Camposanto – Qual’è l’origine del toponimo ed altre notizie.

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CAMPOSANTO

Capoluogo di Comune. L’origine del toponimo ha dato luogo a diverse ipotesi. Lo storico settecente­sco di Finale Emilia Cesare Frassoni affermò che du­rante le persecuzioni dei primi tempi della Chiesa qui si trovava un’arena in cui numerosi cristiani incontra­rono il martirio, ma l’asserzione è del tutto infondata sia perché mai è stata dimostrato simile avvenimento, sia perché la formazione del borgo di Camposanto è abbastanza recente, risalendo la prima menzione al 1445, «Campus Sanctus». Altri autori hanno attribui­to l’origine del nome della località alle grandi fosse scavate dopo la conclusione della battaglia qui avve­nuta nel 1743 tra Spagnoli e Austrosardi per seppel­lirvi i molti soldati, probabilmente, circa seimila, morti nel combattimento; anche questa supposizione è assurda, in quanto, come già si è detto, il nome Cam­posanto fu attribuito al borgo in tempi precedenti, al­meno tre secoli prima, visto che già nel 1445 era co­nosciuto. Più accettabili le altre interpretazioni, anche se non vanno oltre la congettura.

Camposanto si riferirebbe a un camposanto, a un cimitero antico.

Significherebbe invece campo sanato, ossia campa­gna risanata, bonificata, trasformata da paludosa, in­colta e malsana in fertile, produttiva, ricca, come oggi la vediamo. Infine, e si tratta dell’ipotesi più convin­cente, il toponimo Camposanto proverrebbe da un campo di Santo o di Sante o di Santi, nome di un possidente, secondo alcuni; di una famiglia di possi­denti, della zona, stando ad altri autori.

Resta da dire che da sempre il nome piacque poco agli abitanti del paese che lo ritenevano macabro e in tempi in cui l’orgoglio municipale era assai sentito soffrivano nel sentirsi oggetto delle facili canzonature dei borghigiani dei dintorni. Più volte, nel 1456, nel 1505 vennero rivolte alle autorità sovrane petizioni intese a mutare il nome del paese, ma la risposta fu sempre negativa. L’ultima richiesta fu avanzata in tempi recenti, nel 1966; si formò un comitato, fu promossa un’istanza popolare; della domanda si occu­pò il consiglio comunale, l’argomento fu trattato in diversi articoli sui giornali anche nazionali; si arrivò a proporre il nuovo nome del paese. In verità, si ebbe l’impressione che a questo punto mancasse l’unità de­gli intenti; ognuno aveva un suo nome da suggerire e alla fine l’elenco fu lungo. Camposanto avrebbe dovu­to chiamarsi Lovoleto, l’antica selva che si estendeva presso il borgo, oppure S. Nicolò, il patrono del pae­se, oppure Gorzano, il primo centro abitato della zo­na, oppure Saliceta, altro nome della selva di Lovole­to, oppure Campoverde, a ricordo dell’agricoltura qui fiorente come in pochi altri luoghi, oppure Rio Santo, a ricordo del fiume Panaro, altra ricchezza del paese, oppure Lambruscheto, a celebrazione del vino lambrusco il più noto prodotto locale, oppure Terrasanta, Agrosanto, Valverde, Valfiorita, Campo Saliceta, Campovivo, Camporose, Campobello, Camposano, Campoemilia, Campoemiliano, e, poiché la fantasia degli uomini è inesauribile, l’elenco avrebbe potuto benissimo allungarsi, se non fossero entrati in discus­sione altri argomenti più importanti, primo fra tutti il modo di evitare le rotte disastrose del Panaro, in que­gli anni assai frequenti. Fu così che fra tanti nomi re­stò proprio quello che piaceva meno, Camposanto.

Come già detto, le origini del borgo non sono lon­tane. In età preistorica la zona era occupata da un’ampia, folta selva, quella che nel Medioevo fu poi detta, almeno per una parte, Lovoleto, a ricordo della presenza dei lupi, insieme con quella di cinghiali, vol­pi, lepri, cervi, anatre selvatiche, ed anche il bosco della Saliceta, evidentemente dai salici, assai numerosi con i pioppi, le querce, gli olmi ed altri alberi ad alto fusto. Una grande selva, dunque, e qua e là tratti pa­ludosi in cui crescevano rigogliose le canne e le erbe palustri e poche radure incolte.

