La Principessa della Fossa

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La Principessa della Fossa

Don Onofrio Venturini, arciprete della Fossa, era un sacerdo­te del buon tempo antico, amato e benvoluto da tutti, an­che da quelli che non erano soliti nella frequentazione del­la chiesa.

Da alcuni anni era stato chiamato dal Vescovo di Reggio a reggere la parrocchia di questo piccolo paese, poco più di un villaggio, nella pianura modenese, proprio ai confini tra il Ducato Estense di Modena e i domimi austriaci della Lombardia. Un paese di brava gente che comunque non trascurava di dedicare qualche giornata alla proficua attività del contrabbando.

Ma tutti i parroc­chiani ne apprezzavano le qualità di uomo di buone lettere e di pastore di anime. Era infatti, il nostro don Onofrio, gentile con tut­ti, sempre disponibile ad ascoltare e aiutare i suoi parrocchiani nel momento del bisogno e sempre fervido nell’impervia opera di sal­vare le loro anime.

Insomma, questo sacerdote, giunto alla Fossa nella seconda metà del Settecento, aveva fatto molto presto a far dimenticare la fama di alcuni suoi illustri predecessori, come il famoso don Gia­como Barbieri, ottimo “politico”, che pure aveva ottenuto cose im­portanti per questa piccola parrocchia, spesso nascosta, quasi in­cartata, fra le nebbie della Bassa. Infatti don Barbieri, quando an­cora queste terre facevano parte della Signoria dei Pico, era riusci­to a far scucire dal Duca Alessandro II Pico la bella sommetta di 5.000 scudi d’oro per rifare la chiesa parrocchiale della Fossa, or­mai cadente. E un altro parroco aveva convinto la Reggente Fulvia da Correggio, vedova di un Pico, a far ristrutturare il campanile e dotarlo di ottime campane, ancora oggi visibili.

Don Venturini aveva dunque raccolto eredità di prestigio ma era brillantemente riuscito nel suo compito, soprattutto per la sua bontà d’animo. A dire il vero era anche un uomo di lettere, cosa abbastanza inconsueta per i parroci di quegli anni. Infatti scriveva in un buon latino, teneva corrispondenza con personaggi di buon rilievo e riusciva a trovare il tempo per immergersi in buone lettu­re; di giorno, oltre alla lettura del breviario, seguiva con ordine e scrupolo le pratiche normali della parrocchia, metteva in archivio, dopo avere letto ogni cosa con estremo interesse, tutte le carte e le “grida” che giungevano dalla Cancelleria ducale di Modena (che nel frattempo era divenuta dominio degli Estensi, che avevano ac­quisito la Signoria dei Pico, decaduti e riconosciuti come “felloni” dall’Imperatore) o dal Vescovato di Reggio. Ma la notte no: di notte don Onofrio Venturini si immergeva quasi con voluttà nei classi­ci dell’antichità. Oltre al latino, conosceva piuttosto bene il greco antico e i grandi autori dell’antichità romana ed ellenica non gli erano certamente sconosciuti.

Inoltre il buon parroco della Fossa aveva anche poche ma impor­tanti conoscenze a Roma, dove aveva studiato per qualche tempo nell’ormai lontana gioventù. Durante il suo soggiorno nella capitale della cristianità, don Onofrio aveva conosciuto e stretto amicizia con un giovane e promettente Vescovo, anche lui innamorato dell’anti­chità classica. Quel giovane Vescovo, di nome Luca Melchiorri Tem­pi, era poi divenuto Cardinale di Santa Romana Chiesa. E l’amicizia con questo Cardinale aveva dato buoni frutti religiosi, nel senso che quando don Onofrio Venturini chiese alla Santa Sede di poter avere nel suo paese il corpo incorrotto di San Massimo, per il quale il par­roco prometteva di far un Santuario all’interno della chiesa, si rivol­se proprio al Cardinale Tempi. Passò qualche tempo, ma nel fatidico anno 1762 il corpo di San Massimo viene traslato, fra la meraviglia di tutti e la gioia dei fedeli, nella piccola ma già famosa chiesa di Fossa. Il santo corpo era stato trasportato fin qui dalle cosiddette ca­tacombe romane di Santa Priscilla. Più tardi, nel 1768, don Onofrio ebbe la gioia di vedere benedetto anche il suo Santuario, che è ancora oggi un luogo di pietà molto noto nella zona, anche in virtù delle sue linee architettoniche di un certo rilievo.

