Via Milazzo – Il Bilanciaio ( Franco Gambuzzi 26/7/2014)

Commenti disabilitati su Via Milazzo – Il Bilanciaio ( Franco Gambuzzi 26/7/2014) Via Milazzo - Franco Gambuzzi

Il primo a sorprendersi, e meravigliarsi, di queste mie note sarebbe proprio lui, il mio vecchio padrone di casa, al 14 di via Milazzo.

Non poteva certo immaginare che quel discolo (“trentademoni” mi chiamava) che faceva ammattire, correndo per le scale e scaricando pallonate sul suo portone, si sarebbe ricordato di lui a distanza di cinquant’anni.

Su Gino ci sarebbero da raccontare mille storie relative alla sua scontrosaggine, in gran parte attutita e limitata dalla amabile dolcezza della moglie Sofia che lavorava nel retrobottega del marito ricamando biancheria, lenzuoli e tovaglie. Ricordo Gino come un uomo alto e magro, di una età indefinibile (doveva avere più o meno una cinquantina di anni allora), capelli brizzolati a spazzola su un viso affilato, occhiali sempre sulla punta del naso e vigliacca la miseria se gli scappava mai un sorriso.

Faceva il bilanciaio e gestiva il controllo periodico delle bilance di tutto il circondario, infatti aveva sempre la bottega piena di bilance da verificare e, in certi periodi dell’anno, si vedeva costretto a riempire gran parte dell’androne d’accesso all’abitazione con enormi bilance a bascula su cui mi divertivo a saltare, ovviamente non visto. Doveva essere professionalmente molto bravo e doveva godere di grande affidabilità da parte dell’amministrazione vista la gran mole di lavoro che aveva; peccato che questa sua capacità fosse direttamente proporzionale alla sua scontrosità. Non sopportava alcun tipo di rumore, guardava con sospetto e mal sopportava le visite non solo dei miei amichetti, ma anche di chiunque ci venisse a fare visita, parenti compresi. Era un rimbrotto continuo, ogni volta che mi coglieva correre su e giù per le scale: – Al digg a to padar, can da l’ua, sussuroon da l’ostia! -. Come ripicca, e non si può immaginare con quanto piacere, gli facevo dispetti ogni qual volta ne avessi l’occasione, per esempio, svitando i pomelli sulla ringhiera della scala lasciandoli solo appoggiati.

Erano belli, tondi e dorati, un vero e proprio invito allo svitamento. Era la cosa che più lo mandava in bestia! A volte invece, come quando mi sedevo sui gradini della scala che scendeva nel cortile interno, per guardarlo lavorare, mi pareva di intravedere una sorta di sorriso su quella bocca storta. Evidentemente compiaciuto, guardandosi bene dal profferire parola, mi permetteva di assistere al suo lavoro. Nel cortile aveva infatti attrezzato una vera e propria fucina a carbone dove forgiava i bracci delle bilance, o qualsiasi pezzo gli occorresse, con il fuoco e col martello sull’incudine. Mi piaceva guardare come, con pochi colpi ben assestati, dava forma e spessore a quei pezzi di ferro rovente; restavo come incantato, assorto in contemplazione, a fissare le scintille schizzare dalle martellate date ad arte. Certo, era bravo! Mi sono sempre chiesto che cosa avesse trovato in lui la Sofia, così diversa, sempre sorridente e disponibile.

Cosa mai l’aveva convinta a sposare un uomo così tanto introverso da sfiorare la misantropia? Certo, ci doveva per forza essere qualcosa che i miei occhi di bambino non riuscivano a cogliere. La Sofia doveva certamente essere stata in gioventù una bella donna. Ricordo un bel viso sempre aperto al sorriso, non molto alta e grassoccia con i capelli, ormai imbiancati, raccolti dietro la nuca, a cipolla. La ricordo vestita sempre di nero, sempre in ordine, con il colletto bianco ricamato. Cuciva, con gli occhiali inforcati, nel suo piccolo stanzino, in fondo alla bottega del marito, la luce accesa in ogni ora del giorno nonostante sedesse vicino alla finestra che dava sul retro.

Era religiosissima e devota di Padre Pio con i cui santini aveva tappezzato le pareti del suo stanzino. Con lei stava sempre la Marisina, una ragazza, seppure svantaggiata, dolce e simpatica, un sorriso per tutti, cui insegnava il cucito e che le dava una mano nelle commissioni da svolgere in piazza.

La Sofia l’aveva di fatto adottata nonostante vivesse con la sua famiglia (la mamma Rina e il fratello Giuseppe, tipografo) in un appartamento al piano terra, proprio a fianco della bottega del bilanciaio.

Gino e Sofia avevano una figlia di nome Anna. Doveva avere una ventina di anni a quel tempo. La ricordo una bella ragazza, alta e bionda, taciturna. Si era fidanzata con un ragazzo che lavorava nell’oreficeria di famiglia.

Con lui spesso la sera si soffermava nell’androne di casa, in un angolo, al buio, ad amoreggiare. Anna era tutta la vita per i suoi genitori nonostante Gino non lo desse molto a vedere. Prova ne sia che, e data la particolarità dell’episodio, e per il gran parlare che se ne fece allora, quando ad Anna cadde un orecchino (o un anello?) nel gabinetto, non esitò a calarsi nel pozzo di scarico per ricercarlo. Spilorceria, taccagneria? Può darsi. Quando però lo vidi riconsegnare, una volta ripulito, il gioiello alla figlia mi parve di vedere nel suo sguardo qualcosa di più, di diverso, quasi un sorriso.

Quando Anna si sposò, andò a vivere fuori casa; Sofia ne soffrì parecchio e Gino non fu da meno. La rividi in seguito molto più raramente.

Ogni tanto veniva a trovare i suoi vecchi col bambino che le era nel frattempo nato.

Non so perché, forse per il triste destino che l’avrebbe colta, ma di lei mi è rimasta l’immagine di una ragazza triste, taciturna e rinchiusa in se stessa.

A metà degli anni sessanta mi trasferii con la famiglia in via Lolli, in periferia, e di loro non ho più saputo nulla tranne che Anna, ammalatasi gravemente, morisse col bambino ancora piccolo. La camera ardente fu adattata nell’androne della casa dei suoi. Quello stesso androne che l’aveva vista crescere e che aveva visto nascere il suo amore, prima di ragazza e poi di sposa.

Mi raccontò in seguito mia madre di essere stata alla sua veglia funebre e di aver trovato la Sofia distrutta dal dolore. Non vide Gino, forse rintanato da qualche parte, solo col suo dolore.

No, non credo proprio troverò mai il coraggio di bussare a quel portone per rivedere quei luoghi che mi videro prima bambino e poi adolescente. Preferisco serbare il ricordo di com’era allora. Spero proprio che queste mie note non urtino la suscettibilità o la sensibilità dei loro discendenti ma, nello scriverle, mi sono sempre più reso conto che queste storie, che sono parte della nostra storia, siano da condividere poiché sono patrimonio comune di tutti quelli che questi luoghi, questa città, l’hanno vissuta e… mi spiacerebbe rimanessero lì isolate, in un piccolo angolo della mia memoria.

I commenti sono chiusi.