La spoliazione del Palazzo Ducale di Mirandola nel 1716

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LA SPOLIAZIONE DEL PALAZZO DUCALE
DI MIRANDOLA NEL 1716

Mauro Calzolari

E’ noto che nel 1716 il Palazzo Ducale di Mirandola, ormai privo della sua funzione di sede del potere politico, venne spogliato della parte residua degli arredi – gli oggetti più preziosi erano già stati sottratti alcuni anni prima da Francesco Maria Pico -, che furono trasferiti nella Corte Arciducale di Mantova. Ora, nel presente contributo, si intendono ricostruire le diver­se fasi di questo avvenimento con l’apporto di fonti archivistiche inedite.

  1. Da residenza principesca a “orrida spelonca”

Il 10 maggio 1716 Achille Taccoli (circa 1654-1722), già da cinque anni governatore del ducato di Mirandola per incarico degli Estensi, succeduti ai Pico nel possesso del feudo imperiale, informa il duca Rinaldo d’Este – alla guida del suo stato dal 1694 al 1737 – che da Mantova è arrivato l’ordine del cambio del comandante e della guarnigione tedesca di stanza in città. Egli raccoglie la voce che il nuovo comandante possa essere il marchese cavaliere Antonio Botta Adorno ed esprime il dubbio «che siamo per star peg­gio col successore italiano atedescato e che per quello che sente è giovine bizzaro, et assai alto, onde converrà di prepararsi a nuovi disturbi», poiché questi ufficiali vengono «come in casa loro, se ben d’altri».

Il presidio è previsto nell’atto di cessione agli Estensi – occorrerà atten­dere fino al 1733 perché venga ritirato dalla piazzaforte – e, oltre a gravare con le spese di mantenimento sulla popolazione mirandolese, interferisce, in varie circostanze, nel governo della città. A ciò si aggiunga il ruolo pre­minente e talora ingombrante della vicina Mantova, centro ora elevato ad arciducato ereditario della casa d’Austria ed evidente caposaldo militare del dominio imperiale in Italia.

Come è noto, anche se si tratta di aspetti anco­ra da studiare in modo approfondito e sistematico, i primi anni dell’ammi­nistrazione estense a Mirandola devono superare l’iniziale ostilità dei nuovi sudditi, e le difficoltà della crisi economica, aggravate dalla recente guerra di successione spagnola, e mettono più volte alla prova il rappresentante del potere ducale, costretto – per quel che si può vedere dall’esame della corrispondenza – a muoversi in modo prudente ed equilibrato, mediando le esigenze locali.

Finalmente il 18 maggio, dopo l’avvicendamento della compagnia di soldati, Botta Adorno giunge a Mirandola, accolto dal precedente comandante, che a sua volta lascia la città, e da Taccoli, che si va a congratulare con lui tro­vandolo «sostenuto d’assai, giovine d’anni 26 circa» (in effetti era nato intorno al 1688 a Pavia, dove morirà nel 1774).

In un successivo incontro, l’ufficiale assicura il governatore «che per li puochi mesi che dovrà star qui vuole che la faciamo di buona armonia». Ma intanto si fa subito portavoce della necessità e dell’urgenza di lavori rivolti a garantire la sicurezza della piazzaforte di Mi­randola, lavori che sono peraltro sollecitati dalla Corte Imperiale di Vienna, che non manca di investire del problema sia il Duca di Modena sia il governa­tore asburgico di Mantova, il principe Filippo d’Assia-Darmstadt.

Dotato di un carattere rigido ed impulsivo, egli entra ben presto in contrasto con Taccoli e con il Duca di Modena, che non è in grado o non ha intenzione di aggiungere nuovi oneri al bilancio del ducato da poco acquisito. Inoltre comincia a inviare a Mantova canne e spingarde, togliendole dal magazzino di Mirandola: fatto che viene ritenuto in contraddizione rispetto alla volontà conclamata di consolidare quest ultima fortezza.

Il 10 giugno ritorna da Mantova con una nuova richiesta, vuole che gli si consegni l’inventario aggiornato dei mobili del Palazzo Ducale di Mirando­la (redatto nel 1714, dopo lo scoppio del Torrione) per inviarlo al principe Darmstadt. Il giorno dopo si fa mostrare gli arredi esistenti nel castello dal guardarobiere Giuseppe Maria Maffei, che li aveva in custodia fin dal 1708 su incarico del conte Giovan Battista di Castelbarco, commissario imperiale plenipotenziario (nell’occasione si era compilato un primo inventario, il cosiddetto “Inventario cesareo”) .

La spiegazione di ciò è fornita dal resoconto di Maffei al Duca: «La domenica di Pentecoste, in occasione che il Marchese Comandante pransò col Conte Governatore, questi mandò a chiamare il sotto mio Guardarobbiere, e le ordinò che aprisse la Galleria, ove sono tutti li mobili descritti nell’ul­timo Inventario, a riserva di quelli che sono nel Casino della Fossa, e nel­l’Appartamento ove qui habita il detto Conte Governatore, e v’introdusse il Comandante, e mi asserì il sottoguardarobbiere che il Conte Governatore disse al Comandante che queste sono tutte robe sotto il comando dell Am­ministrazione Cesarea di Milano, la quale punto se ne ricorda. E visitò tutto da un capo all’altro in compagnia di detto Comandante, il quale ritornato poi hieri da Mantova, questa mattina mi ha fatto chiamare e mi ha doman­dato copia dell’ultimo inventario, che fu fatto per ordine di V.A.S. doppo le rovine del Torione per quella somma clemenza che l’ A.V.S. si degna havere per ogni mia cauzione maggiore e sicurezza. Io che non ho altro che un solo originale le ho risposto non potermene privare, et essere impossibile il poterne fare una copia prima che parta la posta come egli desiderava, per essere assai voluminoso». E osserva, «come che pur troppo si può vedere, che questa novità sij suscitata da lui medesimo, già che nessun altro Coman­dante doppo il dominio di V.A.S. ha mai veduto, né messo mano in questo interesse, non so cosa mi possa sperare, e però spedisco a posta il mio servitore per avanzare questa notizia all’A.V.S. ed assieme supplicarla, come ben fò humilmente, di quel benignissimo patrocinio del quale con tanta clemenza si è sempre degnata d’assicurarmi».

