Tradizioni emiliane di Maggio – Superstizioni, Fidanzamenti e Matrimoni

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Matrimonio doppio - Anno 1947

Matrimonio doppio  anni 1950

Come è noto, dopo l’austerità della Quaresima e dopo la festa di Pasqua, il mese di maggio vedeva (e vede ancora) un’insolita frequenza di matrimoni, che un tempo si celebravano soltanto in chiesa (salvo rarissime eccezioni), ma che ora si svolgono anche in municipio con il rito civile. Insomma, oggi ci si può sposare sia davanti al prete che davanti al sindaco o ad un suo delegato.

Ovviamente ogni matrimonio era preceduto dal relativo fidanza­mento che nei tempi andati poteva essere reale, cioè un periodo più o meno lungo di effettiva reciproca conoscenza, oppure fittizio (oggi diremmo virtuale), vale a dire la conclusione di un rapporto, non sempre felice, combinato dalle famiglie dei genitori o addirit­tura da una sola delle famiglie.

Ma andiamo con ordine: le origini del matrimonio, come è faci­le intuire, si perdono, come si suol dire con un’espressione molto abusata, nella notte dei tempi, anche se certamente nella preistoria non c’era bisogno di molte complicazioni. Naturalmente, all’alba della civiltà umana, uomini e donne si sono sempre accoppiati ai fini del piacere e della procreazione, ma ad un certo punto, non si sa bene in quale epoca, si arrivò al momento delle relazioni stabili e di un marcato senso della proprietà degli uomini sulla donna, del maschio sulla femmina. Insomma, stava nascendo una sorta di diritto di “esclusiva” e quindi di possesso: questa donna è mia e solo mia. Il matrimonio come istituzione non ha un’origine certa a livello storico, ma poco per volta, nelle civiltà più evolute, si confi­gura come un atto giuridico (un vero e proprio contratto) in virtù del quale un uomo e una donna stabiliscono l’obbligo reciproco di coabitazione, di reciproca assistenza e, possibilmente, di fedeltà. Comunque l’attuale matrimonio appare agli storici un’usanza piut­tosto tarda e varia secondo i diversi popoli. Ancora oggi, come è noto, diversi paesi, in virtù delle loro convinzioni etiche e religio­se, ammettono il matrimonio legittimo di un uomo con diverse donne. Non risultano, almeno a livello ufficiale, matrimoni fra una sola donna e diversi uomini.

Quando la preistoria lascia il passo alla storia, le civiltà della Mesopotamia e dell’Egitto conoscono già molto bene l’istituto del matrimonio, con tutte le sue complicate regole, rese abbastanza difficili dalla dote, una consuetudine che ha sempre visto la don­na, sia ricca che povera, portare nella casa del marito la propria dote, fatta di denaro e anche di beni immobili. Questo avveniva per le classi più ricche e benestanti, perché del matrimonio fra i poveracci e delle sue regole, la storia, quella con la S maiuscola, non racconta mai nulla. Comunque, nel vasto e composito mondo che si affaccia sul mare Mediterraneo, come dimostrano anche i poemi di Omero, il matrimonio è già un atto solenne e lo stesso avviene in Egitto, dove addirittura una donna sposata può anche diventare regina dopo la scomparsa del consorte. Nell’area medi­terranea, quindi, il matrimonio è già molto importante, assai più ci­vile delle unioni delle epoche precedenti, dove erano ammessi il ratto, la compravendita e quant’altro. Oltre tutto la moglie legitti­ma, che comunque ha praticamente l’”obbligo” di mettere al mon­do dei figli, possibilmente maschi, si distingue nettamente dalle concubine, frutto di eventuali conquiste successive da parte del maschio. Oltre tutto, la concubina deve procurare piacere, ma non figli.

Nella mitica società ateniese, il matrimonio, soprattutto nei “se­coli d’oro” (V e IV secolo avanti Cristo), è considerato uno “stato perfetto” e, in alcuni casi, obbligatorio per la continuazione della famiglia e del rito familiare.