Ma non erano soltanto questi i meriti di don Onofrio; come si è accennato, il sacerdote era disponibile verso tutti. Nonostante le modeste rendite parrocchiali, non lesinava aiuti verso le famiglie più povere, era sempre pronto ad insegnare ai giovani i segreti della lettura, dello scrivere e del far di conto, leggeva le poche let­tere che arrivavano ai suoi parrocchiani analfabeti, scriveva le eventuali risposte, ascoltava tutti con molta pazienza, consolava i giovani afflitti da pene d’amore. Insomma, era quel che si dice un buon parroco, anche se, purtroppo, le casse parrocchiali erano spesso vuote. Ma, diceva lui, la Provvidenza non abbandona nessuno.

A quei tempi il paese della Fossa era un piccolo villaggio di po­co più di mille anime, le case e la chiesa erano disposte ai fianchi di un’unica via (quella che collegava la Nocedella a Concordia), come in una specie di cittadina del Far West. Il nome di Fossa quasi certamente trovava riferimenti ad un corso d’acqua, oppure all’alveo di un fiume ora scomparso. Gli studiosi dicevano che il primo nucleo abitato era localizzato nei pressi di una selva, nota con il nome di “Bosco monastico”, per l’appartenenza ai monaci benedettini, colonizzatori di parte di queste terre.

Ma quelli della Fossa erano tutte persone timorate di Dio, un piccolo popolo che pendeva dalle labbra del suo parroco. I pochi benestanti del paese avevano capito che il punto più debole del loro curato erano i libri e per la festa di Sant’Onofrio facevano a gara per salvarsi l’anima regalando al sacerdote qualche libro, pe­raltro assai gradito.

Don Onofrio ringraziava di cuore per queste piccole offerte e in parecchi anni si era costruito una discreta biblioteca personale, ta­le comunque da fare invidia anche a qualche vescovo, consideran­do che i suoi scarsi risparmi venivano tutti investiti in opere libra­rie, talvolta di buon pregio.

Una domenica sera dell’autunno 1770, don Onofrio Venturini era andato a letto abbastanza presto: le lunghe confessioni del mattino (ancora più snervanti con le vecchiette che non avevano proprio nulla da confessare), la messa celebrata poco dopo l’alba, una seconda messa nel pomeriggio, con il corollario dei Vespri, l’avevano un po’ stancato. Tuttavia, sdraiato sul letto, non aveva ri­nunciato a rileggere il secondo canto dell’Eneide di Virgilio, un poeta mantovano che gli era caro, anche perché, in pratica, era nato soltanto a poche miglia, in linea d’aria, dalla Fossa. Anche la sua domestica, un’anziana cugina, era andata a riposare nella sua cameretta da povera zitella. La donna, a dire il vero, scuoteva sem­pre la testa perché non era ancora riuscita a capire cosa trovasse di interessante il parroco in quei vecchi libri polverosi, ma le sue petulanti esortazioni a risparmiare le candele non avevano mai avuto riscontri positivi e don Onofrio continuava tutte le sere a leggere e a consumare le candele.

