, con grandi falò, i vecchi tralci delle viti tagliati durante la potatura invernale, si dava­no alle fiamme anche le erbe secche dei canali e la paglia vecchia. Questa consuetudine era detta del Calendimarzo e aveva luogo so­prattutto nei primi tre giorni del mese. Però in questi giorni, in pa­recchie località, non si lavorava, evitando con cura ogni attività agreste, ad eccezione, naturalmente, dei lavori nelle stalle. Era un’antica tradizione, forse ereditata dai Celti, come del resto la tra­dizione dei falò all’aperto, coincidenti con l’adorazione del fuoco, un rito che nei primi giorni di marzo esigeva che si desse vita ad una cerimonia strana, in virtù della quale si esorcizzavano i raggi del sole, affinché esso, cominciando a “picchiare” sul serio, non provocasse scottature o colpi di sole ai contadini durante le future faticose operazioni della falciatura dell’erba e della mietitura del frumento e dell’orzo. Sta di fatto che, secondo uno stranissimo ce­rimoniale, ai primi di marzo, gli uomini si mettevano per qualche secondo con il fondoschiena scoperto in direzione del sole e per tutta l’estate lo strano espositore del suo sedere era sicuro che non si sarebbe scottato con i raggi del sole. Pare di capire che questo strano e un po’ barbaro atteggiamento rituale fosse di derivazione celtica; non a caso una scena di questo genere da parte dei soldati scozzesi, per esorcizzare il pericoloso nemico, si vede in un mo­mento del film “Braveheart” all’inizio della battaglia di Stirling con­tro l’esercito inglese. Di certo, un tempo non si usavano le attuali creme protettive.

In altre parti della pianura padana, lo scopo di protezione con­tro i raggi del sole poteva essere ottenuto con una bella tosatura dei capelli “a pomo” nel primo venerdì del mese. Questo rito ga­rantiva anche – secondo una vecchia e strana tradizione – una ri­cresciuta dei capelli più folti e robusti.

Ma le usanze marzoline (in perfetta sintonia con questo mese un po’ matto) erano decisamente numerose e anche piuttosto as­surde: si sosteneva infatti che un modo sicuro per evitare i dolori reumatici fosse quello di rotolarsi a terra, in mezzo alla polvere, quando si udiva il primo rombo di tuono dell’anno; chi aveva l’ac­cortezza di ingoiare qualche petalo delle prime violette aveva mol­te speranze di evitare qualsivoglia mal di testa per tutto il corso dell’anno. Qualche granello di sale sparso davanti alla porta di ca­sa teneva lontani i temporali e se proprio il sale non serviva e il temporale stava arrivando, le case e i raccolti potevano essere sal­vati mettendo, sempre davanti alle porte di casa, due bastoncini a forma di croce.

In ogni caso un giorno da guardare sempre con sospetto era il venerdì, perché, come ognuno sa, Gesù Cristo era stato crocefisso proprio di venerdì. E, come è noto, “né di Venere né di Marte non si sposa nè si parte, né si dà principio ad arte”. Di venerdì era buona abitudine, per esempio, non fare nemmeno il bucato. Poi il 19 marzo, giungeva la festa di San Giuseppe, che oggi è la cosid­detta “festa dei papà” ma un tempo, a partire dal 1870, era la festa dei lavoratori, trasferita poi nella giornata del 1 maggio. E il vec­chio “Barnardon” ci avverte che a partire dal 5 marzo “canta il cuc­co”, nel senso che è tornato il cuculo.

Tratto da: Antiche tradizioni mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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