La Bici degli Antichi Mestieri di Giorgio Meschiari – La bicicletta dell’arrotino (Al Muletta) – Cap. V°

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Giorgio Meschiari

Giorgio Meschiari

La bicicletta dell'arrotino (FILEminimizer)

La bicicletta dell’arrotino (Al Muletta)

Di Maurizio Bonzagni

Particolari 1

Particolari 1

Particolari 3

Particolari 3

L’arrotino era un duro mestiere nel dopoguerra. Nella nostra zona arrivavano dalle montagne del veneto e del Friuli. Non si conosce bene la ragione ma era evidente che si dividessero le zone per non darsi fastidio, non era sempre lo stesso ma dopo di lui non ne passava un secondo, ed erano sempre veneti e friulani. 

Faceva tutta la stagione, da aprile/maggio fino a settembre/ottobre. Mesi lontano da casa muovendosi in bicicletta da paese a paese, riuscendo a mettersi in contatto con la propria famiglia solo attraverso le poste, con delle cartoline fittamente scritte per dare notizie di se, ma solo a senso unico senza mai ricevere notizie da casa a sua volta.

Particolari 2

Particolari 2

Verso le sei di sera chiedeva ospitalità a case di contadini per passare la notte al coperto sotto una barchessa, ricambiando con un servizio gratuito alle famiglie della corte, spesso ricevendo un po’ di pane e un bicchiere di vino. Pochi convenevoli, si andava a letto al tramonto per alzarsi all’alba.

Un piccolo lanternino a petrolio che portava con se per avere un po’ di luce, un po’ di fieno e una coperta. Giorgio ricorda sempre anche una armonica, un passatempo prima di addormentarsi, non una melodia festosa ma una cantilena, lenta, piena di nostalgia che accompagnava l’arrotino prima che si addormentasse nel silenzio della notte. Per questo sulla bicicletta c’è una armonica a bocca, per ricordare l’uomo che andava su quella bicicletta.

Affilava coltelli e lame e aggiustava ombrelli.

Non solo oggetti casalinghi ma arrotava le falci e i falcetti del contadino, le lame da barba, le forbici dei sarti, i coltelli dei salumieri e persino gli strumenti chirurgici dei veterinari e non solo.

La sua bicicletta era una meraviglia di ingranaggi e catene che incantava i bambini da cui immediatamente veniva circondavano. La corona centrale mossa dai pedali è doppia, possono così alloggiare due catene diverse, la prima trasmette il movimento alla ruota, la seconda fa girare una seconda corona che trasmette poi la rotazione alla mola abrasiva. Facendo cadere una o l’altra catena l’arrotino decideva cosa far girare pedalando.

Per alloggiare la mola la canna centrale è ricurva, con una staffa che lega il supporto anche alla seconda canna centrale per aumentarne la  stabilità. Inutile dire che si tratta di una bici da lavoro, con telaio di maggior spessore ed indubbiamente costruita da un artigiano.

Giorgio l’ha trovata come la vediamo al mercatino di San Giovanni in Persiceto, l’ha solo svecchiata dagli anni di incuria.

Le ruote e i parafanghi sono molto larghi, si costruiva la bicicletta con quello che si aveva e qui probabilmente ruote e parafanghi sono state recuperate da quelle di un carrettino.

Dietro alloggiava il banco da lavoro e davanti la cassetta in legno con gli attrezzi e gli oggetti personali, poche le cose per sé, solo l’essenziale.

Il robusto cavalletto è costruito per sostenere l’arrotino durante il lavoro, inclinato per avere maggiore stabilità e con un rinforzo che punta sul tubo posteriore per mantenere la bici ancora più ferma durante la pedalata per far funzionare la mola.

Una bicicletta molto ingombrante e pesante, impegnativa e faticosa da portare, con la quale l’arrotino percorreva mediamente 20-30 km al giorno.

Il fanale è a carburo. Come quello nella bicicletta del pompiere. Dal piccolo serbatoio superiore cade una goccia d’acqua sul carburo contenuto nel serbatoio di sotto e per reazione si produce l’acetilene, il gas che alimenta la fiamma passando attraverso un ugello. Una fiamma bianca, chiara, molto luminosa, spesso chiamata dalle nostre parti “acentilena”.

Il fanale dietro ancora non serviva, non c’era un gran pericolo di venire tamponati, bastava un catarifrangente, la “gemma”, già rossa fin da allora.

Il segreto per arrotare bene le lame è quello di non far girare troppo forte la mola ed impedire che il metallo si surriscaldi, perciò si versava acqua sulla pietra con un dosatore, regolando la cadenza delle gocce.

Dal muletta si portavano sempre anche gli ombrelli, per ripararne al scòdsi, le costole, o meglio le stecche di acciaio, i loro incastri e le leve, e sostituiva i manici.

Una vita quasi da emigrante quella dell’arrotino che oggi facciamo fatica anche solo ad immaginare ma che nei primi anni del dopoguerra riusciva a garantire un’esistenza dignitosa alla famiglia lontana.

Un oggetto curioso è infine agganciato al manubrio, pur rimanendo in tema non ha però niente a che fare con l’arrotino, è un porta cote, la punta di un corno di bue che il contadino riempiva con un po’ d’acqua e appendeva alla cintura, per tenere la cote, la pietra ad acqua abrasiva per fare il filo alla lama della falce, la préda da guzzar l’msòra.

Nel prossimo capitolo la bicicletta del fornaio (Al Furnar)

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