Il segreto di Ulisse – Capitolo 25° e 26°

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Capitolo 25

Era davvero prestissimo quando i ragazzi si incontraro­no al solito posto, vicino alla scuola.

Tutti e tre apparivano un po’ scombinati a causa del­la stanchezza accumulata nelle settimane precedenti e dell’ennesima levataccia mattutina.

Martina era sempre bellissima, ma profonde e scu­re occhiaie le velavano un po’ lo sguardo, solitamente limpido come acqua di sorgente; Marcello, neanche a dirlo, si era infilato i primi vestiti che aveva trovato in giro per la sua stanza e assomigliava decisamente a un barbone; Brando, pure, aveva la camicia fuori dai jeans e gli occhiali un po’ di traverso sul naso.

Sbadigliarono all’unisono quando arrivarono sul sa­grato della chiesa da tre direzioni diverse e si salutarono senza parole, con un semplice gesto della mano.

Poi Marcello, che proveniva dalla piazza principale, proprio di fronte alla chiesa, ebbe un inusuale impeto di romanticismo e bofonchiò: «Certo che con i raggi del sole nascente che ci battono sopra, quel pugnale confic­cato nel campanile della chiesa sembra proprio d’oro…».

«Cos’hai detto?» urlarono in coro Brando e Martina, sgranando gli occhi come pazzi.

«Ma siete sordi? dicevo che…» a quel punto anche Marcello realizzò di aver detto involontariamente una cosa che forse avrebbe potuto risolvere il mistero di tutta la faccenda.

«Pugio, il pugnale, ecco, quello è il pugnale, quello è il segno, lì c’è il medaglione, ne sono sicuro. Marcello, sei fantastico, se non fossi così brutto ti bacerei!»

Picchio e Martina, come indemoniati, saltellavano e si abbracciavano davanti a un Marcello del tutto esterrefat­to, ma consapevole e orgoglioso di aver dato, anche se del tutto involontariamente, una svolta alla loro ricerca.

«E chi ci pensava a quel pugnale, che sta lassù da secoli! Oltretutto si vede bene solo in determinate ore della giornata e con certe condizioni di tempo. Lo abbia­mo sempre avuto sotto gli occhi! I vecchi mirandolesi ne raccontano di tutti i colori sull’argomento, ci sono mille leggende, si dice addirittura che togliendolo crollerebbe tutta la chiesa, ma in realtà nessuno ha mai saputo con certezza chi ce l’abbia messo e perché. Ora lo sappiamo e dobbiamo assolutamente raggiungerlo!»

Brando pareva davvero impazzito, tanto era l’entu­siasmo che lo aveva preso.

Martina, che nel frattempo si era un po’ calmata, chiese timidamente: «E come facciamo ad arrivare fin lassù? Sembra un po’ la storia della Spada nella Roccia: qualcuno di noi sarà in grado di estrarlo?».

Questa volta a rispondere fu Marcello, come sempre uomo d’azione.

«Per arrivare fin lassù ho già un piano. Possiamo en­trare nella torre campanaria e salire le scale fin dove possibile, poi troverò un modo per aiutarvi a raggiun­gere il pugnale. Mi sembra che ci sia una finestrella proprio sotto. Se e chi di noi potrà estrarlo, è un’altra faccenda, troppo magica per me, che sono così terra terra. Lì dovrete provare voi due stregoni. Ma dobbia­mo farlo all’alba, secondo me. Di notte non vedremmo niente e rischieremmo di cadere e romperci l’osso del collo. Di giorno si accorgerebbero subito di noi e fini­remmo al Commissariato in meno di un secondo, visto che oltretutto è proprio dietro l’angolo. Sì, ci muoveremo domattina alle cinque. Oggi andrò in ricognizione per vedere che la torre campanaria sia agibile e vedrò di trovare l’attrezzatura necessaria, tronchese, scalpel­lo, martello, corde, ganci di sicurezza. Bisogna essere attrezzati per certe imprese.»

segreto

Capitolo 26

Il mattino successivo, esattamente alle cinque, i ragazzi si trovarono al solito posto. Questa volta erano per­fettamente svegli, ma estremamente agitati. Marcello portava un grosso zaino sulle spalle e assomigliava vaga­mente a Diabolik: indossava una tuta aderente nera, che stonava decisamente con i capelli da rasta; l’insieme era quanto mai ridicolo. Mancava solo che si fosse anche sporcato la faccia con il nero fumo!

Il sole non era ancora sorto, ma la notte stava sce­mando e il chiarore consentiva comunque di vedere abbastanza bene.

