Il tempo del “Gnagno”

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Il lettore che si appresta a leggere questa “lettera” forse non sa che proviene da un libro “Saluti da Mirandola” edito da “Al Barnardon” scritto da Vilmo Cappi e Giuseppe Morselli nel lontano 1986 e, visto il gran successo, ristampato nel 1991.

Gli autori, fingendo di scriversi lettere, parlano della loro Mirandola “come dell’ombelico del mondo e partono dal presupposto che la vecchia Città dei Pico sia più importante di Roma  e di New York. Sono vagamente tendenziosi, dato che ritengono che tutti i mirandolesi dovrebbero amare di più la loro Città, dalle autorità comunali al cittadino.”

Queste epistole sono all’interno di numerose illustrazioni di cartoline d’epoca generosamente messe a disposizione dal “Circolo fotografico mirandolese”.

Caro Vilmo,

scusami se in questi ultimi giorni ti perseguito un po’ con le mie lettere, ma lo strano “gioco delle parti” che ci siamo imposti mi sug­gerisce di scriverti ancora. La cosa mi fa un po’ sorridere, perchè forse tu sarai uno degli ultimi a leggere questa lettera. Il guaio è che non ho assolutamente nulla da dirti; allora il discorso ricade su una cosa che certamente abbiamo in comune, vale a dire l’affettuosa pas­sione per questa nostra vecchia Mirandola. Con il pretesto di un libro sulle cartoline antiche della nostra città, ci stiamo trasformando, con un pizzico di presunzione, in cantori della storica Signoria dei Pico. È un “vizio assurdo” che ci portiamo addosso, per il quale tuttavia chiediamo perdono ai nostri pazienti lettori, ammesso che ne trovia­mo qualcuno.

Il fatto più grave è che questo strano male sottile, questa malattia per Mirandola ha contagiato non solo gli autori di questo libro, ma anche gli altri stravaganti personaggi mirandolesi come Leonardo Ar­tioli e Franco Bozzoli, due tipi che si divertono a pubblicare con in­cosciente puntualità un vecchio lunario dialettale al quale anche noi due siamo affezionati, tanti altri amici che assistono alle nostre serate dell’ “Ordan dal Barnardon”. Nemmeno tu, che sei illustre medico, sei ancora riuscito a disintossicarti da questa malattia, che in fondo poi non fa male. Però è un fatto che le vecchie cartoline di Mirando­la, i libri vecchi e nuovi che parlano della nostra città, le stampe, i documenti, le monete, tutto ciò che ricorda un certo passato, ormai irrecuperabile, sono perfino oggetto di scambio commerciale talvolta accanito, certe cose vanno perfino a ruba. Non è un caso, per esem­pio, se un mirandolese autentico come Luigi Benatti, ha realizzato una ristampa delle vecchie Memorie Storiche di padre Pompilio Pozzetti.

Ciò significa, caro Vilmo, che l’amore per la Mirandola, per la sua cultura, per i suoi umori, per quella sua strana condizione di es­sere molto più di un paese di campagna e appena un po’ meno di una città, con tutti i pregi e i difetti che derivano da questo stato, non è affatto tramontato, come qualcuno ritiene.

Forse può anche darsi che dall’alto questo fatto non sia sempre avvertito nella sua completezza e che talvolta si punti a strane e in­comprensibili esterofilie, ma non importa.

La vera Mirandola è quella che vediamo, ogni giorno, fatta di gente cordiale, di gente pronta alla battuta e allo scherzo, ricca di hu­mor (credo che sia la prima parola straniera che uso) e di buonsenso, anche campagnolo. Ma anche su questo punto bisogna cominciare a intenderci: una vecchia e stantia iconografia da giornale, di provin­cia, fa vedere la gente della Bassa eternamente ritratta con il tabarro e il cappello, come si usava tanti anni fa. Pare sempre che i mirandolesi siano dei vecchi mediatori di un tempo, con il rituale cappello di feltro, il non meno rituale tabarro scuro, magari con lo stecchino in bocca, il bastone da paratore e il biglietto della corriera infilato nel nastro del cappello.