Il Duca ordina immediatamente che Maffei non si privi dell’inventario originale, ma che ne produca una copia, ; che nel riscontro da eseguire si tengano presenti, a scarico di Maffei, gli arredi distrutti dallo scoppio del Torrione, quelli asportati dal Conte di Castelbarco, e l’uso fattone da tanti ufficiali e anche dallo stesso Taccoli, che do­vrà sottoscrivere l’inventario particolare di ciò che gode a Mirandola e alla Fossa;  che infine si dia a Maffei l’appoggio che richiede. Inoltre ricorda al suo Governatore «quello che abbiamo detto sempre, che per conto no­stro non pretendiamo niente ne suddetti mobili, né vogliamo ingerircene punto, mentre non furono compresi nel contratto del nostro acquisto della Mirandola, e così essendo cosa di Sua Maestà, lasciamo che ne dispongano pienamente i suoi Ministri». 

In questa fase della vicenda, la Corte Estense riconosce dunque i diritti dell’Amministrazione Cesarea sugli arredi del Palazzo dei Pico ed è interessata solo ad avallare la correttezza dell’operato di un proprio funzionario, il guardarobiere Maffei.

In effetti, nel contratto di acquisto del feudo di Mirandola non si fa parola del cospicuo patrimonio di mobili e quadri, che si trovavano nella residenza pichense, e che quindi restano di proprietà del Fisco imperiale, secondo la consistenza dichiarata nell’inventario del 1708.

Il 12 giugno Maffei riferisce che, per ammissione di Botta Adorno, l’ispiratore della sua richiesta è il Principe di Darmstadt, «al quale doveva spedire molti di questi mobili per suo serviggio in occasione della venuta del S.r Principe Elettorale di Baviera», prevista per la fine di luglio o i primi di agosto.

A questo punto, è necessario spiegare che Darmstadt, giunto a Manto­va nel dicembre 1714, vi risiederà come governatore fino al 1735. Come hanno evidenziato le ricerche di Cesare Mozzarelli, la sua azione politica si pone in sostanziale continuità con il precedente assetto istituzionale e so­ciale del piccolo stato, garantendo ordine e tranquillità in un paese che per Vienna aveva soltanto una rilevanza militare. Egli riorganizza, per quan­to possibile, un «simulacro di corte», anche con interventi sugli edifici di rappresentanza più legati alla funzione di capitale. In aderenza con questa linea si giustifica il progetto di riarredo di alcuni settori del Palazzo Ducale già dei Gonzaga, per garantire sufficiente decoro alla sua residenza ufficiale, anche in occasione della visita di ospiti illustri. E Giovanni Rodella giusta­mente sottolinea come il consistente fondo di quadri e mobili di Mirandola, avocati alla Camera imperiale, supplisse a questa necessità.   Ora si può aggiungere che l’idea di questo trasferimento nasce dall’in­contro tra lo zelo di Botta Adorno e le esigenze di Darmstadt, ed è forse il primo che la suggerisce al secondo quando viene a sapere che la loro proprietà è dell’imperatore. L’incauto informatore, per quanto si è potuto appurare, è Taccoli, durante un pranzo in castello, o forse Maffei, se è vero che avrebbe mostrato, di propria iniziativa, a tante persone, e anche al comandante, ciò che era stato affidato alla sua custodia.

In proposito, Botta Adorno ha già un piano molto preciso: «che, venen­do a lui commissione de mobili», — scrive Maffei — «mi disse hieri, presente il figlio del Conte Governatore, di voler lasciare questo Pailazzo Ducale con le sole nude muraglie, havendo di più detto che pensa sino di levare li quadroni che sono di antichi pittori dalle muraglie e soffitti ove sono incastrati. Io però le risposi francamente che niun dovere né giustizia il comportarebbe, perché erano tutte cose proprie di V.A.S. pagate con suo denaro in quella guisa che haveva fatto le finestre, gli usci e ferramenti delle medesime muraglie, e che le cose che inherent rei sono del compratore».  Il 13 giugno è pronta una copia dell’inventario del 1714, «di 89 faciate di carta grande scritta». Botta Adorno paga le spese dello scritturale e la spedisce a Mantova, restando in attesa di ordini dal Principe di Darmstadt; inoltre vuole visitare il Casino della Fossa per rendersi conto degli arredi concessi in uso dalla Deputazione Cesarea di Milano a Taccoli, che si dichiara pronto in qualunque momento a restituirli.  II Governatore osserva che perlomeno questa richiesta «è agiustata con tutta quiete»! Il duca lo invita però a sottoscrivere gli elenchi a scarico del Maffei, che era il custode dei mobili, il quale è invece in apprensione per il rendiconto che deve dare, e sollecita un’adeguata assistenza perché non si faccia torto alla sua «honoratezza e fedeltà». 

Dopo aver esaminato l’inventario del 1714 (che abbiamo definito “estense”), Darmstadt chiede chiarimenti a Botta Adorno sul fatto che il documento sia eseguito a nome dell’Altezza Serenissima di Modena. Gli viene subito chiarito che, in seguito allo scoppio del Torrione, Taccoli ave­va richiesto al Duca che si facesse una nuova ricognizione degli arredi «per poterne render conto un giorno alla Maestà dell’Imperatore», e che non c’erano ostacoli per la loro consegna.

Continuano intanto le «violenti stravaganze» del comandate Botta Adorno, riguardo al quale giungono da Modena le seguenti istruzioni: di non cedere alle sue pretese insolite e pregiudizievoli, specie riguardo alle opere da eseguire alle fortificazioni di Mirandola, «di lasciarlo dire e fare quanto di violento gli suggerisca il suo naturale», dato che si confida poi nella giustizia dell’Imperatore. «In ristretto – esorta il Duca – V. S. senza provocarlo mai si contenga con ogni moderazione e prudenza, ma però sostenga sempre con petto e decoro il nostro punto, e ci tenga avvisati di tutto puntualmente». Di fronte alle insistenze del comandante, alle sue minacce di usare la forza e di richiedere l’intervento di Mantova, il governatore di Mirandola confes­sa al duca Rinaldo che «è un gran tormento aver a stare a continua battuta di cervelli sì stravaganti».

