Don Zeno a San Giacomo -Dai ricordi di Norina, madre di 74 figli

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Don Zeno a S. Giacomo Roncole

Intanto don Zeno, che era nella nostra parrocchia fin dal 1931, faceva il suo apostolato, veniva nei vari posti della par­rocchia a prendere noi bambini prima con una «giardiniera» e un cavallo, poi con una corriera. Messo su un bel teatro, faceva i film per i grandi, ma anche per i piccoli.

La parrocchia di S. Giacomo era un parrocchia molto pove­ra, oltre tutto era sistemata male: se il campanile cadeva fini­va sul territorio della parrocchia di Medolla. La gente non andava in chiesa; il vecchio parroco, don Gaddi, non ce la faceva più.

Conosco don Zeno da quando avevo otto anni perché era cappellano della mia parrocchia. Perciò ricordo il suo arrivo a S. Giacomo con i burattini che ci faceva dietro alla canoni­ca.

Ricordo il cinema per noi ragazzi, il catechismo. Alla fine di un anno catechistico, dava in teatro il premio ai più bravi. Io ero una tra quelli, avuto il premio, quasi con orgo­glio, lo mostrai ad una mia amica, don Zeno mi richiamò e mi disse: «Mettilo via subito, perché per me siete tutti bravi».

Io certamente non capivo, pensavo ancora che i bravi erano i bravi e gli altri no. Il vero senso della giustizia, della parità di giudizio non ero ancora in grado di capirli, ma misi da parte quell’attestato e non lo guardai più.

Don Zeno cominciò con una giardiniera e un cavallo a por­tare a messa i bambini, ma siccome non avevano i vestiti decenti, molti non ci andavano. Allora don Zeno comperò tante belle stoffe e le espose in chiesa, poi chiamò diversi sarti e fece vestire tutti i bimbi, in modo che. tutti potessero andare in chiesa.

Poi inventò il timbro che faceva sul braccio a chi era stato a Messa e, con quello, nel pomeriggio si andava al cinema gratis. A metà film si usciva e si andava in chiesa per la bene­dizione e poi si ritornava al cinema. I primi film erano muti, poi venne il parlato. Un particolare che non ho mai dimenti­cato: una delle prime volte che c’era il film parlato, venne un grosso temporale e io non andai, ma mio fratello Ivo disse: «Acqua o no, il film parlato io non lo perdo». Si bagnò tutto, ma al cinema ci andò.

Don Zeno raccoglieva tutti i ragazzi sbandati, orfani e abbandonati, poi predicava alle giovani che andassero a fare loro da mamma, ma per dieci anni se non qualche donna che veniva a ore, non ci andò nessuna.

La guerra infuriava sempre di più. Avevamo tedeschi ovun­que che si installavano nelle case e anche da noi. Vivevano quasi come in famiglia. Mio fratello più grande era rimasto prigioniero e non si sapeva nulla. In questa occasione il babbo, non avendo notizie, fece il voto di non mangiare nei giorni: giovedì, venerdì e sabato santo. Subito dopo avemmo notizie che Severino era prigioniero in Algeria.

Nella nostra famiglia siamo cresciuti proprio con don Zeno: la mamma andava molto d’accordo con don Zeno e lui la teneva molto in considerazione. Era sempre la prima nelle iniziative, il babbo no: non so perché, forse perché, secondo lui, don Zeno faceva sempre il passo più lungo della gamba, spendeva troppo e questa storia succedeva anche in casa nostra con la mamma: le piacevano le novità e questo secolo ne era pieno.

Spesso la mamma comperava qualche novità con i soldi che prendeva vendendo qualche pollo o verdure, poi la nasconde­va e intanto cominciava a parlarne con il babbo. Quando pen­sava che oramai l’avrebbe convinto, la tirava fuori. I nostri desideri erano pochi perché poche erano le possibilità per rea­lizzarli.

Ma qualcuno ogni tanto si avverava. In particolare due mi rimasero sempre come ricordo. Il primo riguarda la stoffa per un vestito color bordò scuro, che avevo visto fuori in una vetrina. Mi piaceva tanto, ma non osavo chiederlo. Conoscevo le nostre condizioni, tenevo dentro di me questo desiderio. Un sabato la mamma andò al mercato e tornò tutta felice e mi disse: «Vai su in camera, guarda cosa ti ho porta­to».