IL MATRIMONIO CRISTIANO

Ma arriviamo ai tempi più recenti: a dire il vero, con l’afferma­zione del Cristianesimo, il matrimonio diventa un sacramento e riafferma la parità dei coniugi, una parità, peraltro, abbastanza vir­tuale, mentre scompare il divorzio, vigente nella civiltà romana. Il divorzio tornerà in vita solo dopo la rivoluzione francese, alla fine del Settecento. Tuttavia, per lunghi secoli, le nozze erano viste co­me il momento in cui l’uomo entra in possesso di una donna, per farla procreare. La parola amore, intesa nel significato attuale, pra­ticamente non esiste, o meglio può affiorare soprattutto quando esiste una relazione extra matrimoniale e allora si tira in ballo la parola passione, tuttavia l’adulterio femminile è sempre una colpa molto grave.

A proposito delle vicende storiche della “Bassa”, va ricordato che soprattutto ad opera di un bravissimo avvocato di Mirandola, il conte Giuseppe Luosi, divenuto Gran Giudice e ministro della Giu­stizia nel napoleonico Regno d’Italia all’inizio dell’Ottocento, viene ripristinato il divorzio in Italia, in cui però l’adulterio della donna è sempre una colpa grave e quindi motivo di divorzio, mentre quel­lo dell’uomo è causa di separazione solo nel caso in cui egli si porta in casa l’amante. In ogni modo, riassumendo, le nozze erano soprattutto il frutto di una sorta di contratto fra le famiglie dei due sposi, tenendo conto dei ceti sociali e delle situazioni economiche.

Dell’antica cultura matrimoniale è giunta fino ai giorni nostri la tradizione del vestito bianco della sposa: infatti le ragazze dell’anti­ca Roma il giorno delle nozze indossavano una sorta di tunica can­dida, simbolo della loro purezza, fermata da un nodo di Ercole che poteva essere sciolto soltanto dallo sposo. Il volto della donna era coperto da un velo di colore giallino, che copriva interamente il viso, anche per evitare che lo sposo, vedendo il volto della don­na che quasi sempre non conosceva, cambiasse idea all’ultimo momento.

Nel Medio Evo, invece, il matrimonio significava una vera e propria espropriazione, vale a dire il passaggio di proprietà dal pa­dre al marito. In compenso, gli abiti di entrambi gli sposi erano di colori vivaci, soprattutto di color rosso, che aveva il significato di propiziare una fitta procreazione.

FIDANZAMENTO

Ma torniamo quasi ai giorni nostri, o meglio ad un passato non troppo remoto, per dire che soltanto con l’avvento del secolo XX si potrà parlare quasi sempre di matrimoni d’amore, o quanto me­no di matrimoni in cui i futuri sposi almeno si conoscono e si fre­quentano prima di salire sull’altare. E a questo punto rientriamo a piedi pari nelle antiche tradizioni di casa nostra, della “Bassa”: per dire che le occasioni di incontro fra i giovani di sesso diverso, ne­gli anni passati, non erano molte; oggi si va in discoteca, si incon­tra una ragazza e praticamente si esce da locale già “fidanzati”.

Un tempo le cose erano molto diverse: ci si poteva incontrare (raramente) in casa di amici, ci si poteva vedere in chiesa e scam­biare qualche occhiata maliziosa durante il rito, era molto più raro maturare uno scambio di idee per strada. Forse le occasioni mag­giori erano rappresentate dalle feste di carnevale, quando si balla­va un po’ dappertutto, o durante qualche “filò” nelle stalle, un am­biente che oggi certamente non stimolerebbe pensieri d’amore. Comunque, bene o male, con tanta pazienza e infinite precauzio­ni, ci si poteva incontrare.

Dopo qualche fugace incontro, in cui si poteva solo “parlare ma non toccare”, cioè senza il minimo scambio di effusioni, arrivava il momento critico della “dichiarazione”, cioè il momento decisivo in cui il giovane innamorato prendeva il coraggio a due mani e mani­festava il suo sentimento amoroso. I più audaci chiedevano anche alla ragazza su cui avevano puntato gli occhi, di “presentarsi in ca­sa” di lei. Non era poi tutto facile, perché, con prudente cautela, la ragazza chiedeva certezze, usando la mitica frase: “Che intenzioni avete? , perché il tu raramente veniva usato nei primi approcci. La domanda, ovviamente, era piuttosto imbarazzante, perché lo stesso giovanotto non conosceva ancora certamente le proprie intenzioni. I più smaliziati se la cavavano con un interlocutorio e non impe­gnativo: “E giusto conoscerci meglio”. Ma per strappare il primo bacio occorrevano dei mesi.

“Presentarsi in casa” non significava ancora essere “fidanzati in casa”, che era il momento più impegnativo e rappresentava il preludio ad una relazione di estrema serietà. Essere “morosi in casa” era, insomma, un passo molto importante verso il matrimonio. Questa specie di pre-fidanzamento aveva un suo rituale: tutto do­veva essere palese e nulla nascosto. Andare a “morosa” prevedeva ritualità precise: si poteva andare a casa della ragazza, senza però entrare in casa, solamente nelle serate del martedì, del giovedì, del sabato e della domenica, giorno in cui era lecito anche il pomerig­gio. Andare a trovare la ragazza, per esempio, nella serata del lu­nedì, voleva dire voler fare la pace dopo un piccolo litigio avvenu­to la domenica; era, insomma, la serata dei “disgustati”, quella per mettere fine al litigio o a qualche incomprensione.

Il contegno di entrambi i giovani doveva essere assolutamente corretto: dopo due o tre mesi di frequentazione era tollerato il pri­mo bacio, di tipo innocente, in pratica con il solo appoggio delle labbra di entrambi. Ma quando sopravveniva la fase ufficiale dell’ essere morosi in casa”, il bacio poteva essere più appassionato.

Ma, come si è accennato, essere fidanzati in casa, comunque, non comportava l’ingresso ufficiale del giovane nella casa della ra­gazza; in una prima fase significava soltanto che i due giovani po­tevano intrattenersi da soli davanti alla porta di casa; molto spesso però accadeva che la madre della fidanzata, in assenza di altri fa­migliali di sesso maschile, era mossa a compassione per quei “due poveri ragazzi costretti a stare là fuori al freddo” e li faceva entrare in casa, magari soltanto nella stanza d’ingresso. Ma anche dopo l’ingresso in cucina, accanto al camino, la padrona di casa non distoglieva mai gli occhi dai due ragazzi, costretti soltanto a parlare del loro futuro o del più banale più o meno. Perché una ragazza di buona famiglia doveva assolutamente giungere illibata al matri­monio.

Su questo postulato non si poteva discutere, ma talvolta capita­va che qualcosa non funzionasse rispetto ai desideri dei genitori, ma anche degli stessi voleri dei due fidanzati. L’inesperienza e l’assenza assoluta dei più elementari principi di educazione ses­suale determinavano qualche “incidente di percorso” e allora era una corsa contro il tempo per riparare al “malfatto”, si fa per dire, con le nozze anticipate. Il bello è che i maggiori rimbrotti erano destinati alla padrona di casa, colpevole di scarsa attenzione. E gli uomini non tardavano a rinfacciare alla “vecchia” questa disatten­zione.

Ma la maggioranza delle donne giungeva al matrimonio con il pieno diritto di indossare il tradizionale abito bianco, anche se non mancavano giovani signorine che mettevano il vestito della purez­za pur senza averne il “diritto”. Ma si sa che la carne è debole e talvolta il fidanzato non riusciva più a resistere a certi naturali im­pulsi e chiedeva la mitica “prova d’amore”. Ma non va nemmeno sottaciuto il fatto che il sesso era sempre tabù e ogni richiesta del­le ragazze in tema di educazione sessuale era subito smorzata con un perentorio “vergognati”.

IL MATRIMONIO

Finalmente, con o senza il vestito bianco e il tradizionale velo che in parte copriva il volto della sposa, arrivava il giorno del ma­trimonio, una festa per almeno due famiglie e per un imprecisato numero di amici e di invitati, sempre troppi, a giudizio di coloro che dovevano sobbarcarsi le spese del lungo e laborioso pranzo di nozze. Ma in genere non si andava in trattoria o al ristorante, si ri­mediava tutto in casa.

Nella stragrande maggioranza dei casi il rito del matrimonio re­ligioso doveva svolgersi nella chiesa del paese della sposa o co­munque nella sua parrocchia. Cambiare parrocchia poteva essere il segnale visibile di qualcosa da nascondere. Nel giorno delle nozze la puntualità era d’obbligo per quanto concerneva lo spo­so, la sua famiglia, i parenti e gli amici di lui che dovevano pren­dere il loro posto in chiesa, dove attendevano la sposa che entra­va nel tempio a braccetto del padre. La sposa era puntualmente in ritardo, poiché aveva sempre qualche ultimo dettaglio da sistema­re. In assenza del padre, ne faceva le funzioni un fratello maggio­re oppure il parente più stretto, come uno zio o un cugino. Guar­dando l’altare, sul primo banco a destra stavano i genitori dello sposo, con gli amici e i parenti alle loro spalle, ma sempre nel primo banco potevano sistemarsi anche i bambini piccoli. Sul lato sinistro veniva parcheggiata la famiglia della sposa, con i genitori nel primo banco.