Don Onofrio stava quasi appisolandosi, quando all’improwiso udì bussare alla porta della canonica con insolita veemenza; lasciò trascorrere qualche momento, forse pensando che fosse un qual­che burlone un po’ stolto, oppure un ubriaco che avesse perduto in via provvisoria il lume della ragione, ma il frastuono sulla porta si ripetè con maggiore intensità. Intuì che anche la sua domestica si era svegliata e don Onofrio le chiese di andare giù a sentire chi poteva essere il disturbatore di quell’ora insolita. Ma la perpetua, forse un po’ spaventata, oppose un netto dissenso, con la scusa che nessuno poteva avere bisogno di lei. Allora l’arciprete scese dal letto, si infilò in modo approssimativo la sua tonaca sopra il camicione da notte e scese lentamente le scale portando con sé la candela accesa. In quei brevi attimi pensava: “che si tratti di un malato grave per il quale i parenti chiedono l’estrema unzione? Oppure due sciagurati giovani che magari intendono sposarsi alla chetichella senza il consenso dei genitori?”. Quest’ultima vicenda gli era già capitata alcuni anni prima, ma il buon parroco era riu­scito, seppure a fatica, a dissuadere i due giovani e li aveva riman­dati alle loro case con la promessa che avrebbe parlato lui con le due famiglie.

Intanto il parroco era giunto vicino alla porta, ma prima di apri­re chiese:

“Chi è che bussa a quest’ora della notte, quando la gente dor­me?”.

Ma la risposta fu immediata:

“Sono il capitano Francesco Panzani della Mirandola e ho ur­gente bisogno del suo aiuto. Se vostra eccellenza mi lascia entrare le spiego tutto”.

L’arciprete Onofrio Venturini conosceva abbastanza bene il co­siddetto capitano Francesco Panzani. Era un mirandolese, uomo arguto e non digiuno di lettere, che per parecchi anni aveva milita­to nell’esercito del Papa, o meglio dello Stato Pontificio. A dire il vero, nessuno aveva mai visto il suo decreto di nomina a capitano delle truppe papali, ma lui, il Panzani, asseriva che questo era il ti­tolo con cui si era congedato. In effetti, aveva vissuto per quasi un ventennio a Roma, dove giurava di avere importanti amicizie nel­l’ambiente vaticano. Sapeva leggere e scrivere con una certa chia­rezza e sapeva raccontare molte storie, comprese quelle che ri­guardavano il suo apprezzato servizio per due o tre Papi. Ogni tanto raccontava che tornava a Roma a salutare i suoi vecchi amici delle guardie svizzere, ma i maligni della Mirandola sussurravano che invece si fermasse a Bologna per rendere visita a qualche ami­chetta. D’altra parte la vicina Bologna faceva parte degli Stati Pon­tifici. Anche la conoscenza, seppure molto saltuaria, con don Ono­frio Venturini risaliva ad alcuni anni prima.

Don Onofrio, dopo avere riconosciuto la voce del Panzani, fi­nalmente si decise a socchiudere la porta, in modo assai guardin­go. Ma il fioco lume della candela gli tolse ogni dubbio sull’iden­tità del disturbatore, anche se la sua apprensione, adesso, era au­mentata perché nel chiaro di luna aveva visto una carrozza alle spalle del Panzani. Una carrozza mai vista alla Fossa.

“Cosa volete, capitano Panzani, a quest’ora della notte” chiese il sacerdote. “Voi sapete che di notte i galantuomini dormono il son­no del giusto?”.

“Voi avete perfettamente ragione, monsignore” si affrettò a rispon­dere Francesco Panzani “io chiedo umilmente scusa, ma ho pensato di rivolgermi alla vostra cortesia e alla vostra generosità soltanto per­ché si tratta di un caso di estrema urgenza e di grande importanza. Soltanto a voi in questa parte d’Italia potevo rivolgermi ed è una vi­cenda che potrebbe portare una immensa fama a vostra eccellenza e un po’ di gloria anche a me, che ho indicato il vostro nome illustre”.

“E allora entrate” mormorò don Onofrio, ancora poco convinto di tanto subbuglio e tanta urgenza “ma tenete presente che io so­no un ministro di Dio e posso essere disponibile solo per vicende che riguardano il Regno dei Cieli e la salute delle anime. E non certo per le vostre avventure di mirandolese sempre pronto alle fantasie”.

