Prof. Mario Pazzaglia “Liceo Pico 1949”

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LICEO

Prof. Mario Pazzaglia

(Titolare della cattedra di Letteratura Italiana e Preside della Facoltà di Magistero presso l’Università di Bologna)

LICEO “PICO”, 1949

Mirandola, anzi, La Mirandola, 1949. Ricordo il mio primo viaggio esplorativo, con mia sorella, sul trenino della SEFTA, tra filari di viti rosse nell’ottobre; poi, l’arrivo alla città di Pico, la breve sosta al Liceo per presentarmi al Preside uscente, il prof. Voivodich, collega, molti anni dopo, al Liceo “Galvani” di Bologna.

Avevo 24 anni, ero fresco vincitore del concorso per l’insegnamento di Italiano, Latino e Storia nei Licei e Istituti Magistrali; pieno di gioia per avere finalmente trovato un lavoro, per il fatto di essermi inserito nella vita produttiva.

Mirandola non era una sede comoda per chi, come me, doveva conti­nuare a risiedere a Bologna (due ore di treno ogni giorno, più la corriera), e fu questa l’unica ragione per la quale chiesi e ottenni, l’anno successivo, il trasferimento. Ma il “Pico” me lo sarei portato dietro.

Perchè allora, in quel Liceo, si stava davvero bene. La bella architettu­ra di stile antico rendeva decorosa anche la modesta attrezzatura, le conferiva una vaga dignità d’epoca. Su questo sfondo, su questa memoria di antichi splendori, una pace raccolta e laboriosa, severa senza ostenta­zione e, al tempo stesso, familiare, direi quasi domestica. E a questo propo­sito mi preme di citare subito quattro indubbi protagonisti, quelli che costituivano l’organico del personale non docente. Ricordo la dolce bontà della Tilde, l’inconsapevole dignità monumentale di Comini, la solerzia, la cortesia, la bravura dei due segretari, Vincenzi e Petocchi: tutte persone laboriose, oneste e rispettose, bravissime. Sembrava, con loro, di vivere in un’Italia di altri tempi, di prima della guerra: dove si viveva nel rispetto del proprio lavoro, avvertendone pienamente la dignità, dove la scuola, anche la più piccola, si sentiva, ed era, un’istituzione di significato certo non  trascurabile. Forse nella piccola città di provincia il culto di certi valori si era volutamente e consapevolmente, mantenuto più a lungo; certamente io ve lo ritrovai con stupore e con piacere.

Eravamo, quell’anno, quasi tutti insegnanti di nuova nomina in gran parte vincitori degli ultimi concorsi: giovani, dunque, e allegri.

Ricordo, nella mia sezione, Garuti, docente di Latino e Greco, Ferrari, docente di Matematica e Fisica, la Roveda, docente di Storia e Filosofia, e quel prete generoso, simpatico e un po’ strano, anche quando suonava con febbrile passione il violino, che era don Skutarich, docente di Scienze. Io insegnavo Italiano, mentre nell’altra sezione c’era Cincinnati, un carissimo amico di allora. Di altri colleghi non ricordo ora il nome, ma il volto, e, sicuramente, l’alto livello professionale e umano. Su tutti vegliava la cordialità discreta, la mitezza generosa, la grande bontà di Morozzi, facente funzione di Presi­de, che insegnava anche materie letterarie al Ginnasio, insieme con la bravissima Rosta.                                                        .    ,.   .

Questi miei apprezzamenti non nascono da nostalgia di giovinezza.

Dell’ottimo livello professionale dei colleghi di cui ho parlato (e anche di quelli di cui non ricordo il nome) fanno fede, oltre che, penso, la memoria degli studenti d’allora, la loro carriera successiva nel campo scolastico e in quello degli studi.

Quanto a me, so che il loro contatto mi ha arricchito sia sul piano umano sia su quello culturale e che la nostra collaborazione e stata reale come la nostra buona amicizia. Mi è rimasto per questo l’ideale un pò nostalgico della piccola scuola, caratterizzata dal rapporto diretto con colleghi e studenti, dallo spontaneo incentivo reciproco all’impegno serio e coscienzioso e al coordinamento degli sforzi, da un amicizia verificata giorno per giorno, sul lavoro.

La città viveva in una lontananza un po’ ovattata: solerte e laboriosa, fiera, ma senza enfasi, del proprio Liceo classico, che qualcuno fuori, considerava un lusso, da sostituire con scuole professionali, piu “pratiche”. Ma c’erano anche queste, e funzionavano benissimo, e il Liceo si giustifica­va ampiamente come domanda di cultura che non era il caso di eludere.