Darmstadt tuttavia difende l’operato del Comandante, che forse si è lasciato prendere da «troppo ardore» e da «maggior libertà di quello li conve­niva», ma che è pur sempre mosso dall’intento di ben servire l’Imperatore, anche perché condivide la necessità improrogabile delle riparazioni alle mura. E nell’assicurare il suo appoggio a Botta Adorno, lo avvisa peraltro dell’arrivo, ai primi di luglio, di un funzionario, con due subordinati, della Scalcheria Arciducale di Mantova, l’ufficio che amministrava la corte, che aveva la sua sede principale nel Palazzo già dei Gonzaga. Essi hanno l’ordine di levare tutti i mobili che erano della Casa Pico.

A questa notizia il Duca, da Modena, chiarisce a Taccoli che, «dopo dunque di essersi fatte qui le riflessioni che merita un tale interesse», si è stabilito che, nel caso in cui venisse avanzata la richiesta di prelevare i mobili, «non si muova nulla finché non siamo stati intesi e in Mantova, e in Vienna ancora bisognando». La nuova e diversa posizione della Corte Estense viene forse suggerita dal consigliere Ghibellini, che crede che nel­l’acquisto della Mirandola vi siano compresi «tutti e singoli i beni confiscati, alla riserva del cannone» e che la questione sia da studiare con l’esame del­l’atto di compra.

Il 6 luglio Botta Adorno e Carlo Bertazzone, Soprintendente alla Scal­cheria Arciducale, giunto in città il giorno prima, sono nella Galleria Nuova in castello, adibita a guardaroba, e stanno facendo la nota dei mobili migliori («due spechii, alcuni scrigni, tavolini, cadregami, tapeti, et arazzi», e altro ancora), che si pretendono per arredare il Palazzo Ducale di Man­tova in occasione del passaggio del Principe elettore di Baviera, annunciata per il 24 luglio. Il loro lavoro è interrotto dall’improvviso arrivo di Taccoli, che comunica gli ordini del Duca, portati di persona da Maffei, di non togliere nulla senza il parere di Darmstadt, con sorpresa del comandante Botta Adorno, il quale spedisce subito una staffetta per avere nuove istru­zioni.

Nella sua relazione al Duca, Taccoli osserva che fino a quel momento è esclusa da ogni pretesa la quadreria affissa ai muri dell’Appartamento Ducale: «che mai credo sarà!»; si lamenta della condotta di Maffei, che ha mostrato i mobili a tutti, e da ultimo a Botta Adorno, dicendo che è «robba dell’Imperatore» affidata alla sua custodia e invogliando ogni ufficiale a volerne. Non nasconde infine la sorpresa suscitata dai nuovi inattesi ordini da Modena, su una linea completamente diversa dalle precedenti istruzioni.

Lo sviluppo della situazione non sfugge a Bertazzone, che compie la seguente analisi dei fatti: «Più inspezioni, per quanto mi è riuscito di penetra­re, anno dato il moto a questa improvisa risoluzione della Corte di Modena. Primieramente lo spoglio d’alcune camere vestite di gran quadri formati per le stesse con tutta la proprietà, da cui levati, verrebbero a difformarsi, e come che in parte veggonsi incastrati e parte no, pare disputarsi l’appar­tenenza, se di Sua Maestà o di Sua Altezza. Secondariamente il ricorso del Maffei troppo innamorato degli stessi mobili e timoroso di qualche sottile sindicato, à cercato d insinuare a ministri di Modena alcune impertinenze che impediscono l’effetto della condotta. In terzo luogo mi riesce di subo­dorare che il S.r Duca di Modena pretende non competersi quest’atto al S.r Principe Darmstadt come non proveduto da Sua Maestà del carattere di plenipotenziario nella maniera competevasi al Conte di Castelbarco, di cui era munito. Insomma qui vedesi straordinaria passione; e quando S.A.S. il S.r Principe Governatore non risolva absolute, restarà privo delli più belli pezzi capaci di dare tutta la grazia a codesto Palazzo, e particolarmente nel­la prossima occasione del passaggio del S.r Principe Elettorale di Baviera». E assicura di «aver ritrovato ciò che mai e prima aveva creduto». Bertazzone quindi sprona Darmstadt ad una repentina risoluzione, se non ad un colpo di mano, se vuole avere quegli arredi.

Anche Botta Adorno sospetta che gli ostacoli siano frapposti da Maffei, che vorrebbe ritardare il momento di render conto «del forse cativo uso fatto di tante robbe incontrastabilmente di raggione di Sua Maestà Cesarea Cattolica», non nasconde che sarebbe pronto ad agire con la forza, e suggerisce a Darmstadt di intendersi con Modena, in quanto il Governatore Taccoli aveva più volte assicurato che il Duca conveniva, per quei mobili, sulla proprietà dell’imperatore.

L’8 luglio intanto un inviato estense si reca a Mantova e, oltre alla ver­tenza delle acque del Reno (che coinvolgeva Bolognesi, Mantovani e Mo­denesi], entra nell’affare dei mobili. Darmstadt giustifica le sue pretese col fatto di avere l’assenso del Duca, come assicurato da Taccoli e da Botta Adorno; e conviene di tralasciare quegli arredi di dubbia pertinenza per i quali si attenderà poi la decisione della Corte di Vienna, già avvertita di ciò – come egli dichiara – per il tramite del generale barone di Sichingen.