«Allora, ragazzi, poche ore fa ho fatto un piccolo so­pralluogo. I frati dormono dall’altra parte del vecchio convento e non possono sentire niente. Il cancelletto di accesso alla torre campanaria era chiuso con una catena arrugginita e un lucchetto che ho già provveduto a rimuovere. Le vecchie scale di legno scricchiolano parecchio e sembrano anche tarlate, cerchiamo di salir­le lentamente, uno alla volta, restando vicino al muro, non vorrei che il legno cedesse all’improvviso. Proprio alla fine della scala, nella stanza delle campane, c’è una finestrella con un piccolo davanzale. Sporgendosi un po’ e guardando verso l’alto si può vedere il pugnale confic­cato tra i mattoni della cuspide del campanile, ma non si può arrivare a toccarlo direttamente, mancano circa tre metri. Per fare più in fretta, visto che il sole sorgerà tra poco, stanotte ho lanciato una fune, agganciandola alla croce di ferro in cima al campanile. Bisognerà arram­picarsi un po’, ma dopo l’esperienza alla Grotta delle Ninfe, quando Picchio è caduto in quel buco, direi che nessuno di noi tre ha problemi con il climbing.1) Vedo inoltre che per una volta siete stati saggi e avete indos­sato un abbigliamento adatto. Bene. Qualche domanda prima di procedere?»

Martina e Brando erano esterrefatti dall’organizzazio­ne puntigliosa di tutta la faccenda da parte di Marcello. Effettivamente, quando c’era in ballo qualcosa di mo­vimentato, lui era la persona più giusta per pianificare tutto. Non era poi così scemo come poteva sembrare: era semplicemente un uomo d’azione, i ragionamenti dotti li lasciava a qualcun altro!

«Andiamo» rispose Picchio risoluto, lanciando uno sguardo a Martina.

Si avvicinarono al cancelletto di ferro battuto che immetteva nella torre campanaria: esso si aprì silenzio­samente, perché Marcello aveva oliato i vecchi cardini arrugginiti durante la notte. La catena e il lucchetto gia­cevano in un angolo, ben nascosti.

I ragazzi si ritrovarono in un angusto pianerottolo, dal quale iniziava Immediatamente la scaletta a chiocciola, ripidissima e inquietante: pareva perdersi verso l’alto, nel buio più assoluto, senza fine.

Con Marcello in testa, i tre salirono lentamente i gra­dini: a ogni passo una fine polvere di legno ricadeva al suolo. Era chiaro che i frati non utilizzavano la scala da anni, poiché le campane venivano attivate con un dispositivo automatico posto direttamente all’interno del convento.

Fitte ragnatele, forse vecchie di secoli, sfiorarono i loro visi, accesi per l’eccitazione, ma i ragazzi non se ne accorsero nemmeno. Finalmente giunsero nella stanza delle campane, il cui pavimento era una sorta di sop­palco di legno.

Marcello bisbigliò: «Non camminate al centro della stanza, il pavimento di legno è in condizioni peggiori della scala, potrebbe cedere da un momento all’altro».

Rasentando quindi i muri di pietra, i ragazzi si affac­ciarono con cautela alla finestrella indicata da Marcello e guardarono verso l’alto. La loro intrusione destò alcuni piccioni che dormivano sul davanzale e che, infastiditi, volarono via.

Effettivamente il pugnale non era raggiungibile nean­che salendo in piedi sul davanzale, e la fune agganciata in precedenza da Marcello, pendeva poco invitante nel vano della finestra.

Marcello ne saggiò ancora una volta la resistenza dando alcuni secchi strattoni e si voltò verso gli amici sussurrando: «Chi vuole andare per primo?».

All’unisono Martina e Picchio gli risposero sottovoce: «Vai tu, che sei più palestrato e agile. Vediamo se riesci a estrarre il pugnale, altrimenti andremo noi».

Marcello, che si aspettava quella risposta, indossò una imbracatura di sicurezza e la agganciò alla fune penzo­lante. «Mi sono scordato di dirvi che alle sei precise le campane inizieranno a suonare a dirotto e noi dovremo aver finito per quell’ora ed essere usciti di qui, altrimenti diventeremo sordi per il rumore.»

Dopo quell’ennesimo inquietante avvertimento, pun­tò i piedi sul davanzale e iniziò lentamente la salita.

In breve raggiunse il pugnale: nel chiarore del primo mattino appariva davvero un’arma magnifica, anche se rosa dalla ruggine di secoli. L’impugnatura era fatta a “S” e finemente istoriata, la lama affondava per tre quarti della sua lunghezza tra i mattoni del campanile.