Beh, caro Vilmo, diciamo la verità: i mirandolesi, la gente della Bassa, non hanno più nulla a che fare con questo logoro stereotipo. Ora Mirandola conosce la tecnologia, certi personaggi nati e vissuti nella città dei Pico finiscono con pieno merito sulle pagine di “Il Sole – 24 Ore” come pionieri industriali, le tante fabbriche che circonda­no Mirandola non hanno più nulla a che vedere con una realatà che è scomparsa. Anche nelle campagne oggi si usa il computer e il vec­chio ”razdor” ha lasciato spesso il posto al manager (che è poi una parola inglese che vuol dire “razdor”).

E la gente che passeggia e chiacchiera sul “listone” non rappresenta più un fatto folkloristico, anzi talvolta sembra di essere a Milano, in piazza degli Affari, perchè anche qui si parla di borsa, di azioni, di fondi comuni di investimento, di Bot e di Cct. È pur vero che c’è sem­pre il solito spiritoso che gioca sull’equivoco della parola borsa, op­pure sostiene che il tale ha preso un “sac ad Bot”. Capita spesso, ma sul “listone”, come tu sai, capita un po’ di tutto. Ecco il “listone”. Un tempo, ormai molto lontano, ne ignoravo ad­dirittura l’esistenza, anche se certamente l’avevo visto. Adesso ne sono uno sporadico ma interessato frequentatore. Eppure da qualche parte lessi che anche a Verona c’era il “liston” di piazza Bra, quella del­l’Arena. e sapevo che era il luogo dove il popolo veronese, mescolato ai signori, intavolava le sue abituali, “ciacole” in cui si parlava male di tutti, esclusi i presenti, si ammiravano le belle ragazze e si facevano le riverenze alle signore con tutte le prescritte levate di cap­pello. Un amico veronese mi ha illustrato un giorno la complessa li­turgia della “scappellata”: quando si salutano le signore di alto rango, quelle della “Verona bene”, ci si toglie il cappello del tutto, con l’ag­giunta di accurato e prolungato cenno del capo; quando si incontra un signora non proprio di rango, si fa soltanto una parziale alzata di cappello; se invece la signora è di serie C, allora ci si tocca solo il cappello. E se la signora è soltanto bella? Beh, allora si entra in un altro campo, con un rito completamente diverso e più articolato, co­me si direbbe oggi.

Ma cosa diavolo c’entra Verona con Mirandola, dirai tu. Non c’en­tra un cavolo, anche se le due città hanno in comune il “listone”.

Una semplice “laga” sul listone, inoltre, ti fa scoprire la vera dimensione della città dei Pico. Intanto si apprendono in brevissimo tempo tutti i fatti più importanti del giorno e uno come me, che fa anche il cronista di campagna, resta sempre aggiornato. E poi, ripe­to: è impossibile stabilire se Mirandola sia una piccola città o un grosso paese. E una splendida via di mezzo, con tutti i vantaggi e gli svan­taggi di questa sua condizione. E perciò sul “listone” (ma anche nei caffè) ci si conosce un po’ tutti, si fanno i raggi X a quasi tutti, si parla del più e del meno, che poi in fondo si riduce a poche cose.

Prima i soldi (e qui si fanno accurate valutazioni del patrimonio im­mobiliare e mobiliare di ciascun mirandolese, una specie di estratto- conto dei suoi beni, dei suoi crediti, e dei suoi debiti, compresi quelli di gioco, insomma una specie di “borsa” azionaria di tutti i mirandolesi).

Poi le donne, quelle belle e quelle brutte, lunghe disquisizioni sui loro vizi privati e sulle pubbliche virtù, sulla loro bellezza e sui loro “giri”, veri presunti o inventati. Se si potesse fare un censimen­to sommario di tutte le donne che, secondo la voce del “listone”, hanno qualche interesse amoroso di natura extraconiugale, si potrebbe tran­quillamente scrivere che Mirandola è la città più licenziosa d’Italia, una delle più lascive d’Europa. Per fortuna, una altissima percentua­le delle “voci” è soltanto frutto di fantasia. Sempre in tema di don­ne, da parte dei più anziani, o comunque dei meno giovani, nascono sul “listone” anche infiniti apprezzamenti quando passano giovani don­ne piuttosto avvenenti o belle ragazze, prodotti della natura che nella nostra città non mancano di certo: si sentono definizioni leggendarie, propositi tanto pittoreschi quanto irriferibili, valutazioni estetiche ed erotiche che sembrano autentici poemi. Insomma, anche questa è, a suo modo, poesia, magari con termini che tu, da buon viveur, certa­mente conosci, ma che io non posso certamente riferire.