Il 9 luglio il Duca comunica la decisione al Governatore, precisando che resteranno a Mirandola tutti i mobili necessari per garantire le rendite delle Finanze ducali. E precisa: «Per quegli che si possono lasciar levare, e condur­re a Mantova intendiamo addobbi di stanze come arazzi, e di altra sorte se ve ne sono, specchj, sedie, tavolini, letti, e simili. Per quegli poi che devono restare, e sopra de quali crediamo di avere delle ragioni e pretensioni, sono le pitture tutte affisse ai muri e ai soffitti buone o ordinarie che siano, libri, scritture, bottami, caldaie, ed ogn’altra sorte di utensigli che servono o pos­sono servire alle rendite nostre camerali, sopra le quali cose tutte accorda lo stesso Sig.r Prencipe di Darmstadt, che si abbiano poi a sentire le dichiara­zioni di Vienna, ove si faranno esaminare le nostre ragioni». E dispone che la faccenda proceda «con reciproca soddisfazione», anche se si lamenta «del mal modo usato da codesto Comandante». Aggiunge poi di non poter concedere i numerosi carri che serviranno per il trasporto, perché questo sarebbe «un aggravio troppo grande al paese», e in particolare ai «poveri contadini» mirandolesi; né di ritenere onorevole la prospettata vendita agli ebrei dei mobili ordinari rimasti, che potrebbero essere lasciati a titolo di rimborso spese per la custodia fatta in tanti anni e per averne dissotterrato una parte sotto le rovine del Torrione.

Il 10 luglio Bertazzone riferisce che, nonostante gli ordini del Duca, «si va fraponendo di quando in quando qualche difficoltà, che si va superan­do con destrezza da questo S.r Cavaliere Comandante, ed io fra i discorsi varj costantemente incasso il più prezioso e occorrevole al caso presente di codesta Corte; ed Ella averà il piacere di rimirarlo con maraviglia e S.A.S. la gloria di formare un quartiere a S.A. il S.r Principe Elettorale di Baviera forse forse se non superiore, almeno eguale a quanti gli saranno dalle corti d’Italia stati preparati, rispettivamente ad alcune pezze assai rare. Molto vi restarà, per cui qui converrà a suo tempo ritornare, che sarà dopo il passaggio dell’accennato S.r Principe, e riuscirà vantaggioso al servizio di S. M. l’Augustissimo Padrone una ulteriore diligenza, con cui (si crede) usciranno dalle tenebre altri capi non inferiori di valore agli già ritrovati. Mi creda che molto devesi alla cognizione, prudenza e direzione di questo S.r Capitano Comandante, di cui abbastanza da me non si può formare il dovuto elogio che si lascia all’opera stessa, quando sarà sotto l’occhio di S.A.S. e de’ mini­stri della Camera Arciducale».

L’ 11 luglio arrivano 20 carri dal Mantovano e trovano «già il loro caricho che in conclusione è il bello e il buono», e saranno a Revere il giorno dopo per l’imbarco su almeno 4 barconi grandi e 2 piccoli di riserva. In questo primo convoglio Botta Adorno inserisce anche la Libreria, che non gli viene rifiutata (nonostante qualche suo timore), «essendo al suo credere un mobi­le in suo gienere di qualche qualità considerabile».

Il 12 luglio Botta Adorno comunica che ora le pretese di Modena si restringono ad una «pietosa carità» tutta fondata sul buon animo del Principe di Darmstadt e richiede di nuovo l’assistenza di Bertazzone «per poter di­spore una grossa condotta di robbe che se non tanto preciose saranno tanto più necesarie in una corte sì grande come quella di Mantova». II convoglio sarà in viaggio il 16 luglio; in Palazzo a Mirandola ora restano cornici, una quarantina di quadri, tra cui «certi picoli quadretti asai buoni», «una pro­visione per chiesa», stagni e rami da cucina, livree e biancheria, bottami ed «una quantità di rottami di legno e ferro che bisognerà vendere per vedere di pagare le spese che si sono e si stanno facendo».

Maffei il 18 luglio, nello spedire a Modena «l’inventario de mobili sin hora trasportati a Mantova», confida al Duca che il Comandante «con la copia dell’inventario nuovo alla mano principiò a farsi dar conto di tutti e singoli li mobili in esso descritti: a fare questo riscontro si è spesa tutta la presente settimana, ed egli non ha voluto sparmiare alcuna fatica in servire il suo Principe in questo affare, mentre con le proprie mani ha incassato molte cose di valore nel trasporto fatto fare a Mantova sopra 25 carra in due volte colà spediti, quale formalità ha dato molto nell’ochio qui a tutti»; «hieri poi doppo haver fatto spogliare affatto da suoi proprj soldati l’Apartamento Ducale ove habita il Conte Governatore d’ogni sorta di mobili, e trasportati tutti in Guardaroba, mi ordinò di consegnarli le chiavi, come feci, e subito vi pose una sentinella di sua guardia, dicendo che haveva or­dine di prenderne così l’attual possesso»; nel castello non sarebbe dovuto rimanere neppure una sedia, e lo stesso avrebbe fatto dei mobili del Casino della Fossa, non appena fosse venuta acqua in Secchia. L’operazione doveva poi concludersi con il rilascio di una ricevuta da parte di Carlo Bertazzone, a nome della Camera Imperiale, e con un resoconto dettagliato dei mobili mancanti o consumati. Aggiunge poi che il governatore «è stato due volte in questa settimana in città e sempre in lunghe conferenze di confidenza col Comandante», e che corre voce che voglia acquistare parte dei mobili levati dal suo appartamento e dal Casino della Fossa.

Da parte sua, Taccoli precisa che Botta Adorno, dopo aver tolto il meglio degli arredi dell’Appartamento Ducale, abitato da lui, verrà a vuotare pure alcuni armadi pieni di biancheria e di panni, e lo stesso si sta facendo alla Fossa, di modo che egli si trova spogliato improvvisamente di tutto. Per questo motivo, ottiene il permesso di recarsi, ai primi di agosto, a Reggio per prelevare dalla sua casa alcuni arredi da condurre a Mirandola «all’uso di questa sua abitacione spoliata di tutto il mobile».

Arrivano poi alcuni ebrei da Mantova e da Reggio, ai quali si vendono oggetti e arredi che sono portati via sopra due carri. A questo punto, il Duca rinuncia a ogni pretesa anche sui bottami, sentendo che «il trasporto de mobili della Mirandola segue per ordine preciso di Sua Maestà»; anche il carozzone nero di Casa Pico viene trasferito a Mantova alla fine di luglio, con una scorta.

