Luglio – La “Cioccona”

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LA “CIOCCONA”

La rumorosa “Cioccona” che veniva praticata nella “Bassa” fino a qualche decennio or sono era la più crudele, chiassosa e scelle­rata manifestazione di “incultura popolare” che la gente avesse mai realizzato. Queste sciagurate “sceneggiate”, che in certe località prendevano il nome di “ciucona”, di “bulèda”, oppure di “chiariva­ri” e perfino (nel carpigiano) di “maitinate”, erano dirette a ridico­lizzare, con tutti i rumori più beffardi e irriguardosi, quegli sciagu­rati vedovi che avevano l’intenzione di risposarsi.

Oggi diremmo che la cosa fa ridere, che è del tutto giusto che la gente si faccia gli affari suoi, potremmo dire un sacco di cose, ma un tempo un vedovo, o peggio ancora una vedova, che pen­sassero di maritarsi ancora erano personaggi meritevoli soltanto di essere dileggiati pubblicamente nel modo più volgare e chiassoso. Ma perché tanto accanimento da parte di terze persone che nulla avevano a che fare con chi era rimasto vedovo? Sebbene le nozze fra vedovi non rappresentino proprio nulla di grave e sono perfet­tamente ammesse anche dalla Chiesa, e anzi possono essere un valido rimedio contro la solitudine, la fedeltà verso il coniuge pas­sato a miglior vita era, nei tempi passati, assai sentita, tanto che molti popoli dell’antichità hanno sempre considerato le seconde nozze come una sorta di insulto verso la società e verso la memo­ria del coniuge scomparso. Basti pensare che ancora oggi, sebbene in modo assai ridotto, in India le donne vedove vengono arse vive sullo stesso rogo che riduce in cenere le spoglie del defunto marito.

Ma alla base di queste clamorose “cioccone”, un autentico con­certo piuttosto stonato degli strumenti più disparati, c’erano anche, talvolta, motivi nascosti di natura economica. Infatti, quando una vedova lasciava la casa maritale per convolare a nuove nozze, po­teva andarsene portando via la sua dote matrimoniale e la famiglia dello scomparso marito poteva perdere un certo patrimonio, a vol­te anche consistente. E poi poteva essere coinvolto il destino dei figli, anche se questo capitava di rado; ma poteva succedere che in presenza di figli del primo marito, la vedova li lasciasse alla di lui famiglia, con tutti gli inconvenienti e i problemi del caso. Ma, co­me si accennava, era raro che un vedovo si risposasse senza pren­dere con sé la sua prole.

Restava comunque una sorta di malinteso fattore morale, per­ché, secondo un tipo di pensiero assolutamente maschilista, la ve­dova che trovava un altro marito, anche se lasciava trascorrere i termini canonici del lutto, poteva essere considerata almeno frivo­la, per non dire altro, oppure poco seria o incostante, una che aveva dimenticato in fretta il marito defunto e la loro prole. Ovvia­mente, ma in misura assai ridotta, era considerato non troppo fa­vorevolmente il risposarsi da parte dei maschi, ma ad essi si pote­vano perdonare molte cose. Insomma, agli uomini era lecito tro­varsi una nuova donna, ma a queste non si poteva perdonare l’i­dea di passare in un nuovo letto.

Quindi, fin dal Settecento, le donne della “Bassa” che intende­vano risposarsi, cercavano di gestire i preparativi per il secondo matrimonio con tutte le cautele, nel modo più segreto possibile: niente confidenze con le amiche o con le pettinatrici (come erano chiamate un tempo le parrucchiere), niente pubblicazioni in chie­sa, nessun risalto ai preparativi. Ma, in genere, il paese era piccolo e la gente faceva molto presto a mormorare e la “cioccona” era ca­ratteristica tipica dei piccoli centri, dove tutti si conoscevano e i se­greti non potevano esistere. Sta di fatto che nella tarda serata del giorno in cui era avvenuto il matrimonio semi-segreto, tutto il paese era a conoscenza del “fattaccio” e nelle prime ombre della not­te si scatenava il finimondo della “cioccona’’.

