Torta d’Ebrei – Tibuia -Sfogliata di Finale Emilia

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TortaEbrei

La torta d’Ebrei di Finale Emilia
La torta d’ebrei (o tibùia) è da più di cento anni la delizia dei finalesi. Il loro piatto più tradizionale.
Che cosa è la torta d’ebrei e da cosa deriva il suo nome? E’ una sfogliata: un impasto di farina, burro, strutto e formaggio.
Era, ma senza strutto, la specialità della comunità ebraica che a Finale Emilia aveva la sua università, il suo ghetto e il suo cimitero.
Della loro torta, come del salame d’oca, molto si favoleggiava, ma nessuno era riuscito a carpirne il segreto.
A farne dono ai cristiani fu un certo Mandolino Rimini di Aronne, israelita, che nel 1861 era stato battezzato nella Chiesa Maggiore con l’imposizione dei nomi Giuseppe, Alfonso (aveva fatto la sua preparazione spirituale presso i RR.PP. Liguorini), Maria e del cognome Alinovi.
Abbandonato il ghetto, gli scottava il disprezzo che gli ebrei non gli lesinavano. Come vendicarsi? Provvisto di un certo spiritaccio, ebbe una trovata che gli fruttò la notorietà e la riconoscenza. Erano gli ebrei gelosi della loro torta? Ebbene, ne avrebbe fatto una ghiottoneria per i cristiani, ma per punire gli ebrei che non potevano mangiare nulla che derivasse dal maiale, aggiunse alla ricetta lo strutto.
Fu un trionfo che dopo cento anni non accenna ancora a diminuire. Conservata calda su un trespolo con braciere, viene venduta agli angoli delle vie o sotto i portici del centro; a grandi rettangoli avvolti in carta gialla è mangiata all’aperto.
Due sono i modi per affrontarla: il più spicciativo è a morsi, ma il buongustaio compie un languido rituale quasi sfogliasse una rosa dai petali morbidi.
Quando la manipolazione è stata paziente e il grado di cottura esatto, la torta assume l’aspetto di una millefoglie, ma non a pellicole fragili, bensì tenerelle e sciroppate dal formaggio filante: solo la superficie deve essere rosata e croccante.
Ha la sua stagione di punta: l’inverno; due tempi: la mattina e il crepuscolo; la sua kermesse: il giorno dei morti.
Alinovi trovò subito imitatori e concorrenti: il più noto fu “al zòp Tiburzi” che alzò il suo trespolo a pochi passi da lui. A turno, ogni mattino, i due venditori urlavano il loro richiamo e ne risultava una tenzone in rima, bonaria e ridanciana.
“Calda c’la bùi” (che bolle): la torta si chiama anche “tibùia” – gridava Tiburzi.
“Mèrda ad pui (di pollo), rimbeccava Alinovi.
“Calda c’la scota” – vantava Alinovi.
“Mèrda ad toca” (di tacchina), era la replica di Tiburzi.
I finalesi ridevano, passavano da un trespolo all’altro e sotto i portici di via Santa Caterina (attualmente C.so Mazzini) i fogli unti di carta gialla si ammonticchiavano con una nota autunnale.

Piero Gigli – da “T’arcòrdat?”, antologia di prose e poesie dialettali finalesi. Carc, 1974

Ingredienti per 6 persone:

500 gr. di fior di farina (00);

100 gr. di strutto;

150 gr. di burro;

250 gr. di formaggio parmigiano-reggiano giovane;

15 gr. di sale; acqua.

Si impasta sul tagliere, meglio su un ripiano di marmo, la farina con l’acqua e il sale in modo da farne un pane morbido e lo si lavora per almeno mezz’ora. Formare una palla e lasciare riposare l’impasto, coperto con una terrina, per circa un’ora. Mentre la pasta riposa, amalgamare a fuoco bassissimo, o meglio a bagnomaria, 100 gr. di burro e lo strutto sino a ottenere un “unguento” semifluido. Dividere la pasta in sei pezzi; lavorare ancora il primo pezzo e tirarlo sino a una sfoglia sottilissima di forma rettangolare; ungerla con la sesta parte della manteca di burro e strutto. Ripetere l’operazione con gli altri cinque pezzi di pasta, sovrapponendo e ungendo via via le sfoglie e non dimenticando di ungere l’ultimo, in superficie.
Piegare all’interno, in tre parti, il lato lungo del “mattone” così ottenuto; fare riposare l’impasto, ricoperto, in frigorifero per circa 20 minuti. Tirare nuovamente la sfoglia sempre nello stesso senso, avendo l’avvertenza di lasciare verso l’alto la parte piegata per ultima e senza mai voltare la pasta di sotto in su, all’altezza di mezzo centimetro e alla stessa larghezza della tortiera rettangolare che si vuole usare, ma lunga il triplo. Imburrare la tortiera e foderarla con un terzo di sfoglia; cospargere con la metà del formaggio grana parmigiano-reggiano tagliato a fette sottilissime e spruzzare leggermente con poca acqua; ricoprire con la seconda sfoglia, ancora formaggio e acqua, infine posare la terza sfoglia saldando bene la pasta dei bordi. Incidere leggermente la superficie della “sfuiàda” con la punta di un coltello in modo da formare rombi o quadrati di 5 cm. di lato e fiorire con il burro rimasto (50 gr.) a fiocchetti. Far cuocere a forno caldo (200 gradi) finché la pasta non ha preso un bel colore rosato. La “sfuiàda” va mangiata caldissima.
Ricetta un po’ elaborata che richiede tempo ed esperienza; il risultato, però, vi ripagherà di ogni fatica.

Tratto dal sito del Comune di Finale Emilia

http://www.comunefinale.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=2313&Itemid=999

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