Il 5 agosto 1716 arriva finalmente a Mantova Carlo Alberto principe elettore di Baviera, e «fu alloggiato negli arciducali appartamenti, e durante la sua permanenza di quattro giorni servito con vari trattenimenti di serenate musi­cali, di recite teatrali, veglie e danze»; riparte poi il 10 agosto per Brescia: e si deve immaginare che in questa occasione una scelta degli arredi mirandolesi abbia fatto bella mostra nel Palazzo Ducale già dei Gonzaga.

Intanto continua il prelievo dei mobili: il 30 agosto è di nuovo a Miran­dola Bertazzone e organizza un ulteriore convoglio con carri che arrivano da San Benedetto Po.

Il 28 settembre 1716, alla sera, giunge a Mirandola Darmstadt, che pren­de alloggio presso Botta Adorno. Il giorno dopo ispeziona le fortificazioni e  castello. Taccoli fa presente i lavori eseguiti e quelli che sono previsti «col respiro che e necessario, non a capriccio di chi vorrebbe delle cose o trop­po grandi, o superflue, per le quali non basterebbero le rendite tutte della Mirandola». La visita si conclude con festa da ballo e ritorno, la mattina suc­cessiva a Mantova. Il Principe poi riferirà a Vienna che Mirandola è una piazza dove ci si può ben difendere e che è un peccato che vada in rovina perchè la si può riparare con poca spesa, ed esterna le sue perplessità circa . tempi di esecuzione dei lavori necessari.

Il Duca vorrebbe sapere quali siano i «sentimenti» del Principe su que­sto affare, nell’intento – egli dichiara – sempre di migliorare le difese della città e, nel contempo, manda Maffei per avere un’autenticazione della ricevuta rilasciatagli «sopra i mobili ch’erano prima sotto la di lui custodia e che secondo la mente di Sua Maestà (…) sono stati levati ed asportati da essa Mirandola»; ma si risponde che è già bastante la ricevuta del Bertazzo­ne in quanto funzionario imperiale.

Il successivo 15 ottobre Taccoli avvisa che l’usciere del suo appartamento nel castello di Mirandola è stato invitato dal comandante Botta Adorno ad aprire «ad un pittore spedito da Mantova a levare li quadri grandi tutti nelle stanze per portarli a Mantova per ordine di quel Sig.re Prencipe Governatore per quanto gli ha detto». L’usciere sostiene di non avere le chiavi e avverte Taccoli. Avendo però presente i precedenti ordini ducali, «che detti quadri non si possino di ragione levare come che fissi al muro, e destinati all’uso perpetuo di dette stanze cui servono d’ornamento e sono veramente fatti per esse stanze, et adatabili ad esse con corniciamento che li cinge e li rinserra nel muro inamovibilmente, e senza che se ne faccia rottura e si difformino le stanze tanto all’intorno, come che vengono a poggiare su l’al­tezza degli uscij, sì come nel suffitto che levato, renderebbe le stanze oride affato», il governatore si oppone «a tale indebito spolio e sfiguramento del­l’Appartamento Ducale unicamente restato in piedi, sembrandoci questa una troppo dispettosa pretesa e procedura che mai potrà credere venga dal S.re Prencipe stesso, ma sollecitata da chi appassionatamente e pazzamente operando tenta di troppo l’altrui sofferenza». La notizia è confermata an­che da Maffei, che precisa trattarsi dei grandi quadri affissi «alle tre camere dell’Apartamento Ducale, ciò è l’Anticamera de Cavaglieri, la Camera del­l’Udienza detta degli Giganti, e la Camera Rossa».

Nel frattempo vengono tolti «gli assoni in buona somma qui fatti di noce che servire dovevano alla rimontatura dell’artiglieria», e si consegnano ad ebrei di Mantova «tutte le ferramenta dell’Arsenale, canne tutte smontate da moschetto, fucili, e persino sferrate le ruote da canone, tutto per vender­ne il ferro alla peggio, di modo che si pensi a lasciare questa fortezza desola­ta affatto, e spoliata di tutto vergognosamente, e doppo lo trasporto di tutto il mobile di città e del Casino, vasi, e tutto che più è piaciuto – commenta Taccoli -, il volersi anco difformare così malamente le stanze sembra un troppo ardimentoso asunto».

Intanto si presenta a Taccoli il pittore Pietro Fabbri «per levare li noti gran quadri, rotolarli e ridurli capaci di trasporto dalla Mirandola a Mantova senza pericolo, premendo assai a S. A. S. il Sig.re Prencipe Governatore la loro salvezza per valersene a finire alcune camere dell’Appartamento detto di Madama, quello appunto che ha servito al Sig.r Prencipe Elettorale di Baviera»; e si invita ad assisterlo, dichiarandosi disponibili al rimborso delle spese incontrate.

Alla Corte di Modena sembra impossibile che Darmstadt abbia dato un simile ordine, in quanto fin dall’inizio della vicenda aveva convenuto che per gli arredi dubbi si sentisse il parere di Vienna: ed era proprio il caso di queste pitture. Il 17 ottobre si spediscono lettere a Mantova perché non venga commesso «il sì notabile torto di sfasciare anche quel poco di fabriche rimasto per divina provvidenza intatto nelle rovine del resto»,  e si invita Botta Adorno, che era pronto ad asportare i quadri, ad attendere la risposta, che non arriva. Taccoli sospetta che si tratti di un ritardo «artificioso» per dar tempo al comandante di insistere nelle sue richieste. Unicamente di fronte alla minaccia di un ricorso all’imperatore, l’ufficiale dice di accontentarsi «di lasciar solo vedere li quadri al pittore mandato», il quale ammette, davanti a testimoni, che, se si rimuovono le pitture, le stanze risulteranno inabitabili.

