I “Paroni”della Bassa

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Molte strade della Bassa Modenese, che scorrono parallele al corso del Secchia, del Panaro e di alcuni canali, sono state costruite sulle vie alzaie del Medioevo.

Ma cosa sono queste vie alzaie? La parola “alzaia” indica la fune con la quale in passato venivano trainate controcorrente le navi che percorrevano fiumi e canali, ed helciarii erano chiamati in epoca roma­na gli uomini addetti a tale trascinamento. Un bassorilievo gallo-romano conservato ad Avignone nel Museo Calvet ci restituisce intatta l’immagine di una barca di forma affusolata ed arcuata (assai simile ad una rascona), trainata con il sistema dell’alaggio, ossia tramite un grosso canapo legato all’albero ed impugnato sull’argine (pista d’alzaia) dagli helciarii. Tale pra­tica – con l’unica differenza che gli helciarii furono in seguito sostituiti da buoi e cavalli – è rimasta invariata per millenni sino al 1820, l’anno in cui nell’area padana fu introdotta la navigazione a vapore.

Nemmeno due secoli ci separano dunque da una consuetudine di origine antichissima, e che nel passato vide emergere le figure dei paròn de barca (i padroni di una barca), chiamati comunemente paroni: una categoria che, esaminando la storia di Finale Emilia, nel secolo XVII risultava, in questa città la più importante nell’elenco di arti e mestieri. La storia alla quale mi riferisco va dalla seconda metà del Duecento sino al 1890, l’anno in cui tale località (che sino al 1863 fu chiamata “il Finale di Modena”), perse la sua caratteristica di città d’acqua a causa della deviazione del canale che attraversava il suo centro.

Situato sul canale Naviglio, il quale collegava le città di Modena e Fer­rara, sin dalla seconda metà del XIII secolo il Finale si era dotato di un porto fluviale; la sua importanza strategica si accrebbe a partire dal 1598 quando, con il trasferimento della capitale dello Stato estense da Ferrara a Modena, esso venne a trovarsi in una posizione di confine con lo Stato pon­tificio. Oltre all’Arsenale Ducale (dove era stata ricoverata la flotta del duca Cesare d’Este, trasferita dall’Arsenale San Giorgio di Ferrara e da quello dell’Isola di Ponte Lagoscuro), il Finale ospitava un altro arsenale dove si fabbricavano navi di notevole stazza: lo desumo da una lettera, inviata l’11 aprile 1611 dal governatore del Finale Jacopo Bertacchi al segretario ducale Giovan Battista Laderchi, nella quale il governatore esprimeva la propria preoccupazione al riguardo di un’ordinazione inoltrata all’arsenale del Finale da Pietro Antonio Targa, veneziano: il Targa aveva richiesto la costruzione di un grippo (ossia di una nave mercantile a vela), per completare il quale era previsto un lavoro di quattro mesi, e l’abbattimento di una quantità di roveri talmente grande da pregiudicare la popolazione del borgo.

Ritengo che l’edifìcio in cui si costruivano le navi fosse ubicato nell’odierna Via Arsenale, a nord-est dell’attuale “Casa Protetta”, dove è ancora visibile il residuo di una struttura muraria che suppongo facesse par­te del perimetro dell’antico arsenale, forse ricostruito più volte in epoche successive alla sua fondazione, per ovviare ai danni causati dai frequenti straripamenti del vicino Canaletto dei Mulini.

Nel 1636 vi lavoravano tre famiglie (circa 15 persone) di calafati, ossia costruttori di navi, principal­mente rascone, burchi, burchielli e bucintori, le stesse che venivano usate dai paroni del Finale per condurre merci e persone da questa località a Fer­rara o a Modena, e viceversa.

La navigazione era regolamentata da appositi capitoli: in quelli redatti il 28 aprile 1596 si ordinava ai paroni di trasportare gratuitamente ogni giorno la corrispondenza che intercorreva tra l’autorità centrale (il duca) e quella locale (podestà o governatori), inoltre si stabiliva che per il nolo della nave ad ogni parone spettavano di diritto lire dieci all’ora per ogni viaggio dal Finale a Ferrara, e lire otto da Ferrara al Finale; nel caso in cui le merci e i passeggeri trasportati fossero stati insufficienti a coprire tale pedaggio, i passeggeri avrebbero dovuto pagare il supplemento necessario a raggiunge­re la suddetta cifra. Qualora nel corso del viaggio la navigazione fosse stata impedita dalla scarsità d’acqua, le persone avrebbero dovuto essere sbar­cate per proseguire a piedi, dopo aver pagato al parone il prezzo necessario al trasporto su appositi carri delle loro mercanzie (per lo più botti di vino e mastelli d’olio, sacchi, valige e fagotti). Solitamente, quando la portata d’acqua era favorevole, la nave partiva dal porto del Finale situato sotto alla Chiusa oppure dal canale di Cavamento.

Giungeva a Ferrara dopo quattro o cinque ore di navigazione.

Nel 1627 i paroni del Finale erano assai numerosi, se ne contavano addirittura 44, ma nel 1636 si erano ridotti a 36, un numero tuttavia assai alto se confrontato con quello di altre categorie professionali (vi erano 20 sarti, 14 merciai e altri artigiani, in numero decrescente).