Durante la cerimonia religiosa la sposa non doveva assoluta­mente mettere i guanti che andavano posati sull’inginocchiatoio; erano sconsigliati anche i gioielli, i braccialetti o altri anelli, mentre erano ammessi solo piccoli orecchini, che avevano il compito di il­luminare il viso. Se l’abito della sposa era provvisto di uno strasci­co molto lungo, erano d’obbligo le piccole damigelle che, secondo gli antichi Egizi (e anche romani) avevano l’importante funzione di scacciare o di tenere lontani gli spiriti maligni che avrebbero potu­to rovinare la festa.

Dopo il fatidico sì, lo scambio delle fedi e il rituale bacio, i no­velli sposi uscivano dalla chiesa, accompagnati dai genitori, ricor­dando che il padre della sposa doveva stare accanto alla madre dello sposo e viceversa. Poi la rituale pioggia di riso, ma anche di pasta alimentare e di fiori. Poi la sposa doveva gettare il suo bou­quet fra la gente e se era una ragazza a raccoglierlo, anche per lei erano imminenti le nozze, entro l’anno.

Inutile dire che il giorno del matrimonio, sia una volta che at­tualmente, è un giorno di grande importanza, un giorno da ricor­dare per sempre. Ma attenzione: se è vero che il buongiorno si ve­de dal mattino, nei tempi passati venivano adottati molti accorgi­menti per far sì che il matrimonio fosse il più felice possibile. Per­ché anche in questa occasione le tradizioni (o se volete, le super­stizioni) erano parecchie. Tanto per cominciare, era meglio se si trattava di un giorno di pioggia, in omaggio al vecchio proverbio “Sposa bagnata, sposa fortunata”. Ma non bastava: nello stesso mo­do in cui un antico proverbio dice che il buongiorno si vede dal mattino, se la sposa si svegliava al mattino delle nozze al canto de­gli uccelli, oppure, meglio ancora, se trovava un piccolo ragno fra le pieghe del suo bianco vestito, il matrimonio nasceva con il pie­de giusto.

Il classico velo, dove possibile, doveva essere preso in prestito da un’altra donna felicemente sposata, affinché la prosperità, la fe­licità e la fertilità potessero facilmente passare da una donna all’al­tra. Ma in molte case si usava il velo di famiglia, nel senso che esi­stevano famiglie tradizionali che si tramandavano di generazione in generazione preziosi e antichi veli da sposa, come veri e propri tesori di famiglia.

Una cosa assolutamente da non fare, perché portava sfortuna, era mostrare al futuro sposo l’abito bianco prima della cerimonia; il promesso sposo poteva vederlo soltanto in chiesa. Non solo, ma la stessa sposa non avrebbe nemmeno dovuto guardarsi riflessa nello specchio; tuttavia, se proprio non riusciva a resistere a que­sta forte tentazione, poteva farlo a condizione di togliersi una scar­pa o un guanto oppure una calza. Ma anche lo sposo doveva stare attento perché, per evitare problemi, in quel giorno fatidico, dove­va scendere dal letto mettendo a terra prima il piede destro. Ed era anche meglio se infilava per prima la scarpa destra.

Restava naturalmente sempre valido il vecchio adagio secondo cui “né di Venere né di Marte non si sposa né si parte”, perché il martedì era il giorno dedicato a Marte, dio della guerra, e nessuno degli sposi aveva bisogno di guerre, mentre il venerdì – secondo la cabala – era il giorno in cui furono creati gli spiriti maligni, i quali, come tutti sanno, sono sempre in agguato.

A proposito di “sposa bagnata, sposa fortunata”, vi è da aggiun­gere che l’acqua che scende dal cielo portava bene, mentre invece le eventuali lacrime della sposa prima del fatidico sì non erano gradite. La giovane doveva attendere la conclusione del rito, a di­mostrazione tangibile del fatto che non era una strega. In chiesa, poi, era necessario non far cadere a terra le fedi nuziali e tanto meno dimenticarle a casa: sarebbe stato un segno evidente di tra­scuratezza e di scarsa voglia di compiere il grande passo. Del bou­quet abbiamo già accennato, fortunata la ragazza che lo prendeva al volo.