La risposta di Darmstadt conferma la pretesa delle pitture grandi del­le stanze dell’Appartamento Ducale, «come che le medesime si trovano puramente ammovibili e colle sue cornici di legno, potendosi levare senza deturpare o guastar nulla, essendo mobili di ragione dell’Augustissimo Padrone e dell’istessa natura di quelli già qui ricevuti, de’ quali non può né deve prenderne arbitrio senza un preciso commandamento della Maestà Sua»; non nega il ricorso alla Maestà Cesarea, dichiarandosi sempre pronto a rimandarle qualora fossero riconosciute le ragioni dell’Estense. A questo punto, di fronte a una posizione così perentoria, il duca Rinaldo è costretto a dare il suo consenso, ma ordina a Taccoli di fare «le più forti proteste con­tro questa violenza, e contro la negativa del tempo per fare il ricorso, che si farà ad ogni modo, alla maestà dell’Imperadore».

Il 21 ottobre avviene dunque lo stacco dei quadri delle tre stanze dell’Appartamento Ducale, nonostante le opposizioni verbali di Taccoli, che ci ha lasciato il resoconto dell’episodio. Botta Adorno «venuto questa mattina di buon ora in castello ha detto di voler cominciare a far lavorare avendo seco il pittore, e falegnami a tal fine, e doppo d’aver lui detto tutto che la colera mia m’ha suggerito, e che restavo amirato come ne meno si dasse tempo ad intendere ciò che le lettere responsive di Mantova avessero portato, ha posto mano alla lettera, dice ieri sera arivata per un terzo ordine, in cui se le dice che già la mente di S. M. Cesarea la teneva il S.re Prencipe Darmsta­dt, e però doversi eseguire. E vedendo che a niente gioccavano le reppliche, l’instanze, e le proteste, le ho voltate le spalle e, rimmessomi alla mia stanza pieno di veleno tutto, ha cominciato a far levare li quadri della prima stanza che dà l’ingresso al detto Appartamento, e fatte spicare le prime quatro pit­ture trovate appese con ochietti di ferro ne telari de quadri, e con guercij al muro (…) lasciati grezzi e senza meno la stabilitura al di sotto, lo che quanto defformi la stanza se lo può figurare l’alta cognicione di V.A.S. più di quello possa io dirle». Lo spoglio delle pitture laterali si conclude la mattina del 23 ottobre. Il Comandante vi ha fatto rimettere, forse «per emendare l’eccesso del male o per derisione maggiore», «tutti li corniciami che davano lato a quadri, e telari delle pitture che, così lasciati, coll’essere senza stabilitura le muraglie, resta così deturpato l’Appartamento Ducale, defformato, et orrido che può dirsi guasto affatto ». Le tele ai soffitti invece per il momento restano al loro posto, e non è noto che fine abbiano fatto. In una successiva lettera Taccoli suppone che il non aver concesso tempo per sentire Vienna sia la pro­va che non vi è «l’ordine che si millanta di S. M. Cesarea», e «che, se questo vi è, non deve importare il ritardo d’un mese o due».

Il Duca esige che venga stesa una «relazione autentica» del sopralluogo eseguito da persone esperte «per provare la violenza che anno dovuto fare in strappare le suddette pitture, e la deformità grande in cui restano ora le stanze», «e le rotture tutte che saranno seguite», e che si compili pure una nota degli attrezzi militari trasportati a Mantova e di quelli rimasti. Le prime tele sono piegate con cura «in una cassetta ben strette et unite», le altre in rotoli lunghi come le stesse, «senza carta in mezo nè altro, onde se vanno salve a Mantova è molto». In tutto si tratta di dodici grandi quadri, quattro per stanza, oltre che di quattordici ritratti al naturale di personaggi di casa Pico ed Este, posti nella cosiddetta Camera dei Ritratti: opere delle quali allega la descrizione, che però non si è rintracciata.

A questo punto, dopo la sottrazione delle tele, del piombo liquefatto per lo scoppio del Torrione (per un totale di pesi 2030) e dei ferramenti dell’arsenale, rimangono solo alcuni bottami, che saranno poi venduti assieme ad altri mobili di poco valore, e così si può dire – afferma Taccoli – che non vi sia più nulla da levare. 

Di tutte queste operazioni possediamo un preciso rendiconto da parte di Maffei, Bertazzone e Darmstadt: dal primo inventario dei mobili conse­gnati il 10 luglio 1716 ai successivi elenchi di oggetti venduti, ad un catalo­go alfabetico degli arredi custoditi a Mantova, ai diversi oneri sostenuti. Veniamo così a sapere che le spese di imballo e trasporto al 30 settembre ammontano a Lire di Mantova 3959 e soldi 18, senza tenere conto della fornitura gratuita dei carriaggi, e che il prelievo dei quadri grandi, in otto­bre, costa Lire di Mantova 731 e soldi 5.69

La spoliazione del Palazzo Ducale è registrata anche dalla storiografia mirandolese, attenta a seguire questo fatto che suscita un certo scalpore in città, dove sono ancora molte le simpatie per Casa Pico. Una Cronaca anonima del Settecento precisa che tra l’11 luglio e il 10 ottobre sono condotti a Mantova 48 carri di mobili e arredi e che altri vengono recuperati in case di privati (dello stesso Giuseppe Maffei, dell’Uditore Lodovico Piccinini e dell’abitazione solita dei medici).

Il 10 novembre si ha di nuovo l’avvicendamento della guarnigione tedesca, e con essa parte Botta Adorno, «che fino agl’ultimi momenti non cessava di conservare e di far conoscere sempre il suo mal’animo». E il Duca, tirando un sospiro di sollievo, si augura che «finito lo spoglio fatto seguire da lui, non si abbia più da sentir a parlare né de soffitti, né d’altro, e dopo un continuo travaglio di sei mesi, si abbia a godere un poco di quiete, se sarà vero» (ma purtroppo anche con il nuovo comandante vi saranno del­le divergenze, che si spera di risolvere tramite un accordo con Darmstadt, da cui dipende il distaccamento di Mirandola). Infine ricorda a Taccoli che «quanto ai mobili e pitture spedite a Mantova, avendo V. S. fatte le sue proteste non vediamo che per adesso si possa far altro, pensando Noi al rimanente circa il farci sentire a Vienna».

2. “Il farci sentire a Vienna”

Nel 1716 gli interessi estensi presso la Corte Imperiale di Vienna sono sostenuti dal ministro residente conte Orazio Guicciardi e da due inviati straordinari, il conte Carlo Antonio Giannini e il conte Agostino Soragna.