Nei tempi di Roma, anche questa zona fu coloniz­zata che qui significa suddivisa in poderi, assegnata ai coloni, bonificata, dissodata, coltivata. A ricordo del­la centuriazione restano nella zona alcuni toponimi eloquenti. Decimano, una località il cui nome è chia­ramente derivato da decumano, che col cardo forma­va la suddivisione agraria a scacchiera della centuriazione romana, Gorzano, il primo abitato del territo­rio, etimo proveniente da un «Gordianus fundus», po­dere di Gordio o Cordio, colono romano, Leguriano, località che ricorda un secondo podere, «Legurianus fundus», appartenente a Ligurio, altro colono. Niente resta invece del tracciato dei «limites», dei cardini e dei decumani come altrove, ad esempio nel territorio di Nonantola, di Ravarino, di Castelfranco, di Carpi, ché le ripetute alluvioni e i diversi mutamenti del corso del fiume Panaro, un tempo non arginato e del tutto libero e vagante nella pianura, certamente nei secoli colmarono canali e fossati, sommersero strade, abbatterono filari d’alberi, cancellarono ogni vestigio del reticolo romano.

Un’altra ipotesi va ricordata a titolo di curiosità. Recentemente è stata formulata la supposizione che Camposanto sia sorto nel luogo dove in età romana si trovava quel «Vicus Serninus», vico di Serennio, im­portante stazione e mansione sulla strada che da Mo­dena per Nonantola e Vigarano Mainarda conduceva oltre il Po fino a Padova, della quale mai è stata identificata l’ubicazione, essendo gli studiosi divisi tra Crevalcore, Finale Emilia e, per l’appunto, Campo­santo, d’accordo soltanto nel ritenere che per ora è possibile soltanto formulare congetture tutte da dimo­strare.

Una selva, un fiume, una strada, alcuni abitati sparsi nelle campagne, è quanto sappiamo degli anni del Medioevo. Poi, nel 1432 avvenne un fatto impor­tante. Per volere del marchese di Ferrara Nicolò III d’Este, al fine di garantire la presenza costante di ac­qua nel canale Naviglio e nel fiume Panaro, di miglio­rare quindi la navigazione fluviale e di moltiplicare i traffici commerciali, presso Bomporto si ebbe l’immis­sione delle acque del Naviglio in quelle del Panaro. Modena fu collegata stabilmente con Bomporto, Cam­posanto, Finale Emilia, Ferrara, Venezia, con una via d’acqua formata prima dal Naviglio, poi dal Panaro, dal Po, dall’Adriatico. Barconi, ruscone, burchi, ba­starde con carichi di merce andavano sul filo della corrente e tornavano al traino di robuste funi tirate da cavalli in cammino sugli attiragli, i sentieri erbosi sugli argini dei fiumi. Allora anche Camposanto, pic­colo borgo sul Panaro, che per molti restò il canale di Modena, acquistò importanza, divenne luogo di par­tenza, di arrivo, di sosta di numerosi battellieri, ebbe un minuscolo porto, un cantiere, un’osteria, una lo­canda. Soprattutto da Camposanto partivano carichi di legna. La si tagliava nel bosco della Saliceta, la si accatastava nella cosiddetta legnara, la si trasportava con carri in paese, la si caricava sui barconi. Qualche anno dopo, nel 1445, troviamo la prima menzione su un documento ufficiale, «Campus Sanctus»; riguarda certe esenzioni concesse alla comunità dal marchese di Ferrara Lionello d’Este che non erano piaciute a Modena.