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Organizzati in un potente corporazione, i paroni del Finale veneravano quale loro patrono San Nicola da Bari, protettore dei naviganti, e furono probabilmente essi che commis­sionarono nel Settecento al pittore modenese Antonio Consetti un quadro, raffigurante il Santo e un suggestivo scorcio del Finale con il Bacino della Chiusa, che si trova nell’odierna chiesa del Seminario: sino a poco tempo fa al centro del paliotto sottostante al quadro spiccava un medaglione, dipinto a tempera, con l’immagine di San Nicola nell’atto di benedire una rascona, della quale era visibile la prua».

Tuttavia nel territorio della Bassa Modenese solcato dal corso del Pana­ro esistevano paroni anche a Camposanto, Bomporto e Bastiglia, sia pure in numero assai inferiore a quelli del Finale.

Da un documento dell’anno 1626 apprendiamo che questi ultimi erano a quell’epoca 35, sedici dei quali possedevano navi «proporzionate a condurre le persone, più che le robbe… tra le quali vi sono bucintori».

Il bucintoro, di origine veneta, era senz’altro la più bella e imponente tra le navi, con poppa e prua molto curve di sagoma eguale, due alberi e una cabina: poteva trasportare sino a 15 quintali di merci. Più lenti e pesanti erano i burchi e burchielli, anch’essi di matrice veneta, con fondo piatto per favorire la scarsità del pescaggio. Tuttavia l’imbarcazione più diffusa era la rasco­na: questa aveva conservato per secoli l’antico sistema direzionale romano, costituito da due grandi timoni-derive affiancati sui lati della poppa; il suo scafo era affusolato, a volte poteva essere fornito di una vela latina, e sempre era dotato di una cabina, generalmente al centro: misurava metri 13,35 di lunghezza, e poteva trasportare un carico di 9,350 quintali .

Dal documento preso in esame poc’anzi apprendiamo che i 16 paroni del Finale provvisti di navi atte a trasportare persone avevano l’obbligo di condurre gratuitamente, uno per volta in giorni prefissati, il corriere ducale di Modena dal Finale a Ferrara, e viceversa, come pure «i passagieri, o altri che vanno o vengheno» per servizio del duca; gli altri 19 paroni adibiti a trasportare mercanzie erano invece obbligati a condurre senza alcun compenso una volta all’anno a Modena un carico di legname proveniente dal Bosco della Saliceta, e nel caso che si fossero rifiutati di fare tale viaggio avrebbero dovuto pagare la penalità di uno zecchino.

Sebbene fossero considerati persone abbienti, i paroni vivevano in uno stato di costante precarietà, esposti al rischio di rimanere disoccupati a cau­sa della scarsità dell’acqua che sovente impediva la navigazione. Avevano cavalli e uomini di fatica da mantenere, e non desta meraviglia se talvolta tentavano di sopperire ai danni causati dall’impossibilità di navigare of­frendosi di noleggiare i loro cavalli ai passeggeri che sostavano nell’Osteria Ducale del Finale. Nell’anno 1602 infatti l’oste denunciava al governatore che alcuni paroni si erano recati sotto al portico dell’Osteria per offrire i loro cavalli ai suoi ospiti ad un prezzo inferiore a quello da lui richiesto, sottraendogli in tal modo dei clienti.

Un quadro delle difficili condizioni di vita dei paroni ci è offerto dalla seguente lettera, che essi indirizzarono al duca di Ferrara verso la fine del Cinquecento: «Serenissimo Principe, li Paroni della Terra del Finale … hu- milmente le narrano che quantunque la navigatione da quella terra à Ferrara sia ridotta tanto diffìcile che è come impossibile, essi nondimeno per guada­gnarsi il vivere, et anco perché siano le persone giornalmente servite di tal comodità si sforzano col tener navi di qua e di là dalle giare del Pò con haver molti cavalli con loro per far sforzi di tirare con far traghetare con car­rette le robbe, et con altri diversi modi, et maniere di andarla mantenendo. Et perché in ciò fare patiscono spese infinite, ruinano li cavalli et le navi, et finalmente consumano le proprie lor persone nelle fatiche intolerabili, et col star nell’acqua la più parte del tempo per spingere le navi in miglior onda, par loro honesto di esser condecentemente rimunerati e pagati da chi vie­ne da loro in cotal modo servito». L’asprezza del loro lavoro quotidiano emerge da queste ultime righe: non sempre ritto sulla prua ad impartire or­dini stava il parone, che spesso trascorreva nell’acqua lunghe ore spingendo la sua nave là dove c’era un maggior pescaggio, per evitare che si arenasse; tali condizioni di vita sarebbero rimaste invariate per secoli, sino a quando la navigazione a vapore soppiantò il traino mediante alaggio.

Nel Museo del Territorio di Finale Emilia sono esposti due lunghissimi timoni-derive, simili a remi, ritrovati nella casa dei Rovatti, gli ultimi paroni di questa città, i quali cessarono la loro attività nel 1895. I due timoni sono l’unica traccia rimasta al Finale delle numerose imbarcazioni che solcarono un tempo le acque del Secchia e del Panaro. