Marzo – Usanze e tradizioni nella nostra Bassa

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Disegno di Aleardo Cavicchioni

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…….Ma le usanze marzoline (in perfetta sintonia con questo mese un po’ matto) erano decisamente numerose e anche piuttosto as­surde: si sosteneva infatti che un modo sicuro per evitare i dolori reumatici fosse quello di rotolarsi a terra, in mezzo alla polvere, quando si udiva il primo rombo di tuono dell’anno; chi aveva l’ac­cortezza di ingoiare qualche petalo delle prime violette aveva mol­te speranze di evitare qualsivoglia mal di testa per tutto il corse dell’anno. Qualche granello di sale sparso davanti alla porta di ca­sa teneva lontani i temporali e se proprio il sale non serviva e il temporale stava arrivando, le case e i raccolti potevano essere sal­vati mettendo, sempre davanti alle porte di casa, due bastoncini a forma di croce.

In ogni caso un giorno da guardare sempre con sospetto era il venerdì, perché, come ognuno sa, Gesù Cristo era stato crocefisso proprio di venerdì. E, come è noto, “né di Venere né di Marte non si sposa nè si parte, né si dà principio ad arte”. Di venerdì era buona abitudine, per esempio, non fare nemmeno il bucato. Poi il 19 marzo, giungeva la festa di San Giuseppe, che oggi è la cosid­detta “festa dei papà” ma un tempo, a partire dal 1870, era la festa dei lavoratori, trasferita poi nella giornata del 1 maggio. E il vec­chio “Barnardon” ci avverte che a partire dal 5 marzo “canta il cuc­co”, nel senso che è tornato il cuculo.

SAN BENEDETTO

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“San Benedetto, la rondine sotto il tetto”: questo proverbio era valido una volta perché oggi il nuovo calendario religioso ha spo­stato la festa di San Benedetto dal 21 marzo all’11 di luglio. Sem­bra strano ma è vero. Tuttavia nella vecchia tradizione della nostra gente, San Benedetto da Norcia ricorda non solo il ritorno delle rondini dopo l’emigrazione invernale ma anche l’arrivo della pri­mavera dopo il consueto equinozio primaverile. Per il 21 marzo, infatti, si afferma che è tanto lungo il giorno come la notte.

Tornando a San Benedetto va detto che è un santo decisamente famoso, oltre che popolare, anche perché di recente è stato nomi­nato patrono di tutta l’Europa; era nato a Norcia, in Umbria, nel 480 e poco più che ventenne si ritirò a vita monastica prima a Subiaco e poi, nel 529 a Montecassino, dove fondò il celebre mona­stero e dove fu poi sepolto con la sorella santa Scolastica.

Senza ripercorrere la sua intensa e lunga vita (morì a Cassino nel 547) va detto che la “Regola di San Benedetto” è un documen­to monastico di prim’ordine, che esercitò un grandissimo influsso su tutto il Medio Evo, tanto che si può dire che questa regola sia il codice più autorevole (“Ora et labora”) a cui abbiano attinto i suc­cessivi fondatori di ordini religiosi. E gli effetti di questa regola so­no ben noti agli antichi abitanti della “Bassa” che hanno avuto la fortuna, nei secoli più bui della nostra storia, di essere assistiti e guidati dai benedettini sia di Nonantola che di San Benedetto in Polirone. Ai quali va il merito di avere coordinato l’arginatura dei fiumi Secchia e Panaro, nonché la bonifica di molti terreni.

Ma il nome di San Benedetto è anche indissolubilmente legato alla tradizione del ritorno delle rondini e della primavera; resta an­che una figura di grande importanza nella tradizione agricola della “Bassa” per quanto hanno realizzato i suoi seguaci dopo le inva­sioni barbariche. Questo santo è ricordato come colui che, con l’a­gricoltura, è riuscito a salvare anche moltissime vite umane; perché i seguaci di San Benedetto insegnarono non solo a recuperare alle coltivazioni una parte dei terreni boscosi, ad arare i campi renden­doli coltivabili, ma anche a bonificare le terre salmastre, a costruire villaggi, case, ponti ed edifici sacri. Soprattutto insegnarono alla gente i motivi per cui si doveva lavorare per assicurare a tutti un pezzo di pane.