Un fiume di gente, uomini, donne e bambini, si dirigeva verso la casa in cui si supponeva che trascorressero la loro prima notte nuziale i due “novelli sposi” e succedeva, come si direbbe oggi, un casino infernale. Ognuno era debitamente armato di una fitta serie di ignobili strumenti “musicali”, come corni da caccia, campanacci per i buoi, padelle, piatti di metallo, tamburi, “garabattole”, fi­schietti e tutto quello che poteva determinare rumori fastidiosi. E in più canzoni oscene, lazzi irripetibili, parolacce a non finire, in­somma la fine del mondo.

Ma non solo: le persone più anziane di Cavezzo, per fare un esempio, ricordano ancora, forse anche con un pizzico di sorriden­te e trasgressiva nostalgia, una memorabile “cioccona” che ebbe luogo sul finire degli anni Trenta, in occasione del secondo matri­monio di una donna appartenente ad una famiglia “bene” del po­sto e con un uomo più giovane di lei. Alla tempestosa cerimonia partecipò veramente tutto il paese, compresi i notabili del luogo.

Alla concitata “cioccona”, infatti, prese parte attiva anche l’avvo­cato Enrico Vezzalini, che sarebbe poi diventato celebre per la sua attività di alto gerarca fascista, tanto da figurare, negli anni ‘40, co­me capo della repressione di Ferrara dopo l’uccisione del federale fascista Igino Ghisellini, nella repressione della Valdossola e infine come giudice nel drammatico processo di Verona, in cui furono condannati a morte Galeazzo Ciano (genero del Duce) e altri ex gerarchi fascisti. (Anche se poi questo Vezzalini non compì mai ge­sti di crudeltà verso i suoi compaesani di Cavezzo, tanto da rispet­tare parecchi partigiani di sua conoscenza).

Questo, per dire che la “cioccona”, era considerata come un movimento popolare, al quale prese parte tutto il paese, che in quell’occasione non si limitò solo alle urla, ai fischi, alle frasi osce­ne e ai rumori più assordanti. Infatti, ad un certo punto uno dei “capi” della manifestazione lanciò un ordine perentorio: “Avanti il letame!” e la casa dei poveri sposi fu anche bombardata con deci­ne di carri di letame e di “sisso”. Un disastro: i testimoni racconta­no che ci volle un mese per ripulire in modo decente la casa degli sposi sfortunati, che tuttavia non tardarono molto a fare la pace con i “bombardieri”.

Il paese di Cavezzo può anche “vantare” (si fa per dire) quella che forse è stata l’ultima grande “cioccona” della piccola storia lo­cale. Una “cioccona” che avvenne nella calda estate del 1949, di cui anche l’autore di queste note è stato testimone oculare. Anche in questo caso la “cioccona” era diretta verso una vedova non più giovanissima alle prese con un secondo matrimonio. Ma, a dire il vero, fu soltanto una manifestazione sonora, con un chiasso enor­me ma senza esagerazioni.

Ma uno dei lati divertenti di queste rumorose sceneggiate stava nel fatto che in qualche altra località della “Bassa” persino gli stes­si novelli sposi fossero coinvolti personalmente: infatti, in qualche raro caso, erano praticamente costretti a sedere su un biroccio trai­nato a mano da qualche animoso volontario e a percorrere le vie del paese o del villaggio trattati come zimbelli. In alcuni altri casi i due “sposini” (che peraltro stavano al gioco, anche se un po’ “pe­sante”) venivano posti a cavalcioni di due asini e costretti a per­correre le strade paesane, provocando un dileggio universale, tan­to fragoroso quanto incomprensibile. Poi, a dire il vero, tutto tor­nava alla normalità e il chiasso goliardico passava nel dimentica­toio. Più amici di prima, a parte i casi in cui interveniva il letame. Ma in qualche rarissimo caso, la faccenda della “cioccona” finiva persino davanti al giudice.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Antiche Tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli

Anno 2006

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