Era un breve agglomerato di casupole, di catapec­chie, di tuguri lungo il canale di Modena; gli abituri, i più, avevano i tetti coperti di paglia o di «pavèra»; le altre di «scandole» di legno. Quando, non lontano da Camposanto, per la prima volta, una casa fu co­perta di tegole, la chiamarono la Ca’ de’ coppi e il nome Cadecoppi restò alla località. Poche, povere ca­se, alcune stalle, un’osteria, una locanda, una chiesa dedicata a S. Nicola da Bari, protettori dei barcaioli e di quanti hanno a che fare con l’acqua. Il fiume e il bosco davano lavoro a molti, battellieri, pescatori, re­naioli, birocciai, carradori, taglialegna. In più c’erano i campi, strappati alla selva, alla macchia, alla sterpa­glia ridotti a coltura o a prato e vi lavoravano i con­tadini, per la maggior parte servi, poveri zappaterra che vivevano di stenti. I nemici erano molti, la sicci­tà, la carestia, le epidemie, le rotte del Panaro, gli as­salti dei banditi che si nascondevano nel bosco, le scorrerie, accompagnate da devastazioni, da saccheggi, da incendi, da omicidi, che per essere questa terra di confine tra il ducato di Ferrara e lo stato della Chiesa erano frequenti; le operavano i militi degli Estensi, dei Pepoli, dei Bentivoglio, i papalini e gli imperiali. Nel 1531 arrivarono numerosi soldati spagnoli, la di­struzione fu grande, tanto che i contadini, i più, da­vanti a quella sventura, con la moglie, i figli, il be­stiame, le loro povere cose, fuggirono fino a Modena. Nonostante le difficoltà, il paese si sviluppava, suddi­viso in due frazioni, Bastiglia e Passo Vecchio; i nomi erano eloquenti, il primo ricordava un’antica fortifica­zione di guardia al passo vecchio sul Panaro. L’8 feb­braio 1743 visse una memorabile giornata da conse­gnare alla storia. Nei prati dei Livelli e nell’abitato gli eserciti spagnolo ed austrosardo si diedero batta­glia per tutta la giornata e alla fine sul terreno, tra il ponte sul Panaro e il Bottegone restarono, sembra, circa seimila morti che furono seppelliti in grandi fos­se comuni. Ambedue le parti si attribuirono la vittoria della battaglia di Camposanto.

I campi furono sconvolti, molti alberi tagliati, mol­te case spianate, altre diroccate, altre saccheggiate molte stalle vuotate.

Poi si tornò alla vita di sempre, vissuta quotidianamente nel lavoro, nella fatica, nella miseria, nella pe­na, nella paura del peggio. Nel 1763 il territorio di Camposanto fu costituito dal duca di Modena France­sco III d’Este in marchesato e ne fu nominato feuda­tario il marchese Silvestro Ponticelli di Garfagnana, il quale abitò sempre a Parma, a Camposanto capitò po­che volte in carrozza e furono occasioni per far festa a suon di musica e a scoppi di mortaletti e per fare chiassate in piazza dove il divertimento principale consisteva nello strappare il collo a un’oca posta se un palo. Da Parma il signor marchese mandava gli or­dini ed erano sempre nuovi dispiaceri, per lo più pre­stazioni d’opera gratuite e nuovi tributi. Durò fino a 1796, all’occupazione francese e all’abolizione dei feu­di e dei feudatari. Nel 1792 a Camposanto da una povera famiglia immigrata da Napoli nacque Pietro Giannone; il bambino si dimostrò in possesso di viva intelligenza e fu inviato agli studi a Modena; diventò poi il letterato, poeta, patriota che tutti conoscono, l’autore del poema «L’esule» tanto ammirato da Giu­seppe Mazzini; a Camposanto non tornò più e tra­scorse gran parte della vita in esilio, in Francia.

Nel 1834 nelle campagne di Camposanto fu iniziata la coltivazione del riso che durò fino al 1890, quando fu abbandonata. La coltivazione principale restò così quella antica, della canapa. Era un’economia agricola povera. Nell’ultimo Ottocento si registrò l’avvento dei trasporti su linea ferroviaria e un’importante fer­rovia, la Bologna-Verona, si trovò a passare proprio per Camposanto. Il commercio fluviale entrò in crisi, molti armatori, barcaioli, carpentieri furono costretti a cambiar mestiere, andarono ad aumentare l’esercito dei braccianti, degli operai agricoli, che vivevano in condizioni infime, con un salario che variava da una lira a una lira e trenta centesimi al giorno, in una ca­tapecchia malsana col pavimento in terra battuta, le finestre piccole, un assito di legno che separava la cu­cina dalla stalla. L’alimentazione era insufficiente, a pane nero, polenta, aringhe, cipolle e acqua di pozzo. La tubercolosi, lo scorbuto, la pellagra, la scrofolosi, il rachitismo erano assai diffusi. Nel 1879 più della metà della popolazione del comune era colpita da feb­bri malariche.