Poi si parla anche di sport: e qui il campo è terribilmente vasto. Si discute su tut­to, su Moser e sulla Panini, su Cova e su Meneghin, sulla pallacane­stro e sull’hockey a rotelle, ma le vere battaglie si accendono quando l’argomento cade sulla Juventus, sull’Inter o sul Milan, con il corol­lario di qualche discussione sul Napoli, fomentata da qualche “com­mando” di simpatici meridionali trapiantati a Mirandola. Qui ci sono davvero fratture inseparabili, ci si può trovare d’accordo su questioni politiche di grande rilievo, anche sul colonnello Gheddafi, ma i due veri grandi “partiti” di Mirandola sono composti da Juventini e anti­Juventini. Qui si entra nel delicato ingranaggio delle questioni di fe­de, che travalicano e superano ogni altra convinzione.

E poi c’è sempre presente il “leit-motiv” della Mirandolese: questa vecchia gloriosa società, fondata nel lontano 1920 da alcuni perso­naggi di quel tempo ormai remoto, come Tinchelli, Comini, Moi, Salvioli e Tioli, fa sempre discutere. Negli ultimi tempi, come tu forse non sai, non avendo grossa dimestichezza con lo sport, ha conosciuto vicende che i fin troppo disinvolti cronisti sportivi hanno definito dram­matiche, con grandi sconquassi societari, con personaggi e vicende che hanno sconvolto il tranquillo mondo calcistico mirandolese. Discussioni a non finire, interpretazioni le più disparate, polemiche che in qualche caso hanno raggiunto perfino l’astio. Insomma la vec­chia Mirandolese fa sempre parlare di sè, più di Gheddafi, di Craxi e di Reagan messi assieme. Le discussioni sono prevalenti nei mesi estivi, quando ci si deve preparare per la stagione agonistica immi­nente. Ma di calcio si parla tutto l’anno.

Come sempre, caro dottore, come tu avrai notato, sono finito fuori tema, parlando più del presente che del passato. Eppure tutti noi, quei pochi che scrivono e quei non molti che leggono, abbiamo un passato ricco di tradizioni, di sogni, di curiosità.

A me, straniero di Cavezzo, ha sempre incuriosito moltissimo quello strano gioco che facevano i ragazzi di Mirandola, il gioco del “gnagno”. Qualcuno più esperto di me afferma che questo gioco mirandolese, fatto con alcuni baston­cini di legno, è il predecessore del baseball americano. Certamente c’è qualcosa di vero in questa affermazione.

Ma dove è finito questo meraviglioso modo di trascorrere qualche ora spensierata e di rompe­re le vetrate di qualche casa? Ricordo che il lanciatore del “gnagno” aspettava la parola “vegna” ed effettuava il lancio, il più lontano possibile. Il proiettile era, come si è detto, un pezzetto di legno, sapien­temente lavorato.

Ma dove sono finite la “stecca”, la “bandiera”, lo stupendo “zaccagn”, e poi il gioco del “cucù”? Ma in questo tu mi sembri maestro e dotto. Verrebbe voglia di dire caro Vilmo, che qualcuno volò sul nido del “cucù”. Ma è meglio lasciar stare.

Certe cose non sono più ripetibili, oggi c’è Goldrake e Candy Candy, le bambole parlano.e fanno la pipì, i giovani sanno tutto sui Duran Duran, noi conosceva­mo soltanto “Tajadela”. I tempi cambiano, soltanto le nostre vec­chie cartoline restano. Tanti saluti

Giuseppe

One Response to Il tempo del “Gnagno”

  1. Jole Ribaldi says:

    Straordinari!!!

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