La “Spannocchiatura” – La “Spanuciadura”

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Le immagini sono state gentilmente concesse da Gino Bertuzzi

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LA “SPANNOCCHIATURA” –  LA “SPANUCIADURA”

Anche la tradizionale “spannocchiatura”, cioè la separazione delle pannocchie di granoturco (ora tutti lo chiamano mais) era praticamente una sorta di amichevole rito collettivo: questa ceri­monia corale, alla quale prendevano parte, oltre a tutta la famiglia contadina, anche gli amici, i parenti e i vicini di casa, si svolgeva una volta, quando non esistevano ancora le apposite macchine, nella grande aia davanti alla casa contadina (o nel pianterreno del fienile se per caso pioveva). In sostanza, si trattava di liberare la pannocchia di mais dalle grosse foglie che l’avvolgevano (i famosi “scartocci”, che erano molto utili da bruciare ma soprattutto per riempire l’interno dei materassi dei poveri); ma bisognava togliere anche quella specie di “barba” scura che troneggiava sulla pannoc­chia stessa. Momento più antipatico, quest’ultimo, perché questa specie di barba causava un prurito abbastanza fastidioso, al quale però nessuno faceva caso, infine la si sgranocchiava.

Perché, come si è accennato, la spannocchiatura era una ceri­monia collettiva, dove si poteva chiacchierare anche con le perso­ne sconosciute, sia giovani che anziane. In questo festival del pet­tegolezzo erano soprattutto le persone di una certa età a persegui­tare i giovani con i loro interminabili ricordi (che cominciavano immancabilmente con la frase “quando ero giovane io…”), ma so­prattutto era il momento giusto in cui i più giovani avevano l’opportunità, non molto consueta, di parlare con le ragazze. Non ci sono certamente statistiche a questo riguardo, ma sarebbe straordi­nario poter calcolare quante vicende sentimentali sono nate al momento della spannocchiatura: vicende sentimentali che potevano durare solo qualche settimana, ma anche belle e felici storie che si concludevano con sereni matrimoni e con stabili unioni. Tutto me­rito (o colpa) di quel prodigioso cereale scoperto da Cristoforo Co­lombo nel “Nuovo Mondo” e poi emigrato in Europa per la felicità di chi ama la polenta.

Non a caso, nella “Bassa”, a partire dal Seicento, ha avuto pa­recchia fortuna la polenta fatta con la “farina gialla” di granoturco, la quale ha letteralmente sfamato decine e decine di generazioni di povera gente. Ma nella “Bassa” la fantasia culinaria non manca mai e nei secoli scorsi si è pensato di “nobilitare” la vecchia polenta con due varianti di grande successo: la “polenta imbrucada”, cioè condita con i fagioli, altro regalo portato in Europa dai “conquista­dores” spagnoli, poiché anche il fagiolo è originario dell’America , meridionale; ma un’ulteriore variazione sul tema della polenta è la famosa “paparuccia”, un’altra polenta questa volta condita con il classico ragù emiliano e poi addizionata ancora con i fagioli. Que­sta paparuccia era buona calda, ma anche arrostita il giorno dopo, e si produce ancora in qualche casa dove si rispettano le tradizioni della “Bassa” anche a livello gastronomico.

Anche se parecchie abitudini, purtroppo, si sono perdute come, ad esempio, il consumo delle “rizzotte”, quei piccoli radicchi selva­tici di campagna che si condivano con la pancetta messa a rosola­le in padella e con l’olio “buono”, come un tempo veniva chiama­to l’olio extravergine di oliva. Ma dei cibi tradizionali della “Bassa” ci occuperemo più avanti in un apposito capitolo.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Antiche tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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