“Grazie, reverendo” disse entrando nella piccola sala d’ingresso il capitano Francesco Panzani “ma permettetemi di sedere un atti­mo perché sono troppo emozionato e ho il cuore che mi batte. So­no di fronte a cose molto più grandi di me”.

“Insomma” tagliò corto don Venturini, che contrariamente al so­lito sembrava un po’ spazientito “si può sapere di cosa si tratta? Qual è il motivo che vi spinge a turbare il sonno di un povero cu­rato di campagna in quest’ora della notte? Non vi sono abbastanza preti alla Mirandola? Parlate, ma con calma, perché voglio capire”.

“Dunque” cominciò il Panzani, togliendosi il tabarro “si tratta di questo: voi sapete meglio di me quanto il vostro nome sia cono­sciuto e apprezzato negli ambienti del Vaticano e della migliore aristocrazia romana. Tutti conoscono e ammirano don Onofrio Venturini, arciprete della Fossa. Non esiste un romano di nobile li­gnaggio che ignori il vostro nome, ammirato per la cultura, la pietà e la generosità. Ebbene, voi avrete certamente visto che lì fuori, in trepida attesa, c’è una carrozza che porta un famoso stemma nobi­liare, lo stemma di una grande famiglia romana che adesso vi dirò. E dentro alla carrozza, voi non immaginate nemmeno chi c’è”.

“No” lo interruppe il parroco “non ne ho la minima idea. Ditemi dunque chi c’è dentro a questa benedetta carrozza che voi avete definito nobiliare”.

“Eccoci al punto cruciale” sussurrò Francesco Panzani, abbas­sando il tono della voce, con aria di mistero “dentro a quella car­rozza c’è una giovane donna di altissimo lignaggio, una gran dama dell’aristocrazia romana, nientemeno che la Principessa Federica Doria Pamphili, la figlia del famoso Principe che porta lo stesso cognome. Ebbene, questa giovane nobildonna, che avrà circa 25 anni, è in grave pericolo. Perché è stata sedotta da un nobile na­poletano di cui non posso fare il nome, ma che è un pezzo grosso dell’aristocrazia partenopea. Dunque, la Principessa è stata sedotta, la carne è debole e nella vita può capitare. E voi monsignore che avete la cura di tante anime sapete che per una giovane donna, che è anche piuttosto bella, è possibile cadere nel peccato. Lo dite anche voi preti che “errare humanum est””.

“Va bene” lo interruppe ancora don Onofrio “ma cosa c’entro io in tutta questa faccenda di debolezza della carne? Anche se è tutto vero quel che dite, cosa potrebbe fare un povero prete di campa­gna?”.

“Ma certo che voi c’entrate” insinuò il Panzani “perché non è fa­cile trovare un buon sacerdote che risieda in una campagna sper­duta e che sappia capire bene le cose. Un uomo che sia lontano dai pettegolezzi di Roma o di Napoli. E poi, diciamo la verità, un sacerdote di buon cuore come voi non esiste in tutta Italia. Insom­ma, la scelta su di voi è stata fatta molto in alto, ancora più in alto di quanto voi pensiate. In poche parole, voglio dire che è stata la Santa Sede a proporre il vostro nome. Perché si tratta, come vi ho già detto, di una faccenda che richiede tanta generosità e tantissi­ma discrezione”.

“Beh, non capisco cosa devo fare io” disse ancora don Venturi­ni “e per quale motivo dovrei ringraziare il Vaticano”.

“È molto semplice” aggiunse il Panzani “voi dovreste ospitare per qualche giorno la Principessa Federica, in attesa che essa si ri­prenda dalle forti emozioni subite e soprattutto in attesa che le grandi Potenze europee, in particolare la Santa Sede, l’impero d’Austria, la Francia e la Spagna, mettano a posto le cose. A quan­to mi risulta, visto che ho militato per tanti anni, come voi sapete, nelle truppe pontificie, queste grandi Potenze, assieme al Re di Napoli, puntano a concludere tutta la vicenda con un matrimonio riparatore, che forse si celebrerà in San Pietro o forse a Napoli. E sapete chi avrà l’onore di officiare la sacra funzione, fra un nugolo di Cardinali e Vescovi? Proprio voi, don Onofrio Venturini, arcipre­te della Fossa. Tutti, comunque, fanno affidamento sul vostro riser­bo e sulla vostra discrezione”.