Ultima tradizione (o superstizione) riguardava il letto matrimo­niale: era usanza che venisse approntato la sera prima delle nozze dalle mani caste di ragazze nubili, ma anche questo non sembrava garantire notti tranquille, tenuto conto del vecchio proverbio che asseriva: “Sposati e vedrai, il sonno perderai e più non dormirai”. Il proverbio non precisa se per colpa del marito troppo focoso o per colpa di qualche figlio poco incline a rispettare il riposo not­turno della madre.

Altra tradizione antichissima è quella della torta nuziale: al tem­po degli antichi Romani l’usanza voleva che la madre dello sposo offrisse una pagnotta di farina di grano alla sposa e poi a tutti gli invitati, mentre i Greci donavano agli dei dolci al miele o al sesa­mo affinché fossero benevoli nei confronti degli sposi.

Solo agli inizi del Novecento è apparsa la torta nuziale di color bianco e a più piani, sormontati (in modo un po’ kitch) dalle due statuine raffiguranti gli sposi. La torta si è sempre gustata verso il termine del banchetto nuziale che, sempre per tradizione, doveva essere ricco di numerose portate.

IL PRANZO NUZIALE

Un discreto pranzo nuziale nella “Bassa” prevedeva in modo ri­goroso almeno due o tre minestre: si cominciava con i tortellini in brodo (quelli alla panna, per fortuna, non erano ancora stati in­ventati), poi due piatti di pasta asciutta, con una certa predilezione per i maccheroni al pettine. Poi due o tre secondi, con l’immanca­bile presenza dei bolliti misti e degli arrosti.

Poi formaggi, frutta, verdure e dolci, fra cui la rituale “zuppa in­glese” che in Inghilterra nessuno ha mai visto e conosciuto. Vino obbligatorio il Lambrusco, sostituito, alla fine, da un vinello bianco spumante della zona, che ora non esiste quasi più, ma forse è del­la famiglia del Trebbiano.

Tornando alla torta, secondo tradizione, la prima fetta spettava allo sposo ed era lo stesso sposo a preparare le fette per gli altri. Ma era la sposina a porgere la prima fetta, come si è detto, al ma­rito, la seconda alla suocera, la terza a sua madre, poi a suo padre e infine ai testimoni e a tutti gli altri. Inoltre a tutti i presenti spet­tava una congrua quantità di confetti.

Ma la colonna sonora del banchetto nuziale era contrassegnata da un tale che ogni tre minuti si alzava in piedi con il bicchiere in mano, urlava “Viva gli sposi!” e invitava tutti a bere. Infine, agli in­vitati più eccellenti e a quelli che avevano mandato il regalo, veni­vano offerte dalla sposa le bomboniere, anche se è giusto dire che quelle moderne sono entrate nell’uso comune solo da pochi de­cenni; il termine “bomboniera” è di origine francese, in quanto sembra che nel XVI e XVII secolo gli aristocratici d’oltralpe avesse­ro l’abitudine di omaggiare i loro ospiti con oggetti “porta bon bon” per conservare, appunto, i dolci.

Finito il lungo estenuante pranzo, era d’uopo per gli amici e i parenti fare una breve visita alla camera da letto degli sposi, luogo deputato all’intimità e al riposo. Le donne, ovviamente, erano mol­to interessate ai mobili, alla biancheria, alle lenzuola, alle coperte e al contenuto del guardaroba, con particolare attenzione verso la quantità e la qualità della dote, mentre i maschiacci erano fin trop­po prodighi di feroci allusioni sulla virilità dello sposo e sulle sue capacità amatorie. Addirittura, in certi paesi della “Bassa”, veniva insegnato ai bambini più innocenti una squallida storiella dialettale che più o meno diceva così: “O i cunfett o la sposa megh a lett”. Filastrocca quanto meno irriverente, che i bambini recitavano, ignorandone il significato, suscitando l’ilarità degli adulti.

