Streghe dappertutto

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Questo bel disegno si trova nella Galleria degli Uffizi a Firenze. E' di Filippo Lippi e ritrae due streghe tanto attraenti che sarebbe un vero peccato bruciarle.

Si può dire, esagerando un pò, che il millecinquecento sia stato il secolo delle streghe; in tutta Europa e, in particolare, nella nostra Padania. Non è perciò troppo strano che un principe religioso come Gianfrancesco Pico, per giunta savonaroliano tutto d’un pezzo, profondamente convinto che la fe­de vada testimoniata nell’azione di ogni ora, e che le insidie del Demonio sono continue, si sia trovato alle prese con le streghe che, vox populi, infestavano nu­merose le sue terre.

Si raccontavano cose tremende e sconce dei loro festini e di “quel tanto malvagio, scelerato e maledet­to gioco detto della Donna”. Si riunivano uomini e donne, specie di notte, e resi invasati dalle streghe, celebravano “messe” diaboliche, esaltando ogni per­versione, sbeffeggiando i riti religiosi, “abusando del cibo e del sesso”.

 

In questo ritratto di anonimo del Cinquecento il nipote Gianfrancesco compete con lo zio Giovanni, quanto avvenenza. Il quadro è nel Museo Civico di Mirandola ( era, prima del terremoto).

In questo ritratto di anonimo del Cinquecento il nipote Gianfrancesco compete con lo zio Giovanni, quanto avvenenza.
Il quadro è nel Museo Civico di Mirandola ( era, prima del terremoto).

Si diceva perfino che un prete, addirittura un prete, andasse in giro per Mirandola con una diavola di nome Armelina “bella di faccia, colli ladri occhi e con il giocondo volto”. Ma, per magia, nessuno la poteva vedere, lui soltanto: “Sovente l’havea in sua compagnia passeggiando per la piazza, e così andavano insieme ragionando, siccome fanno duoi compagni insieme; benché non fussi veduta d’alcun altro”. Quel prete fu “bruciato secondo la Ordinazione delle leggi”.

Le streghe, donne che dovevano avere un qualche potere paranormale, o che lo simulavano, divennero la proiezione del profondo nero della coscienza di uo­mini che uscivano da un mondo di certezze soprannaturali e si avviavano verso un mondo ancora enigmati­co, portandosi dietro nel trapasso una specie di com­plesso di colpa irrisolto, vivendo in una “condizione purgatoriale” commista a un bisogno di ribellione, di affermazione della propria terrestrità, di rifiuto di ogni dipendenza trascendente.

Alle streghe credeva Gianfrancesco, ma credeva­no anche filosofi come Giordano Bruno e Tommaso Campanella, molto più “laici” di lui e già più lontani dalle certezze metafisiche dell’uomo medievale. Una studiosa della cultura di quel periodo e dello “streghismo” di Gianfrancesco – Ida Li Vigni- ha scritto:
“Non si tratta né di pavidità né di inconsapevole contraddizione logica: è piuttosto il riflesso di uno smarrimento intellettuale, comune agli uomini del suo tempo, causato dal graduale ma ormai inarre­stabile sgretolarsi delle coordinate storico-culturali che avevano sorretto non solo il grande sapere me­dievale, ma anche la luminosa e pur fugace stagio­ne degli Umanisti”.

Quei fatti, di cui fu triste protagonista Gianfrance­sco, avvennero nel 1522-23. A Mirandola, per repri­mere quella che la Chiesa considerava un’eresia (“haeresis strigiatus”), fu inviato come Inquisitore un certo fra Gerolamo Armellini da Faenza, come altri ne furono inviati a Modena, Fer­rara, Piacenza, Cremona e in tante altre città. L’Inquisitore aprì subito una serie di processi che suscitarono, però, vivaci pro­teste. Fu allora che Gianfrancesco, come Signore della Mirandola, o per garantire la popolazione sullo scrupolo di quei pro­cessi, o per dare man forte all’Inquisitore, si affiancò a lui interrogando personal­mente gli imputati, raccogliendo testimo­nianze, formulando le sentenze.