Il capitano Francesco Panzani, finita la sua lunga spiegazione, guardò in faccia don Venturini e si rese conto di avere colto nel segno, di avere superato (o quasi) il muro di una naturale diffiden­za. E allora incalzò con un altro torrente di suadenti parole.

“Vi prego, monsignore” chiese con aria supplichevole “fate scendere la Principessa dalla carrozza e dite alla vostra domestica di prepararle una camera, il più possibile idonea alla sua stanchez­za e al suo rango. Il viaggio da Roma alla Fossa è molto lungo e la nobile signora è affranta. Voi, naturalmente, le porgerete il vostro ossequio. Voi conoscete alla perfezione l’ambiente e i modi della nobiltà romana e di sicuro saprete comportarvi meglio di me, che sono soltanto un rozzo soldato”.

L’arciprete della Fossa era ormai convinto: in fondo si trattava di offrire una breve ospitalità ad un personaggio di alto livello e forse da tutta questa vicenda c’era la possibilità di ottenere qualche van­taggio per la comunità di Fossa.

“Va bene” disse allora don Venturini “fatela scendere dalla car­rozza e intanto io farò mettere a posto nel modo migliore la stanza degli ospiti. Lo dico subito alla domestica”. E con un ordine peren­torio invitò la sua anziana collaboratrice a predisporre la camera, da tanto tempo vuota. Nel frattempo, il capitano Panzani era uscito dalla canonica e dopo qualche tempo era rientrato accompagnan­do a braccetto la Principessa Federica Doria Pamphili. Don Ono­frio stava preparandosi al rituale baciamano, ma fu la Principessa ad inchinarsi davanti al sacerdote con una profonda riverenza.

“Non ne sono degno”, mormorò il sacerdote, ma questo gesto consentì di osservare la nobildonna con molta attenzione.

In effetti, era veramente una donna di aspetto assai gradevole: lunghi capelli castani, grandi occhi neri e vivaci, volto molto piace­vole e collo lungo e aristocratico. Una vera signora della più au­tentica nobiltà, anche se, fece caso il sacerdote, non lesinava sul suo volto l’impiego della cipria e di altre sconosciute creme profu­mate. Poi la Principessa parlò.

“Mio padre” disse con molta grazia “è infuriato contro di me, soltanto perché sono stata tanto ingenua da cadere nelle braccia di un nobile napoletano, che comunque io amo. Quando il Principe mio padre ha appreso la mia ingenuità, il suo senso dell’onore ha prevalso sull’affetto paterno e su ogni altro sentimento e soltanto l’intervento di mia madre ha potuto salvarmi la vita, perché mio padre voleva farmi uccidere. La mia augusta genitrice ha potuto in­tercedere a mio favore ma a casa non posso più tornare e allora, grazie al sovrano intervento del Santo Padre e alla collaborazione del signor capitano Francesco Panzani, ho avuto la fortunata possi­bilità di ricorrere alla generosità di vostra eccellenza signor arcipre­te. Mi tratterrò solo per pochi giorni, se voi vorrete, poiché spero che la diplomazia vaticana sistemi in breve tempo la mia dolorosa vicenda. Sono pentita, monsignore, del male che ho fatto sia a me stessa che alla mia famiglia e del disturbo che sto arrecando a tan­ti altri. In ogni modo, reverendo, non preoccupatevi troppo per me. È vero che sono una Principessa, ma vi prego di trattarmi co­me l’ultima peccatrice della vostra parrocchia. Anche Gesù ebbe pietà di Maddalena”.

Don Onofrio, colpito da queste nobili parole, non ebbe più dubbi. Ordinò subito alla domestica di preparare per l’indomani le cose migliori della sua antica abilità culinaria.