Dalla lettura della loro corrispondenza con Modena si riesce a ricostruire la linea seguita dal duca Rinaldo nel ricorso all’autorità imperiale riguardo agli arredi dei Pico. Occorre però precisare che in quel momento si stavano cercando appoggi per altri affari certamente più importanti come, ad esempio, la controversia per le acque del Reno, i pretesi diritti su Comacchio o le mire su Parma e Piacenza.

Già il 21 luglio 1716 Giannini, nella capitale austriaca da oltre un de­cennio e pratico del “clima” di corte, consiglia al Duca di non avviare alcuna pratica a Vienna sulla spoliazione del Palazzo Ducale di Mirandola, «senza una indispensabile necessità, anche perché tra questi, o sian cameralisti o bancalisti, non mancano zelanti che d’una mosca fanno subito un elefante»; il pericolo è che diventi un affare «di stato» e consiglia «che di continuato concerto col Principe di Darmstadt, giaché s’è data la porzione di Cesa­re ch’era creduta di Cesare, resti l’altra qual’é all’A. V. Ser.ma nelle sue mani». II 14 ottobre annuncia che alla fine del mese il «capriccioso» Botta Adorno «sgombrarà il paese, rendendosi al suo Reggimento». II 28 otto­bre Soragna ha comunque già illustrato la questione all’imperatrice Amalia, cognata del Duca, «facendole vedere quanto disdica all’imperatore il far levare dalla Mirandola quattro strazzi di mobili quasi che Sua Maestà sia bisognoso di queste bagatelle», e come sia «vergognoso» l’intento di Botta Adorno di togliere anche le pitture affisse al muro.

In questa fase della vicenda il Duca vorrebbe ottenere un ordine sospen­sivo delle richieste di Botta Adorno sui quadri affissi ai muri, fin tanto che non si siano esaminate le sue ragioni, e cioè «che si faccia vedere che quelle pitture seguono e sono annesse al fondo», ossia agli immobili compresi nel­l’acquisto di Mirandola. Giannini farà le pratiche presso la Cancelleria di Corte, preparando «un foglio di memoria», che servirà di traccia per l’auspi­cato Rescritto Cesareo; invece Guicciardi, su consiglio di Soragna e del­l’influente consigliere imperiale Rocco Stella (messo al corrente dell’affare), informerà l’imperatore e poi farà ricorso al Consiglio di Guerra, «il quale può mettere a dovere questo ufficiale». Osserva uno degli ambasciatori che il Duca ha comprata la Mirandola, ne è il «padrone» «e per tale dev’es­sere rispettato da quel presidio che collà si tratiene come per beneficio che si fa all’imperatore, non per alcuna padronanza o diritto».

Il 1° novembre Guicciardi, a spoliazione ormai terminata, è in udienza dall’imperatore Carlo VI d’Asburgo (al trono dal 1711). Dopo le congratulazioni per la presa di Temesvar nella guerra contro i Turchi, passa ad illustrare l’affare dei mobili della Mirandola, «e specialmente dell’asporto de quadri, li quali erano senza dubbio parte ed aderenza del fondo e delle mura del palazzo, a cui erano talmente affissi che senza defformarle non si poter svellere»; che il Duca «aveva protestato il ricorso alla Maestà Sua, ma avendo il Sig.r Governatore di Mantova asserito d’aver già su ciò gli ordini espressi e non potere differire l’esecuzione, (…) aveva voluto la sua obbe­dienza con lasciargli levare»; e che ora supplica «a far riconoscere che anche tutti li mobili si ponno intendere compresi nell’acquisto, ma li detti quadri poi senza dubbio, come mostra la fede de capi maestri fabbricieri acclusa nel memoriale», ed aggiunge «che il valore delle pitture non è di conto alcuno, essendo buona parte ritratti della Casa d’Este e della Picco, e quadri per co­prire le mura postivi quando furono fabbricate». Il punto più dolente è che «questo spoglio vergognoso del Palazzo Ducale» costituisce «un vilipendio così aspro» nei confronti del Duca, che sia i sudditi che «il mondo» giudica la scarsa considerazione in cui è tenuto a Vienna e dai ministri imperiali in Italia; e presenta un memoriale in cui si chiede la restituzione dei quadri e un maggiore rispetto per un sovrano così attaccato all’imperatore. Carlo VI risponde «che di tutto il passato non ne sapeva cosa alcuna», «di non avere dato ordine alcuno a Mantova di levare esse pitture», che è dispiaciuto di quanto gli viene riferito e che quindi avrebbe preso notizia del fatto dalla Cancelleria e provveduto a soddisfare le ragioni del Duca. L’inviato estense termina la sua udienza illustrando la questione delle acque del Reno. Il Cancelliere conte Philipp Ludwig Sinzendorff, personaggio di spic­co a corte, confida poi all’imperatrice Amalia, che gli si era rivolta, «che Darmstat ha fatto questo sgarbo di sua autorità, che di qui non ha ordine alcuno, che nulladimeno parlerà all’imperatore e poi scriverà a Darmstat il sentimento di Sua Maestà». Giannini chiarisce al ministro «che la fede autentica inserita nel memoriale mostra la verità».

Da questi resoconti si ha la conferma che l’operazione dello spoglio era iniziativa di Darmstadt e non partiva affatto da un ordine di Sua Maestà. Nel frattempo il Principe manda alla Cancelleria di Corte una relazione in cui giustifica il suo operato con la necessità di salvare, con il consenso de Duca di Modena, gli arredi che si stanno deteriorando; allega l’inventario di ciò che è stato trasferito a Mantova fino a quel momento, mentre assicura che il ricavato di ciò che si è venduto andrà a beneficio dei lavori alle fortificazioni di quest’ultima città; sostiene poi che i quadri dell’Appartamento Ducale sono amovibili e non murati e che, come si possono togliere, così si possono ricollocare.