Assai diffuse erano nelle campagne le medagliette raffiguranti l’immagine di San Benedetto che i suoi seguaci regalarono senza parsimonia: la tradizione suggeriva che portando addosso questa medaglia si era preservati dalle malattie infettive e dagli avvelena­menti e, se esposta verso il cielo, proteggeva le campagne dalle in­sidie e dalle ingiurie del tempo.

IL GIORNO DELL’ANNUNCIAZIONE

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Il 25 marzo la chiesa cattolica ricorda solennemente il miracolo dell’Annunciazione a Maria Vergine; è una festività che risale at­torno al VI secolo e mette in grande risalto la memoria dell’an­nuncio portato a Maria dall’arcangelo Gabriele, l’annuncio solen­ne che la giovane di Nazareth sarebbe diventata la madre di Gesù Cristo, nonostante la sua verginità. La vicenda ha ispirato celebri artisti, fra cui Leonardo da Vinci, Simone Martini, il Beato Angeli­co, il Lippi e molti altri. E anche a questa festività (che natural­mente precede di nove mesi esatti il Natale) sono legate parec­chie tradizioni popolari.

Un tempo si credeva che le violette, anche se raccolte da parec­chi giorni, riuscissero a conservare intatta la loro freschezza e il lo­ro profumo almeno fino al 25 marzo. E questa ricorrenza, nelle campagne, veniva anche chiamata “La Madonna degli obbligati e dei garzoni”, perché in genere coincideva con il rinnovo dei con­tratti dei lavoratori fissi o avventizi nelle campagne.

Nella nostra “Bassa” il 25 marzo era anche un giorno in cui era decisamente sconsigliato portare in casa delle verdure, ad esempio insalata, radicchi o le famose “rizzotte”, che erano radicchi selvati­ci spontanei, abbastanza ricercati ancora oggi. Se si portavano al­l’interno delle abitazioni queste verdure, c’era il pericolo che l’abi­tazione fosse in seguito frequentata anche da rospi, bisce e altri animaletti sgradevoli.

Va aggiunto anche che seppure in piena Quaresima, più preci­samente il quarto giovedì dopo le Ceneri, era stabilita una piccola tregua nell’austerità e nella penitenza: era la cosiddetta festa di Mezzaquaresima, nella quale, almeno per un giorno, la gente pote­va abbandonare le verdure quasi scondite, il tonno e il baccalà. Si faceva un po’ di festa in tutta la pianura padana, compresa la più austera Romagna dove peraltro comandava il Papa. Si riprendeva (specie chi poteva) a mangiare qualcosa di buono, ma soprattutto si procedeva al “rogo della Vecchia” (in Romagna l’ancora celebre “Segavecchia”), un’altra cerimonia di remota origine celtica in cui si dava fuoco ad un pagliaccio di stracci e paglia, appunto la “Vec­chia”, con una sorta di cerimonia pagana legata in qualche modo agli antichi riti propiziatori. Che poi in pratica significavano la fine dell’inverno.

Per concludere il discorso sulle vecchie tradizioni relative all’in­quieto mese di marzo, va ricordata la leggenda secondo cui gli ul­timi tre giorni di marzo sono chiamati “giorni imprestati” o anche “giorni della Vecchia”, che, per tradizione, sono considerati dagli agricoltori giorni cattivi e burrascosi. Infatti una sorta di favoletta non troppo credibile narra che marzo, per castigare un pastore va­gamente irrispettoso, colpevole di non avere atteso l’arrivo del più tiepido aprile per portare al pascolo i suoi agnellini, sconvolse mezzo mondo con pioggia, neve, vento e grandine. Per compiere questa sua crudele ed esagerata vendetta, quel cattivello del mese di marzo si fece aiutare da aprile che, seppure a malincuore, gli prestò tre dei suoi giorni. Uno di essi non fu mai restituito. Ma fac­ciamoci coraggio: in questo mese le ore di luce, sempre secondo il “Barnardon”, aumentano di un’ora e 36 minuti.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Antiche Tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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