Aprile – “Far bugada”

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LA “BUGADA”

In prossimità delle feste pasquali la gente della “Bassa” aveva la buona abitudine di ripulire per bene le case con le tradizionali “pulizie pasquali”, ma esisteva anche un’altra precisa incombenza, quella dell’estenuante “bucato primaverile” che in dialetto, nel Mirandolese e dintorni, prendeva il nome di “far bugada”, mentre nelle zone di Cavezzo e di San Prospero registrava una piccola va­riante, e cioè “far bugheda”. Ma non cambiava nulla e, tanto per intenderci, bisogna ricordare che nei tempi passati non esistevano le lavatrici e anche i detersivi sarebbero arrivati nella “Bassa” solo con il cosiddetto “miracolo economico” degli anni Cinquanta e Sessanta.

Ogni brava “razdora”, dunque, faceva una specie di piccolo bu­cato settimanale che interessava la roba leggera, cioè le maglie, le magliette, le camicie, i fazzoletti e quello che oggi si chiama intimo e che una volta aveva altri nomi. Ma verso la Pasqua, quando la stagione decideva di mettersi al bello, arrivava il momento del grande “bucato di primavera”, una cerimonia collettiva che in pra­tica coinvolgeva quasi tutta la famiglia, tranne i bambini piccoli. Questo bucatone interessava le lenzuola, quelle matrimoniali e quelle per un solo letto, le federe, i panni invernali e, in definitiva, tutta la roba grossa.

Ma l’operazione-bucato non era semplice: intanto una settima­na prima, era necessario prendere fuori dalla “bugadàra” il grosso mastello di legno destinato appunto al solo bucato, che era poi lo stesso recipiente usato per nascondere i bambini (tutte bocche da sfamare) quando il padrone visitava le case dei mezzadri e dei fittavoli. Questo mastellone era rimasto in cantina per circa un anno e quindi doveva essere “bussato”, un termine dialettale che ‘ignifica riempirlo d’acqua affinché le doghe di legno si gonfiassero fino a diventare fitte e assolutamente impermeabili. “Bussare”, insomma, significava saldare bene fra di loro le diverse parti del mastello.

Intanto la “razdora”, implacabile regista di tutta l’operazione, assieme alle giovani sposine, preparava la grande quantità di ro­ba da lavare, accumulata durante la stagione autunnale e quella invernale.

Finalmente arrivava il giorno del bucato vero e proprio: gli uo­mini non andavano in campagna o in altre attività, mentre nel cor­tile, dentro alla “fugazza” alimentata da un bel fuoco, bollivano i paioli pieni d’acqua. Poi si immergeva la biancheria nel mastello in mezzo all’acqua calda bollente e qui avveniva un primo sommario “prelavaggio” con il vecchio sapone da bucato, che molto spesso veniva anche prodotto in casa, bollendo a lungo le ossa e i resti della macellazione del maiale in mezzo alla soda caustica. Dopo un breve lavaggio, incombenza esclusiva delle donne, avveniva la fase più importante del bucato, durante la quale si usava il detersi­vo più antico del mondo, la cenere. Si sceglieva la parte più fina e più chiara della cenere prodotta dal camino o dalla stufa, che poi veniva mescolata con acqua bollente. Questo intruglio di acqua e cenere veniva quindi posato su un grosso telo, che in dialetto si chiamava “al zindrador”, il quale a sua volta faceva filtrare sul pan­no già in ammollo una sostanza, la “lisciva” (o anche “smoja”). L’o­pera depurante di questo intruglio era notevole, perché riusciva a sbiancare il bucato, fatto soprattutto di lenzuola, federe e asciuga­mani. Insomma la parte più nobile della “lisciva” penetrava nella biancheria con effetti quasi miracolosi, non si sa, forse, per quale miracolo chimico.

La biancheria doveva restare nella “lisciva” per un’intera notte e il giorno dopo, all’alba, le donne chiamavano in aiuto anche gli uomini: perché la biancheria stessa doveva essere “sbattuta” con una certa violenza sull’asse da bucato” e questa operazione dove­va essere fatta più volte.

Restava soltanto da “arsinzare” i panni, cioè sciacquarli per be­ne e poi strizzarli con la maggiore energia possibile. Anche in que­sta operazione definitiva dovevano intervenire gli uomini dotati di una maggiore forza fisica.

Ultima operazione era quella di stendere al sole le lenzuola e tutto il resto: in genere si andava in campagna, lontano dalla pol­vere, lungo le carraie, (in dialetto i “carradori”) che separavano un campo (in dialetto la “ciappa”) dall’altro. Si allestivano lunghe cor­de per stendere tutti i panni, sostenute ogni ventina di metri dalle classiche “forcelle”, cioè lunghi bastoni di legno che nella parte terminale superiore si aprivano a V. La biancheria doveva rimanere al sole per quasi tutta la giornata ed era un autentico spettacolo vedere le lunga file di bianche lenzuola muoversi al vento come le vele di una nave. Poi, nel tardo pomeriggio, la biancheria veniva raccolta con cura e portata a casa, dove le stanze si riempivano di un vero profumo di buono.

A questo punto le donne moderne avrebbero detto che la bian­cheria doveva essere stirata: non è esatto. Le lenzuola dovevano essere “tirate” con forza e con precisione e non certo stirate con il ferro. Il rituale della stiratura si limitava a poche cose e si usava un grosso ferro da stiro pieno di braci bollenti, oppure per le cose piu piccole era impiegata la “pace” (o “pacina”) un piccolo ferro da sti­ro che veniva scaldato posandolo sulla stufa bollente. E alla fine tutta la biancheria veniva riposta con cura nei cassetti dei “comò” o nei guardaroba con profumati rametti di lavanda.

Giuseppe Morselli

Tratto da: Antiche Tradizioni Mirandolane

Autore: Giuseppe Morselli

Edizioni Bozzoli – Anno 2006

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