Matrimonio – Il pranzo nuziale – Tradizioni e superstizioni nella Bassa Modenese

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Un discreto pranzo nuziale nella “Bassa” prevedeva in modo ri­goroso almeno due o tre minestre: si cominciava con i tortellini in brodo (quelli alla panna, per fortuna, non erano ancora stati in­ventati), poi due piatti di pasta asciutta, con una certa predilezione per i maccheroni al pettine. Poi due o tre secondi, con l’immanca­bile presenza dei bolliti misti e degli arrosti.

Poi formaggi, frutta, verdure e dolci, fra cui la rituale “zuppa in­glese” che in Inghilterra nessuno ha mai visto e conosciuto. Vino obbligatorio il Lambrusco, sostituito, alla fine, da un vinello bianco spumante della zona, che ora non esiste quasi più, ma forse è del­la famiglia del Trebbiano.

Tornando alla torta, secondo tradizione, la prima fetta spettava allo sposo ed era lo stesso sposo a preparare le fette per gli altri. Ma era la sposina a porgere la prima fetta, come si è detto, al ma­rito, la seconda alla suocera, la terza a sua madre, poi a suo padre e infine ai testimoni e a tutti gli altri. Inoltre a tutti i presenti spet­tava una congrua quantità di confetti.

Ma la colonna sonora del banchetto nuziale era contrassegnata da un tale che ogni tre minuti si alzava in piedi con il bicchiere in mano, urlava “Viva gli sposi!” e invitava tutti a bere. Infine, agli in­vitati più eccellenti e a quelli che avevano mandato il regalo, veni­vano offerte dalla sposa le bomboniere, anche se è giusto dire che quelle moderne sono entrate nell’uso comune solo da pochi de­cenni; il termine “bomboniera” è di origine francese, in quanto sembra che nel XVI e XVII secolo gli aristocratici d’oltralpe avesse­ro l’abitudine di omaggiare i loro ospiti con oggetti “porta bon bon” per conservare, appunto, i dolci.

Finito il lungo estenuante pranzo, era d’uopo per gli amici e i parenti fare una breve visita alla camera da letto degli sposi, luogo deputato all’intimità e al riposo. Le donne, ovviamente, erano mol­to interessate ai mobili, alla biancheria, alle lenzuola, alle coperte e al contenuto del guardaroba, con particolare attenzione verso la quantità e la qualità della dote, mentre i maschiacci erano fin trop­po prodighi di feroci allusioni sulla virilità dello sposo e sulle sue capacità amatorie. Addirittura, in certi paesi della “Bassa”, veniva insegnato ai bambini più innocenti una squallida storiella dialettale che più o meno diceva così: “O i cunfett o la sposa megh a lett”. Filastrocca quanto meno irriverente, che i bambini recitavano, ignorandone il significato, suscitando l’ilarità degli adulti.

Dopo la visita alla camera da letto, cominciava per gli sposi, la cosiddetta “luna di miele”: questa definizione deriva certamente dal fatto che nell’antica Roma i novelli sposi erano soliti mangiare un po’ di miele per tutta la durata di una luna (poco meno di un attuale mese) dal giorno delle nozze. Da questa usanza nacque l’e­spressione “luna di miele” per indicare i primi dolci giorni che se­guono le nozze. E a questo proposito, se fossimo maligni, vorremmo accennare ad una frase attribuita ad un vecchio contadino della “Bassa” parlando della moglie: “Durante il primo mese di matri­monio l’avrei mangiata, dopo mi sono pentito di non averlo fatto”.

Oggi, inoltre, le statistiche dicono che il 93 per cento dei novelli sposi partono per un viaggio di nozze più o meno lungo; un tem­po, cioè fino al periodo fra le due grandi guerre, solo l’uno per cento degli sposi percorreva le strade della luna di miele. Molte donne, il giorno dopo il matrimonio, imboccavano la via della campagna (o anche della stalla), mentre solo qualche rarissimo rampollo della borghesia aveva la possibilità di compiere un breve viaggio a Bologna oppure (ma era il massimo) a Venezia.

Ma il più serio “ostacolo” che si frapponeva fra i due novelli sposi e il resto della famiglia era la suocera, nota dalle nostre parti come colei che non voleva assolutamente “lasciare il mestolo” (cioè la gestione della cucina ma anche della casa) in mano alla nuova entrata nella casa, che doveva essere docile, remissiva e ub­bidiente, sempre disponibile a lavorare e a stare zitta. Perché, in definitiva, “tenere il mestolo” significava pensare a tutto, senza in­terferenze. Mentre gli uomini erano competenti sugli “interessi” nel lavoro e fuori casa, la “razdora” era titolare del più modesto ma non meno importante bilancio economico della casa, decideva su cosa preparare per il pranzo e per la cena, decideva il giorno del bucato, quello delle pulizie e aveva pieni poteri anche nell’educa­zione dei bambini, ma solo dopo che avessero imparato a cammi­nare.

Naturalmente la suocera, tranne qualche rara eccezione, era vi­sta come una sorta di “nemica” dalle giovani nuore, una barriera invisibile contro la felicità. Non a caso la suocera era persino mal­vista nel campo della letteratura a partire dal latino Terenzio fino al più moderno Pirandello, ritratta come invadente avversaria dal cinema italiano, despota assoluta all’interno della casa, spesso ri­tratta come una vecchia stizzita e rancorosa, sempre in guardia contro le giovani spose che le avevano “rubato” un figlio e che ora volevano anche rubarle il predominio domestico.

Ovviamente, siamo di fronte ad uno stereotipo, poiché erano numerose le suocere che trattavano le giovani spose come delle nuove figlie.

Ora le cose sono molto cambiate, ma in effetti il potere delle “razdore” sulla parte femminile delle famiglie era notevole: oltre alle scelte quotidiane di cui si è fatto cenno, era la padrona di ca­sa a tenere il gruzzolo domestico, ottenuto con la vendita delle uo­va, delle galline, dei pulcini e dei conigli al mercato, era lei che decideva l’acquisto della “roba da braccio”, cioè delle stoffe e del­la biancheria, così chiamate perché venivano misurate letteralmen­te a “braccio” dai “mercantini” a domicilio; ma era sempre la suo­cera a dare il nulla osta per qualche fidanzamento delle giovani ra­gazze di famiglia per eventuali matrimoni. Ed era sempre la “razdora”, che forse aveva cento occhi come Argo e cento braccia co­me Briareo, a vigilare sul comportamento e sulla moralità delle fi­glie e della sposa. Ma era anche la prima ad alzarsi e l’ultima ad andare a letto, a controllare la chiusura delle finestre e a spegnere le luci.

Oggi, stranamente, le più recenti indagini sociologiche afferma­no che il ruolo delle suocere fa bene al matrimonio dei figli, forse anche a causa del tempo che dedicano ai nipotini e alla cucina. Forse anche perché oggi i novelli sposi vanno a vivere da soli su­bito dopo il matrimonio.

Ma, a parte il problema della suocera, in genere i matrimoni di un tempo erano più stabili di quelli attuali, ma troppe cose sono cambiate per stabilire confronti impossibili. E poi è fuor dubbio che oggi la donna abbia raggiunto una maggiore maturità e soprat­tutto una migliore coscienza di sé.

Ma dato che questo non vuole essere un trattato di sociologia, diciamo che molte cose sono cambiate.

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Tratto da: Antiche tradizioni mirandolane

Autore Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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