“Diciamo che è festa” affermò convinto “perciò domani prepara i tortellini come sai fare tu”. Poi consentì alla Principessa di ritirar­si, salutò il capitano Panzani, ringraziandolo per l’onore che gli aveva riservato e poi se ne tornò a letto, non senza avere racco­mandato alla perpetua la massima riservatezza.

Raccomandazione del tutto inutile, perché alle prime luci del giorno seguente almeno una buona metà degli abitanti della Fossa sapeva tutto della misteriosa, ma non troppo, ospite di don Ono­frio. Le prime ad essere informate furono ovviamente le molte vec­chiette che puntualmente ogni giorno assistevano alla prima mes­sa.

Ma la curiosità popolare non ebbe molte soddisfazioni, perché la bella Principessa, descritta dalla perpetua come una gran dama ric­ca di splendidi gioielli e di profumi esotici, non usciva mai dalla sua stanza. All’ora dei pasti la domestica del sacerdote saliva nella camera degli ospiti e le serviva tutte quelle delizie per le quali l’an­ziana zitella metteva in atto la sua lunga esperienza culinaria. Poi le ordinava il letto e scendeva nello studio del parroco con ben poche cose da raccontare, se non qualche dettaglio sulla biancheria intima che peraltro il buon sacerdote non gradiva affatto. D’altra parte la Principessa non chiedeva mai nulla di particolare e alla domestica non restava che raccontare all’arciprete tutta la nobile riservatezza della signora, lodandone peraltro il robusto appetito. “Chissà, forse è incinta”, pensava la perpetua, “certo, mangia di gusto” e cercava di capire con il suo sguardo indagatore se la nobile signora avesse qualche incipiente gonfiore nella parte addominale. Dal canto suo, anche don Onofrio non poteva che lodare la riservatezza della si­gnora e ogni tanto si scopriva a ringraziare il Padre Eterno per l’o­nore fatto a lui, povero e modesto curato di campagna.

La prima settimana trascorse abbastanza in fretta, anche perché quasi ogni giorno, soprattutto nel tardo pomeriggio, giungeva dal­la Mirandola il capitano Francesco Panzani a trascorrere qualche ora con la nobile ospite. “Forse hanno cose segrete da raccontar­si”, pensava fra di sé la domestica, perché raramente si sentono i due parlare ad alta voce.

La domenica successiva, alla messa delle 11, frequentata anche dagli uomini dopo la rituale fermata all’osteria, i parrocchiani della Fossa ebbero l’onore di poter ammirare, a debita distanza, la bel­lezza e la grazia della Principessa Federica, che ebbe anche la bontà di elargire qualche fievole sorriso. Ma solo il nobile Giacinto Bernardi, notabile del luogo e ricco proprietario terriero, ebbe l’ar­dire e l’onore di poter baciare, debitamente genuflesso, la bella mano della Principessa. Ma ebbe anche il tempo di guardarla negli occhi e più tardi all’osteria, parlando con alcuni conoscenti, ebbe la presunzione di dire:

“A me sembra di averla vista ancora”, sollevando mormorii in­creduli da parte dei suoi interlocutori.

Passò un’altra settimana e don Onofrio timidamente cominciò a pensare che la posizione della Principessa, a livello internazionale, doveva essere piuttosto complicata, perché qui non succedeva mai nulla, se non le visite sempre più frequenti del capitano Panzani, che evidentemente non portava mai buone notizie oppure infor­mazioni atte a sbloccare la situazione. Tanto che un giorno don Onofrio decise di interrogarlo:

“Allora” chiese “non ci sono ancora novità, signor capitano?”.

“Eh,caro monsignore” fu la concisa risposta “le grandi potenze stanno per mettersi d’accordo, ma adesso è il Re di Napoli che vuole vederci chiaro in tutta questa faccenda”.