I verbali di quei processi non ci sono più, ma nel Fondo Inquisizione dell’Archi­vio di Stato di Modena c’è un “Catalogo” del Seicento che elenca i condannati che a Mirandola furono costretti a salire “sovra di una grandissima stipa di legna” per essere bruciati “in punizione delle loro sceleraggini et ancho in essempio dell’altri”.

Furono dieci: tre donne, definite “streghe impe­nitenti” – una di Cividale, una di San Felice e una di Borghetto – e sette uomini, indicati nel “Catalogo” co­me “stregoni”.

A causa delle streghe nacque perfino una contro­versia tra Mirandola e Concordia che, come sappia­mo, nel 1513 erano state divise fra Gianfrancesco e Francesca Trivulzio, la vedova del fratello Lodovico. Concordia non voleva che l’Inquisitore di Mirandola processasse i propri “sudditi” autonomamente. Vole­va anch’essa essere rappresentata nei processi. Ma la risposta fu secca: gli Inquisitori possono liberamente agire nell’ambito del Vescovado di Reggio Emilia da cui dipendono sia Mirandola che Concordia. “Così vole la chiesa e la sanctità del Papa”.

Il caso vuole che la notorietà di Gianfrancesco sia più affidata a un suo libretto sulle streghe di Miran­dola, che agli scritti filosofici e teologici che meritano certamente di più. Quel libretto, che Gianfrancesco scrisse in latino nel 1323, è intitolato “Strix” (Strega), “0 delle illusioni del demonio”, nella traduzione che ne fece il domenicano Leandro Alberti, amico di Gianfrancesco, anche lui impegnato nella repressio­ne delle streghe; “overo de gli inganni de Demoni”, nella più tarda traduzione dell’abate Turino Turini. A riprova di ciò che abbiamo detto, queste due tradu­zioni sono state ripubblicate qualche anno fa. Si trat­ta dei dialoghi di quattro personaggi, di cui due ben riconoscibili: Fronimo, che vuol dire saggio e sensa­to, sarebbe Gianfrancesco; Dicasto, che significa giu­dice, è l’Inquisitore Armellini; Apistio, come dire “l’incredulo”, che, sentiti i due, si persuade che la stregoneria è di natura demoniaca; infine, la Strega che rende la sua testimonianza.

Gianfrancesco scrisse evidentemente questo libret­to per giustificarsi e per dimostrare che la tesi della na­tura demoniaca della stregoneria non era sostenuta soltanto dalla cultura religiosa, ma anche da quella pa­gana. E qui Gianfrancesco, come faceva lo zio Gio­vanni, fa sfoggio di tutta la sua erudizione. Ma nono­stante questa sua difesa, che voleva essere più culturale che religiosa, riesce difficile immaginare un uomo di fede e di pensiero come lui impegnarsi in prima persona in quella che fu una minicrociata, se non si ri­porta la vicenda nel quadro delle convinzioni e delle paure del suo tempo, un tempo che fu ben più lungo, purtroppo, di quello vissuto da Gianfrancesco.

“Posti dinanzi a paure per così dire ancestrali che venivano a sommarsi con le paure storicizzabili del tempo – ha scritto sempre la Li Vigni – i letterati del XV e XVI secolo finiscono col presentare ai nostri occhi un comune stato schizofrenico, uno sdoppia­mento lacerante, non solo culturale, ma altresì inte­riore, fra erudizione classica e viscerali credenze su­perstiziose, fra ratio e disordine intellettuale”.

Tratto da: Quei due Pico della Mirandola – Giovanni e Francesco.

Autore: Jader Jacobelli

Edizioni: Laterza – Cassa di Risparmio di Mirandola

Anno: 1993

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