Dopo la visita alla camera da letto, cominciava per gli sposi, la cosiddetta “luna di miele”: questa definizione deriva certamente dal fatto che nell’antica Roma i novelli sposi erano soliti mangiare un po’ di miele per tutta la durata di una luna (poco meno di un attuale mese) dal giorno delle nozze. Da questa usanza nacque l’e­spressione “luna di miele” per indicare i primi dolci giorni che se­guono le nozze. E a questo proposito, se fossimo maligni, vorrem­mo accennare ad una frase attribuita ad un vecchio contadino della “Bassa” parlando della moglie: “Durante il primo mese di matri­monio l’avrei mangiata, dopo mi sono pentito di non averlo fatto”. Oggi, inoltre, le statistiche dicono che il 93 per cento dei novelli sposi partono per un viaggio di nozze più o meno lungo; un tem­po, cioè fino al periodo fra le due grandi guerre, solo l’uno per cento degli sposi percorreva le strade della luna di miele. Molte donne, il giorno dopo il matrimonio, imboccavano la via della campagna (o anche della stalla), mentre solo qualche rarissimo rampollo della borghesia aveva la possibilità di compiere un breve viaggio a Bologna oppure (ma era il massimo) a Venezia.

Ma il più serio “ostacolo” che si frapponeva fra i due novelli sposi e il resto della famiglia era la suocera, nota dalle nostre parti come colei che non voleva assolutamente “lasciare il mestolo” (cioè la gestione della cucina ma anche della casa) in mano alla nuova entrata nella casa, che doveva essere docile, remissiva e ub­bidiente, sempre disponibile a lavorare e a stare zitta. Perché, in definitiva, “tenere il mestolo” significava pensare a tutto, senza in­terferenze. Mentre gli uomini erano competenti sugli “interessi” nel lavoro e fuori casa, la “razdora” era titolare del più modesto ma non meno importante bilancio economico della casa, decideva su cosa preparare per il pranzo e per la cena, decideva il giorno del bucato, quello delle pulizie e aveva pieni poteri anche nell’educa­zione dei bambini, ma solo dopo che avessero imparato a cammi­nare.

Naturalmente la suocera, tranne qualche rara eccezione, era vi­sta come una sorta di “nemica” dalle giovani nuore, una barriera invisibile contro la felicità. Non a caso la suocera era persino mal­vista nel campo della letteratura a partire dal latino Terenzio fino al più moderno Pirandello, ritratta come invadente avversaria dal cinema italiano, despota assoluta all’interno della casa, spesso ri­tratta come una vecchia stizzita e rancorosa, sempre in guardia contro le giovani spose che le avevano “rubato” un figlio e che ora volevano anche rubarle il predominio domestico.

Ovviamente, siamo di fronte ad uno stereotipo, poiché erano numerose le suocere che trattavano le giovani spose come delle nuove figlie.

Ora le cose sono molto cambiate, ma in effetti il potere delle “razdore” sulla parte femminile delle famiglie era notevole: oltre alle scelte quotidiane di cui si è fatto cenno, era la padrona di ca­sa a tenere il gruzzolo domestico, ottenuto con la vendita delle uo­va, delle galline, dei pulcini e dei conigli al mercato, era lei che decideva l’acquisto della “roba da braccio”, cioè delle stoffe e del­la biancheria, così chiamate perché venivano misurate letteralmen­te a “braccio” dai “mercantini” a domicilio; ma era sempre la suo­cera a dare il nulla osta per qualche fidanzamento delle giovani ra­gazze di famiglia per eventuali matrimoni. Ed era sempre la “raz- dora”, che forse aveva cento occhi come Argo e cento braccia co­me Briareo, a vigilare sul comportamento e sulla moralità delle fi­glie e della sposa. Ma era anche la prima ad alzarsi e l’ultima ad andare a letto, a controllare la chiusura delle finestre e a spegnere le luci.

Oggi, stranamente, le più recenti indagini sociologiche afferma­no che il aiolo delle suocere fa bene al matrimonio dei figli, forse anche a causa del tempo che dedicano ai nipotini e alla cucina. Forse anche perché oggi i novelli sposi vanno a vivere da soli su­bito dopo il matrimonio.

Ma, a parte il problema della suocera, in genere i matrimoni di un tempo erano più stabili di quelli attuali, ma troppe cose sono cambiate per stabilire confronti impossibili. E poi è fuor dubbio che oggi la donna abbia raggiunto una maggiore maturità e soprat­tutto una migliore coscienza di sé.

Ma dato che questo non vuole essere un trattato di sociologia, diciamo che molte cose sono cambiate.

Tratto da: Antiche Tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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