Io meravigliata mi dissi: «Che abbia comperato quella stof­fa?». Arrivata in camera, stesa per bene sul letto stava una stoffa marron scura con una riga lucida. Costernata, in pochi secondi tirai delle somme: piaceva alla mamma, ma non a me.

Così per altri due anni avrei dovuto portare un vestito che non mi piaceva. Due lacrimoni scesero dai miei occhi, come fare per non deludere la mamma? Dissi a me stessa: «Norma, ingoia le lacrime e fatti vedere felice di quella scelta. Daresti troppo dispiacere alla mamma che chissà con quanto sacrifi­cio aveva comprato quella stoffa». Ritornai in casa tutta sor­ridente.

Portai la stoffa dalla sarta che mi fece il vestito, intanto ogni volta che andava a Mirandola, passavo davanti al negozio di stoffe per controllare che ci fosse sempre in mostra quella che piaceva a me. E anche per quell’anno non fu venduta perché a primavera la rividi in bella mostra.

Io tutta felice dicevo tra me: «Se quest’anno tutto va bene, prenderò il coraggio e lo chiederò alla mamma». E così fu. Pero mi feci furba. Cominciai pian piano a dire alla mamma che avevo visto una certa stoffa color bordò e che se un gior­no avessi dovuto comprarmi un vestito lo avrei desiderato così.

La mamma capì al volo e andò dal negoziante che cono­sceva bene e gli disse che a sua figlia piaceva quella stoffa, se poteva tenergliela per fare un vestito, ché appena aveva i soldi sarebbe passata a prenderla. Ma il negoziante le disse: «La prenda pure e se la porti a casa, poi, quando avrà i soldi mi pagherà».

E così ebbi il vestito tanto desiderato e, con quel vestito, feci la mia prima fotografia da quindicenne.

Un’altra piccola e grande gioia fu a 17 anni. Dopo tante insistenze Severino e io avemmo la bicicletta nuova. Un gior­no che eravamo fuori al lavoro, tornando a casa e andando in camera, trovai sul mio letto coperta da un panno una biciclet­ta nuova bellissima.

Severino pure lui, una bicicletta da uomo: una Bianchi di seconda mano ma quasi nuova. Il babbo il giorno dopo volle vederci fare la corsa, ma vinse mio fratello. Lui era più forte.

Ricordo la venuta di don Vincenzo, fratello di don Zeno nel 1936. Appena arrivato andò casa per casa a trovare i par­rocchiani e anche lui legò subito con la mamma, si intesero subito.

Un altro fatto furono i battesimi dei miei fratelli e sorelle, e appena fui in età per poterlo fare, il babbo volle che facessi da madrina al battesimo. In quei tempi si andava in calesse. Il babbo in quell’occasione si faceva prestare il calesse e il cavallo, la madrina aveva un telo finissimo bianco, che la mamma teneva per l’occasione. Copriva il neonato legato dietro al collo della madrina da un nastro azzurro o rosso o rosa, a seconda se era maschio o femmina.

Avevo imparato d’inverno a filare la canapa insieme alla mamma, poi nella primavera si faceva la tela con il telaio, così che lenzuola, tovaglie, asciugamani e asciugapiatti erano tutti fatti in casa. A me piaceva tanto tessere, far correre la navicella con il filo era un vero canto, lo facevo con tanto pia­cere.

Verso i sedici anni ero passata da aspirante ad effettiva nell’Azione Cattolica. Don Zeno ci aveva dato una classe di bambini per ogni giovane da insegnare il catechismo. Ricordo che io avevo la seconda e dopo la messa delle 9 alla domenica, avevamo ognuna una stanzetta della canonica in solaio che noi avevamo sistemato con panchine. Al pomerig­gio della domenica noi ragazze dell’Azione Cattolica aveva­mo le adunanze, poi il vespro con la benedizione. Tornando a casa dovevo aiutare la mamma per gli animali e recitare il rosario nella cappellina, oltre al mese di maggio e di giugno anche le altre domeniche.

Anche di questo ero molto felice, la domenica era piena: al mattino presto verso le sette ero già in viaggio in bicicletta per portare a Carpi in seminario i vestiti puliti ai miei due fra­telli, Ivo e Nino, che studiavano per diventare sacerdoti; poi per le 10 ero di ritorno per il catechismo.