L’imperatore con suo dispaccio del 14 novembre prende atto di quanto si è fatto, ma ammonisce che in tutto ciò il governatore di Mantova non ab­bia altri interessi che non siano quella della Corte Imperiale. Successiva­mente trasmette «il memoriale toccante l’asporto dei quadri di Mirandola» alla Cancelleria, che valuta se darne comunicazione al Darmstadt per gli inevitabili dissapori che insorgerebbero tra lui e il Duca di Modena poiché il Principe ha riferito il fatto in modo diverso, con il citare il generale barone di Sichingen che ne avrebbe prima parlato e concertato con il sovrano.

Il 30 dicembre Guicciardi riassume così la posizione della Cancelleria imperiale: «In quanto alli mobili si pretende che (…) siano esclusi dalla ven­dita nella stipulazione del contratto, e che prima d’essere asportati V.A.S. fu ammonita dal S.r Prencipe di Darmstat della sua volontà di levargli, e che non vi facesse opposizione alcuna, con che si passò all’atto della condotta de medesimi a Mantova, e si adduce per testimonio il Sig.r Generale Sichinghen, con che si pretende non esservi luogo a doglianze né a ripetergli» (cioè a ottenerne la restituzione). Riguardo invece ai grandi quadri affissi nelle pareti dell’Appartamento Ducale, «si stringono nelle spalle e dicono che è cosa fatta, e chiedono se si voglia per parte dell’A.V.S. muovere una lite al Prencipe di Darmstat». E qui aggiunge un parere, sulla scorta della sua esperienza di diplomatico: «In questo io dico che la giustizia conosciuta si dovrebbe fare. Vedo ben poi che ne viene un processo con il Sig.r Prencipe il quale vorrà sostenere la sua operazione, darà delle prove per distrugge­re le nostre, e si esacerbarà la materia e l’animo, e sarà poi difficile che la Corte dia uno sfreggio al suo Governatore di obbligarlo a rimmandare a Mantova le pitture con suo discredito. Se questo anche accadesse sarebbe un dissapore grave tra V.A.S. e lui, e non so se fosse di convenienza d’ambi due»». E’ meglio rinunciare a ogni richiesta di restituzione e accontentarsi di un’espressione pubblica di stima dell’imperatore che ripari l’insulto avuto dai suoi ministri.

Il consiglio è ripetuto anche dall’imperatrice Amalia, che non vorrebbe sentire che il Duca «si imbrogliasse con Darmstat», il quale ha l’appoggio dell’elettore Palatino e da cui avrà sempre «della inquietudine». E Soragna, che riferisce di ciò, avverte: «la Politica ha sempre da prevalere alla passione»; «quella Mirandola ha sempre avuto delle discordie, ed io so le buffette avute, perciò con Darmstat noi saremo sempre al di sotto e però la pruden­za dirigge tutto e schiva tutti gli impegni».

Una siffatta linea politica viene accolta dalla Corte di Modena e nel gen­naio 1717 Guicciardi la ribadisce al Cancelliere Sinzendorff: che non si pre­tende di mortificare Darmstadt con la restituzione dei quadri, ma semplice­mente che il Duca abbia tutto il rispetto dovuto dai Ministri dell’imperatore, «e che in avenire nulla si faccia che riguardi la Mirandola senza avere di qua un preciso commando prima». Il Cancelliere aggiunge però «che se li quadri non fossero andati non andarebbero più», in quanto Sua Maestà non aveva approvato l’operato del Principe, a cui era già stata spedita una lettera con «il vero sentimento dell’imperatore». Darmstadt si era giustificato sostenen­do «che per trovare un mezzo con che riparare le fortificazioni di Mantova gl’era stata proposta la vendita di tali mobili: e ne ricercò l’assenso, non si trova da chi lo ottenesse perché la Cancelleria di Corte non glielo diede per sicuro e S. M. Cesarea disse a me che non ne sapeva niente. Zinndorff mi disse che ne pure si seppe dove fosse andato il denaro».

Guicciardi, conscio della debole posizione politica estense, consiglia poi di chiudere la questione, in quanto il Principe ha già ricevuto «una lettera di buon tenore» ed è meglio «non esacerbarlo». In realtà Darmstadt il 23 marzo manda una «Relazione all’imperatore circa i mobili della famiglia Pico trasferiti da Mirandola a Mantova», nella quale ribadisce quanto espresso nella precedente relazione del 9 ottobre, fornendo in più il resoconto del ricavato della vendita dei mobili mirandolesi, pari a Lire mantovane 14702, soldi 6 e quattrini 3 (come esattamente risulta dai conti della Scalcheria, forniti da Carlo Bertazzone), e il “catalogo” della biblioteca dei Pico, che faceva parte degli arredi trasportati nel Palazzo Ducale già dei Gonzaga. In quello stesso periodo Botta Adorno giunge a Vienna, dove si ferma per pochi giorni, dichiarando di avere ubbidito agli ordini, né parla con chicchesia delle cose accadute a Mirandola, poi si reca all’armata. Dopo il semestre mirandolese, avrà una movimentata carriera militare fino al grado di maresciallo e al comando delle truppe imperiali nei difficili giorni dell’in­surrezione di Genova nel 1746 durante la guerra di Successione austriaca, ad incarichi diplomatici a Berlino e in Russia, alla nomina a ministro pleni­potenziario per i Paesi Bassi, alla reggenza del Granducato di Toscana, per poi tornare infine, gli ultimi anni della sua vita, nella nativa Pavia.

Nella primavera del 1717 le preoccupazioni del Duca, riguardo a Mirandola, sono rivolte a contrastare l’invio, da Mantova, di un ingegnere militare che si occupi delle fortificazioni urbane, e a contenere le richieste di appan­naggio dei principi Galeotto, Lodovico e Isabella Pico. Alla fine dell’anno almeno la questione delle fortificazioni è risolta con una serie di lavori ido­nei, che vengono approvati anche dall’amministrazione asbugica.

La vicenda della spoliazione del Palazzo Ducale di Mirandola si conclu­de quindi a Vienna con un nulla di fatto da parte della diplomazia estense, salvo la richiesta di una relazione a Darmstadt, che comunque resterà nella sua carica per altri venti anni.

Tratto da: Il Castello di Mirandola – Inventari di arredi, quadri e armi -(1469-1714)

Gruppo Studi Bassa Modenese

A cura di Mauro Calzolari

Anno 2006

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