Livio Bonfatti, mirandolese di nascita (1947), ha conseguito il diploma di geometra nel 1968. Ha svolto l’attività lavorativa presso l’Ufficio Tecnico del Comune di Mirandola. Dal 1985 al 1988 ha collaborato alle iniziative editoriali della casa editrice “Al Barnardon” mediante articoli e con impegni redazionali. Dal 1988 è socio della Associazione culturale Gruppo Studi Bassa Modenese e partecipa attivamente alla elaborazione di progetti editoriali. Contemporaneamente pubblica numerosi articoli sulla Rivista semestrale dell’ Associazione. Gli argomenti trattati spaziano dalla idrografia antica, alla geomorfologia storica, ovvero mettendo a fuoco quella che definiamo la “storia del paesaggio”, accompagnata da una puntuale ricerca archivistica. Il territorio preso in esame è quella parte di Pianura Padana che si distende dalla via Emilia sino al Po.
Principali pubblicazioni.
- Bonfatti, Mirandola sulla Secchia, in La Sgambada , 5ª edizione, Mirandola 1985.
- Calzolari- L. Bonfatti, Il Castello di Mirandola dagli inizi del Settecento alla fine dell’Ottocento: “descrizioni”, documentazione cartografica e trasformazioni planimetriche, in Il Castello dei Pico. Contributi allo studio delle trasformazioni del Castello di Mirandola dal XIV al XIX secolo, Mirandola 2005.
- Bonfatti, Manfredo del Fante. La Bassa Modenese sul finire del XII secolo, vista attraverso le vicende di un cavaliere medievale, «QBMo», 70 (2017).
La leva militare
Nel corso del mese di maggio (2024) è approdata alla Camera dei deputati una proposta di legge, preannunciata dal Ministro Matteo Salvini e illustrata nel disegno di legge, depositato dal deputato comasco della Lega Eugenio Zoffili, ove viene proposto l’”Istituzione del servizio militare e civile universale territoriale e delega al Governo per la sua disciplina”. La leva si basa su tre presupposti:
1) durata di sei mesi;
2) riguardante i ragazzi e ragazze tra i 18 e i 26 anni;
3) articolata su base regionale.
Quindi ad essere interessati sarebbero i nati entro il 1998, ai quali verrebbe data la possibilità di optare tra il servizio civile o militare.
Ne deriva un messaggio politico ed istituzionale, volto a rafforzare la formazione dei giovani con un periodo obbligatorio, in via paritaria per donne e uomini, al servizio della comunità nazionale. In linea al principio costituzionale espresso dall’articolo 52. I giovani hanno quindi il dovere di diventare cittadini attivi, consapevoli, più preparati, rinsaldando, al servizio della patria, l’identità e il senso di responsabilità. Tutto sommato “valori” nobili presenti anche in passato nella legge fondante il servizio di leva obbligatoria, “congelata” nel corso le 2005. D’altra parte cosa serviva spedire giovani siciliani o campani in caserme del nord Italia? O viceversa giovani lombardi o emiliani nelle caserme del sud della penisola? Ovvero consentire a giovani italiani di uscire dal proprio “paesello” per vivere in un mondo diverso e a loro sconosciuto.
Questo aspetto ha dominato anche il mio servizio di leva, svolto dal giugno 1969 al settembre 1970. Intanto con cartolina precetto venni mandato al BAR [battaglione addestramento reclute] di Barletta e inquadrato nella Brigata Pinerolo.Qualche mio commilitone mi illuse dicendomi:” Chi fa il CAR al sud, verrà mandato a svolgere i rimanenti mesi di leva, in una regione del nord Italia !”. Niente di più sbagliato!, In particolare per la Brigata Pinerolo, che aveva i propri effettivi distribuiti fra Bari ed Altamura, sempre in provincia di Bari.