Il ragazzo, sempre reggendosi alla fune, provò a tira­re, dapprima con dolcezza, poi con sempre maggiore forza, ma il pugnale non si mosse di un millimetro. Prese allora dalla cintura uno scalpello e tentò, cercando di fare meno rumore possibile, di scalzare le pietre che racchiudevano l’arma. Neanche questa volta il maledet­to pugio volle muoversi. Dopo ulteriori vani tentativi, Marcello si dette pervinto e ridiscese lungo la corda.

«Allora?» bisbigliarono Martina e Brando che aveva­no atteso con il cuore in gola.

«Niente. Ho raggiunto il pugnale, ho tirato e ritirato, ho persino provato con uno scalpello, ma niente. Se ne sta lì bello fisso, come se l’avessero appena cementato nel muro. Non posso usare un martello, farebbe un bac­cano infernale e sveglierebbe tutta la città! Non so più cosa dire, andate voi. Forse c’entra davvero la magia. Forse c’è solo una persona che può estrarlo, una sorta di designato, che ne so. Però sbrigatevi, perdinci, sono già le cinque e mezzo, non dimenticate le campane. Non voglio essere costretto ad andare in giro per il resto dei miei giorni con un apparecchio acustico!»

«Vado io» disse improvvisamente Martina.

«Martina, d’accordo che sei una strega, però mi sem­bra troppo pericoloso per una ragazza. Lascia andare me, per favore. Potresti farti male» sussurrò Brando, preoccupato.

«Ho detto che voglio provarci io! Marcello, legami l’imbracatura, presto.»

La ragazza era determinata. Forse, se davvero la ma­gia aveva a che fare con quella faccenda, lei era la per­sona più giusta, o, almeno, sperava di esserlo.

Si ripetè quindi la stessa scena: Martina si arrampicò lungo la fune, fece mille tentativi, tirò, spinse, torse il pugnale, ma l’arma rimaneva saldamente al suo posto. Provò anche a concentrarsi su Canente, chiedendole mentalmente aiuto, ma senza alcun risultato, madida di sudore per lo sforzo e l’agitazione, ridiscese quindi cautamente la fune e raggiunse gli altri.

Scosse il capo: «Niente da fare, non vuole muoversi. Ormai resti solo tu, Brando, sei la nostra ultima speran­za. Vai, svelto!».

Brando, che dei tre era sicuramente il meno atletico, si accinse con un certo patema all’impresa. La sua salita richiese un po’ più tempo, aveva le gambe malferme e le braccia gli tremavano per lo sforzo.

Quando finalmente riuscì a toccare il pugnale, non potè fare a meno di notare la squisita fattura dell’arma, ma il tempo stringeva e non poteva gingillarsi in apprez­zamenti di tipo artistico.

Si preparò a tirare con forza, puntellandosi ben bene con i piedi e reggendo la corda con la mano sinistra, mentre con la destra afferrò l’impugnatura.

Il pugnale scivolò dolcemente fuori dalle pietre, co­me da un fodero ben oliato, ma la forza che il ragazzo aveva impresso al proprio movimento era stata talmente eccessiva da sbilanciarlo. Per alcuni interminabili secon­di rimase sospeso solo all’imbracatura di sicurezza e a fatica riuscì a riacquistare una posizione stabile, con il cuore in gola per la paura.

Ma il pugnale era saldo nella sua mano. Lo infilò nella cintura dei pantaloni della tuta e cercò di smuovere le pietre che avevano racchiuso l’arma. Una di esse si scalzò immediatamente, cogliendolo di sorpresa. Non fu lesto ad afferrarla e il sasso precipitò al suolo con un fragore impressionante.

Restava poco tempo, e forse il rumore aveva svegliato qualcuno!

Infilò la mano nel vuoto lasciato dal mattone e perce­pì un oggetto, qualcosa di viscido, ammuffito e maleodo­rante. Senza più esitare lo afferrò e se lo cacciò in tasca. Qualunque cosa fosse quel grumo nero e puzzolente, lo avrebbero scoperto con calma fuori dalla torre campa­naria: mancavano solo cinque minuti alle sei.

Ridiscese velocemente lungo la fune e arrivò alla stanza delle campane.

«Ce l’ho, il pugnale è uscito e dietro a una delle pietre ho trovato qualcosa. Ma ora scendiamo subito, le cam­pane inizieranno a suonare tra pochi secondi!»

I ragazzi si precipitarono lungo la scaletta di legno e proprio mentre erano ormai giunti alla fine, un rombo squassò l’intero edificio. Calcinacci e polvere caddero dall’alto sulle loro teste, un boato risuonò minaccioso, un sinistro scricchiolio indicò che la scala stava cedendo.

Riuscirono a mettersi in salvo nel sagrato della chiesa solo pochi secondi prima che la scala e il soppalco di legno crollassero al suolo disintegrandosi con un fragore assordante.

 

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