Per la verità, a don Onofrio la presenza nella sua casa di una Principessa non dava alcun fastidio, un piatto di minestra o una coscia di cappone in più – pensava – non compromettono certa­mente il bilancio parrocchiale, però queste benedette grandi Po­tenze potrebbero anche trovare un accordo. In fondo si tratta sol­tanto di un peccato d’amore fatto da una giovane donna. Chi inve­ce cominciava a nutrire qualche segreto sospetto, essendo donna, era la domestica. È vero che lei non aveva mai conosciuto le deli­zie dell’amore e il vento del peccato, però sapeva come va il mon­do. E un pomeriggio della terza settimana, proprio durante una delle ormai quotidiane visite del capitano Panzani, non seppe resi­stere al formidabile impulso della curiosità femminile. E trovò il coraggio, dopo qualche tentennamento, di sbirciare attraverso il classico buco della serratura.“Eh, caro monsignore” fu la concisa risposta “le grandi potenze stanno per mettersi d’accordo, ma adesso è il Re di Napoli che vuole vederci chiaro in tutta questa faccenda”.Eh, caro monsignore” fu la concisa risposta “le grandi potenze stanno per mettersi d’accordo, ma adesso è il Re di Napoli che vuole vederci chiaro in tutta questa faccenda”.

Immaginate la sorpresa della povera donna, da sempre digiuna d amore, quando capì che il capitano e la Principessa si stavano rotolando nell’ampio letto alla maniera di due focosi amanti, nudi come li aveva fatti il Signore. Per poco non urlò, si fece il segno della croce per scacciare la bollente immagine del peccato carnale, ma riuscì a soffocare la sorpresa e corse giù da don Onofrio che, manco a dirlo, stava leggendo:

“Reverendo quei due lassù sono dei bugiardi, adesso stanno fa­cendo enormi atti impuri come due ossessi, quella lì è una Princi­pessa come me”.

Ma cosa stai dicendo?” chiese stupefatto il povero sacerdote, che fino ad un attimo prima era immerso nella lettura di Ovidio, “sei forse impazzita?”.

“Pazza io?” urlò la povera donna, ancora tutta sconvolta “vada ben a vedere cosa sta succedendo”.

E allora don Onofrio salì i pochi scalini che portavano alla ca­mera degli ospiti, con uno sforzo che non aveva mai avvertito in vita sua. Prese il coraggio a due mani e, senza bussare, spalancò la porta: due corpi nudi giacevano esausti sul letto. Fece un mezzo urlo soffocato, anch’egli si fece il segno della croce e poi, con to­no molto secco, disse al capitano che lo avrebbe aspettato nel suo ufficio, però debitamente vestito.

Dopo qualche minuto il capitano Francesco Panzani scese dalle scale, bussò alla porta dell’ufficio di don Onofrio e con un sorriso di ipocrita pentimento, disse al sacerdote:

“Reverendo, adesso vi spiego tutto e vi chiedo umilmente scusa. Si tratta di una burla orchestrata in compagnia di alcuni miei amici della Mirandola. Quella non è una Principessa, è un’attrice comica di Bologna, diciamo pure una ballerina. Inutile che vi dica il suo nome, ma dovete convenire che ha recitato la sua parte da attrice consumata. Merita un premio, e cioè il vostro perdono. È tutto qui, la colpa di questo scherzo è tutta mia, e adesso mi affido al vostro buon cuore e alla vostra generosità”.

Trasecolato, don Onofrio Venturini non rinnegò se stesso e il suo buon carattere; pur soffrendo nel suo intimo per questa terri­bile e lunga burla, disse soltanto:

“Vi lascio dieci minuti per sparire, tutti e due. Andate in pace e non ne parliamo più. Sarà il Signore a giudicarvi per questo vostro peccato”.

Il giorno seguente la perpetua, debitamente istruita da don Onofrio, raccontò alle sue amiche della prima messa che le grandi Potenze della terra si erano finalmente messe d’accordo e che la Principessa Federica era partita all’alba per Roma. Si sposerà fra meno di un mese, con la benedizione di don Onofrio.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Racconti Mirandolani

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli – Anno 1999

Il dipinto è opera del mirandolese Aleardo Cavicchioni

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