E gli allievi? Li ho tenuti per ultimi non perchè fossero meno importanti ma perchè, a questo punto, il discorso diviene spontaneamente piu critico, anzi, autocritico. Loro erano buoni, civilissimi, di livello intellettuale decisamente soddisfacente, come potei meglio vedere quando passai ad altre scuole di Modena e di Bologna. Suddivisi in piccole classi, quelle che, come s’usa dire, si possono “curare” meglio, sostenevano coraggiosamente gli attacchi concentrici di noi docenti. Ne ho rivisti pochissimi in tutti questi anni (l’ultimo è stato Tassi, ora Preside a Modena) e pertanto non so, se non di uno o due, quale successo abbiano avuto nella vita.

Io li ricordo con reale simpatia; ma loro, che penseranno di me? Avevano avuto una storia scolastica un po’ accidentata – gli anni di guerra, i troppo frequenti cambiamenti di insegnanti – non era facile per loro met­tersi al passo con una scuola esigente come quella d’allora. Ma ce la misero tutta: dopo qualche mese duro per loro e per me, le cose cominciarono a funzionare. Ho un gradevolissimo ricordo di volti, anche se parecchi nomi ormai mi sfuggono: soprattutto di occhi: attenti, partecipi, stimolanti.

Ri­trovo in me anche il vecchio “debole” per la Seconda A, quella di tono medio più vivace. Posso fare dei nomi: l’Amadei, la Bonini, la Golinelli, la Luppi, la Pinotti, la Vitale, Paltrinieri; e, in Prima, il bravissimo Mantovani, l’indimenticabile Campani, la fantasiosa Cavicchioli; in terza, oso fare soltanto tre nomi, quelli della Galini, della Malavasi, di Vitale. È un rischio, perchè i vuoti di memoria non mi consentono di rendere la dovuta giustizia a tanti altri; ma lo corro perchè sappiano che li ricordo davvero e per rendere meglio credibile l’affermazione che di molti altri, che ora non so nominare, ricordo il viso, il carattere, certi particolari della loro vita scolastica.

Piuttosto: che cosa sono stato io per loro? Su questo punto non mi sento molto tranquillo. Forse non ero loro del tutto antipatico: il nomignolo stesso che mi avevano affibbiato, “sguissen” (ero piccolo, magro, mi muo­vevo a scatti), era, a pensarci bene, cordiale, quasi quasi affettuoso. Tuttavia ero alla mia prima esperienza di insegnante, e di questo non possono non aver risentito. Parlavo con molto entusiasmo dei miei poeti, e questo a loro non dispiaceva, ma ero un po’ impetuoso e lunatico (anche per la fatica del lungo viaggio quotidiano) e, senza dubbio, troppo severo. Non avevo ancora imparato quella misura nel giudizio che nasce dagli anni e dall’e­sperienza; lavoravo molto e pretendevo altrettanto. Solo più tardi compre­si che, soprattutto quando si parla di poesia e di letteratura, si deve lavorare molto e non pretendere, gettare meglio e più abbondantemente che si può il seme, senza l’impazienza del raccolto.

La rievocazione sta diventando un esame di coscienza. Mi trovavo a gestire per la prima volta un potere non trascurabile e delicato e so di avere lavorato con onestà e col dovuto impegno professionale, e di non avere commesso ingiustizie se non per errore, in buona fede. Ma senz’altro ho commesso degli errori, un poco per inesperienza, un poco per non avere sufficientemente approfondito la conoscenza dell’ambiente, un poco per certo egocentrismo giovanile che non mi consentiva di comprendere sempre quei ragazzi come avrei dovuto. Forse, se ci fossimo incontrati qualche anno dopo, loro avrebbero una migliore memoria di me.

Non mi chiedo che cosa può essere rimasto in loro di quello che ho insegnato, in primo luogo in nome della legge della semina e del raccolto che ho enunciato sopra, in secondo luogo perchè sono convinto che la scuola è soltanto un momento della vita, ed è bene che sia così. Sarebbe già molto se a quegli allievi avessi offerto un elemento reale di discussione, di chiarificazione di sé: una ragione seria e valida di mettere da parte quello che dicevo in nome d’una verità migliore e più autentica. La scuola è buona quando forma dei giovani capaci di superare i loro maestri. Spero proprio che questo sia avvenuto.

Ma ritorniamo al Liceo “Pico”. Mi è veramente gradito, e ne ringrazio il Preside attuale, di avere avuto questa occasione di testimoniare che era un buon Liceo, che assolveva con molta dignità una funzione culturale non trascurabile e che l’ho lasciato con rimpianto.

Tratto da: Sessant’anni di vita del Liceo-Ginnasio “Giovanni Pico” – Mirandola 1923-1983

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