Era una sgobbata pedalare per più di 20 chilometri andata e 20 di ritorno. Digiuna perché, se si voleva fare la comunione, si doveva essere a digiuno dalla mezzanotte, e io non portavo sola la roba ai miei fratelli. Nella nostra parrocchia c’erano altri tre seminaristi: Crespi, Benetti e Golinelli e i loro geni­tori spesso mi chiedevano il favore di portare anche la loro, così spesso il manubrio della mia bicicletta era pieno di borse di panni.

Quando arrivavo in seminario ero esausta: allora arrivava il rettore don Gino Lugli, che vedendomi così carica andava di corsa in cucina poi arrivava con un buon cappuccino per rin­francarmi. Io gli dicevo che non potevo prenderlo perché dovevo fare la comunione, e lui mi rispondeva: «Mi assumo io la responsabilità davanti a Dio. Tu bevi che hai ancora altri 20 chilometri da pedalare».

Si era in guerra. Mio fratello più grande andò militare. Un giorno la mamma torna da Mirandola e dice che Severino aveva fatto sapere che era a Mantova. La mamma mi chiese se me la sentivo di andare a trovarlo e portargli qualcosa da mangiare. In quei tempi i soldati mangiavano male.

Guardammo sulla carta geografica i chilometri che c’erano da fare. Erano tanti, ma se partivo appena giorno, ce l’avrei fatta. E così fu. Era estate e faceva anche caldo. Ricordo che arrivai a Mantova, nella caserma chiesi di mio fratello, ma Severino non c’era in nessun posto.

Che delusione. Pensai: forse la mamma avrà capito male, ma fare tanti chilometri ! Mi avviai per tornare indietro, dopo un po’ di chilometri mi misi da parte e mangiai un po’ di dolce che la mamma aveva preparato per Severino e ritornai a casa.

Avevo la faccia bruciata dal sole e le gambe mi fecero male per tanti giorni. La mamma il giorno dopo ritornò a Mirandola a informarsi da dove Severino aveva dato sue noti­zie, le dissero che non era a Mantova ma a Macerata.

Non avevo ancora 20 anni e già nella nostra famiglia man­cavano in tre: Severino, Ivo e Nino. Io e Erio di sedici anni eravamo i più grandi rimasti a casa. Gli altri erano piccoli.

I tempi erano cambiati, la terra si arava con i trattori: per il granoturco c’era una macchina che faceva tutto, però il lavo­ro era sempre tanto. Papà non era più giovane e i giovani erano via. Mi ricordo che ero in campagna con lui tutto il giorno, tanto da far sperare a mio padre che sarei rimasta con lui. Mi piaceva stare in sua compagnia, mi piaceva arrampi­carmi sugli alberi, ero spericolata, ero molto magra perciò mi muovevo con agilità. Avevamo un bel frutteto, ero sempre la prima a sapere se qualche frutto era maturo.

Tutti gli anni noi giovani dell’Azione Cattolica si organiz­zava un pellegrinaggio in bicicletta alla Madonna di Fiorano, oppure alla Madonna di Ponticelli, vicino a Carpi.

Dietro casa avevamo un canale dove in estate spesso io e Severino, verso sera, pescavamo. La mamma ci diceva: «Andate a prendere qualche pesce, così preparo la cena». E così andavamo al canale con un recipiente a rete che la mamma usava per i pulcini.

C’erano due specie di pesci che si prendevano bene: il pesce gatto e la tinca. Poi si pulivano subito e in pochi minu­ti la cena era pronta.

Una festa grossa, oltre la sagra che cadeva in luglio, era il 22 gennaio ché ricorreva la nascita dell’Opera Piccoli Apostoli. Allora don Zeno chiedeva alla parrocchia di prepa­rare qualche pollo, dolci e pasta a quadretti, specialità mode­nese per fare la minestra.

La mamma, in testa alle mamme di S. Giacomo, stava attenta che nessuno dicesse di no: poco o tanto tutti doveva­no dare qualcosa perché oltre a dare il pranzo a tutti i bambi­ni, ed erano tanti della parrocchia, doveva rimanere per i Piccoli Apostoli. E, per loro, era una festa, per diversi giorni avevano di che sfamarsi senza doverlo andare a cercare e pre­parare.

Tratto da: Norina, Mamma a Nomadelfia

Nomadelfia Edizioni

Anno 1998

Norina di Nomadelfia nasce, seconda di tredici figli, a Santa Giustina Vogona, frazione del comune di Mirandola, il 5 febbraio 1923. Nel 1931 la sua famiglia si trasferisce a San Giacomo Roncole. Diventerà “mamma di Vocazione” dei piccoli di Don Zeno.

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