Questa la situazione tra Ottocento e Novecento, poi capitò il fatto più grave della storia del paese, la seconda guerra mondiale. L’abitato era un centro im­portante per le comunicazioni nell’Italia Settentriona­le a motivo della presenza dei due ponti sul Panaro, ferroviario e stradale, della Bologna-Verona. Di fatto il paese fu occupato dai soldati tedeschi della Wehrmacht. Il 1 luglio 1944 gli aerei angloamericani bom­bardarono il ponte ferroviario, lo mancarono, ma pro­vocarono un morto, certo Annibaie Paltrinieri, abi­tante del luogo. Questo fu il primo di centrotrenta bombardamenti che si susseguirono fino all’aprile del 1945 e alla liberazione del paese. Il terrore fu grande. La maggior parte della popolazione abbandonò il paese e si rifugiò nelle case coloniche dei dintorni. An­che il bosco della Saliceta, occupato dai soldati tede­schi che vi avevano posto un deposito di munizioni fu più volte bombardato. Alla fine della guerra si contarono oltre cinquanta abitanti di Camposanto morti sotto i bombardamenti. Il 40% delle case fu at­terrato; il 30% danneggiato; anche il campanile della parrocchiale fu rovinato; il ponte ferroviario distrut­to. Nel dopoguerra si procedette alla ricostruzione, ma i problemi antichi restavano.

Il 90% della popolazione era dedita all’agricoltura; i braccianti erano centinaia e vivevano in condizioni miserevoli. L’unica soluzione possibile era una rifor­ma agraria. Si costituì la Cooperativa braccianti che nel 1949 acquistò per la somma di 50 milioni di lire dal conte Vittorio Carrobio il bosco della Saliceta che venne abbattuto, trasformato in terreno coltivabile, appoderato e distribuito ai braccianti diventati colti­vatori diretti.

Restava un altro problema secolare, il pericolo delle rotte del Panaro che in tutti questi anni erano state frequenti e disastrose. L’ultima si registrò nel 1952. Finalmente nel 1985 in località S. Anna di S. Cesario si inaugurò la nuova cassa d’espansione del Panaro, destinata ad impedire le piene del fiume e le conse­guenti alluvioni.

Oggi il paese sorge sulla nuova strada Panaria che da Modena seguendo il corso del Panaro conduce a Finale Emilia e a Ferrara. È un paese moderno, in buona parte rifatto, un centro agricolo, con le case in fila sulla nuova strada Panaria bassa.

L’economia del comune è prevalentemente agricola. Scomparse da tempo le colture del riso e della cana­pa, i prodotti principali restano i cereali, le barbabie­tole, la frutta, l’uva, in particolare i cocomeri e i me­loni. Sono assai sviluppati gli allevamenti dei suini e dei bovini, il cui latte viene lavorato nei caseifici per la produzione del burro e del formaggio grana. Nel­l’ultimo dopoguerra, sono sorti alcuni stabilimenti in­dustriali per la produzione di piastrelle di ceramica, di capi d’abbigliamento, di cartoni da imballaggio, di calzature, di mobili.

Il patrono della parrocchia è S. Nicola da Bari, protettore dei barcaioli, dei pescatori, dei cavatori di sabbia e di quanti operano nell’acqua, la cui festività ricorre il 6 dicembre. La sagra cade nella terza dome­nica di ottobre. Il mercato si tiene al martedì. La fie­ra la seconda domenica di luglio.

La chiesa parrocchiale di S. Nitola o Niccolò da Bari ha facciata neoclassica, settecenteca. Nell’inter­no, è custodita l’immagine della Madonna del Bosco, già nell’oratorio della Regina del Bosco della Saliceta. L’organo, della scuola dei Traeri, fu fatto nel 1760. Il campanile, con la cuspide a cipolla, secondo la tradi­zione fatto ad imitazione di un fiasco, simbolo della produzione vinicola della zona, fu rifatto dopo il 1945 per riparare i danni provocati da un bombarda­mento durante l’ultima guerra mondiale.

Nella parrocchia, si trovano due oratori, S. Anna, presso l’argine del Panaro, nel quale si custodisce un quadro raffigurante S. Anna, Maria Vergine e S. Giu­seppe, e l’altro, già citato, detto della Regina del Bo­sco, in località Risaia, dove fino al 1950 si estendeva il bosco della Saliceta, poi abbattuto e ridotto a col­

tura, in cui si conserva una riproduzione in ceramica dell’immagine della Madonna, ora nella chiesa parroc­chiale.

Il comune ha due frazioni, Cadecoppi e Gorzano.

Bibliografia:

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Tratto da: Enciclopedia Modenese

Autori: Giancarlo Silingardi – Alberto Barbieri

Il Segno Editrice

Anno: 1992

One Response to Camposanto – Qual’è l’origine del toponimo ed altre notizie.

  1. Molto interessante. Tra i vari nomi sostitutivi di Camposanto, preferisco Lovoleto: suggestivo e il più storicamente giustificato

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