Questo mescolamento, per tutta Italia, di giovani obbligati al servizio di leva, mi è apparso ancor più chiaro già dai primi giorni al BAR, quanto venni incaricato di compilare i fogli matricolari dei militari del 2° contingente del ’69. A Barletta arrivavano quindi giovani di tutte le regioni, che dichiaravano le più svariate attività occupazionali. Non era infrequente che giungessero sardi, quindi ben lontano dal luogo d’origine, impiegati nella pastorizia e non in possesso di alcun titolo di studio. Li ricordo perché a molti di loro, al momento della perquisizione, veniva requisito il coltello a serramanico, da loro ritenuto non uno strumento di offesa, ma bensì un arnese indispensabile per tagliare il pane, il formaggio, i salumi. Devo però sottolineare che gran parte di essi era pronta a migliorare, anche durante il servizio militare, il proprio stato conseguendo, diversi, la licenza elementare o, per alcuni altri, di ottenere la patente per la guida di mezzi pesanti.
Arrivato poi alla caserma d’artiglieria “M. Rossani” di Bari, mi fu chiesto di partecipare ad un corso di specializzazione. Era questa una opportunità valida per molti diplomati, di svolgere una mansione adatta ai vari tipi di diplomi. Per i periti vi erano corsi per guidare mezzi pesanti, allestire impianti elettrici, collegamenti radiotelefonici e così via. Nel mio caso, in quanto geometra, partecipai al corso di “specializzato al tiro”, nel quale si operava con strumenti geodetici e cartine topografiche, per definire il puntamento dei pezzi d’artiglieria. Altro pregiudizio che vorrei “sfatare” è che “si mangiasse male”. Certamente per tanti giovani abituati ai pranzi in famiglia e ad un menù che variava in ogni regione d’Italia, non era facile adattarsi ad un “rancio” militare. Preciso che le considerazioni che vi riporterò valgono sicuramente per la caserma “M. Rossani” e non certamente per altri ambiti miliare, che non ho conosciuto.
Dopo il ’68 qualche “sprazzo” di democrazia aveva fatto capolino anche nel mondo dei militari. Il Comandante della caserma, a fronte delle persistenti lamentele, in merito alla qualità del cibo somministrato ai soldati, aveva acconsentito che venisse nominata una “Commissione rancio”, con lo scopo di verificare, giorno per giorno, le caratteristiche degli alimenti che venivano acquistati. Venni quindi incaricato di accompagnare il maresciallo addetto alla cucina nel giro degli acquisti. Dovevo perciò verificare se il pane (il noto pane di Altamura) fosse cotto a puntino, che il macellaio fornisse tagli di carne di 1^, che la pasta fosse di marche conosciute. Quindi i pasti erano cucinati seguendo un menù settimanale che risultava variato a sufficienza. Ricordo ancora che nei giorni festivi era prevista una eccellente pasta al forno, con la passata di pomodoro e mozzarella che io, da buon emiliano, non ero abituato mangiare. L’unico appunto che mi sento di rilevare è che la cena solitamente risultava scarsa, anche se era sempre possibile richiedere una seconda razione. Ma il motivo mi venne spiegato dal maresciallo che così giustificò quella scelta. Alla sera i soldati andavano, per la maggior parte, in libera uscita e qui era d’abitudine acquistare “panzerotti” che venivano cucinati lungo le strade o in prossimità del porto. Quindi era meglio risparmiare sulla cena e concentrarsi sul pranzo.
Non vorrei però in questo modo “santificare” la leva militare, che presentava anche momenti di pericolo con vari incidenti che hanno coinvolto giovani delle varie armi. Però mi sento di mettere in evidenza che il servizio militare rappresentava un momento di distacco dalla famiglia, dal proprio paese, dal mondo dell’adolescenza, quindi l’opportunità di una “cesura” che favoriva anche il maturare in tanti giovani della consapevolezza di doversi avviare al lavoro o di formarsi una propria famiglia. Nel mio caso di interrompere l’università per non essere di peso ai miei familiari. Constato che ora, per i nostri figli, il periodo di convivenza familiare sembra non avere più termine. Il momento di certe scelte di vita viene continuamente rinviato. Con ciò non voglio dire di augurarmi il ripristino della leva militare per risolvere questo “inghippo” sociale, ma certamente occorre che il legislatore prenda atto di una realtà che non può risolversi lasciando “all’andazzo”, ma favorire l’uscita dalla famiglia con borse di studio o finanziamenti adeguati alla maggiore autonomia dei giovani.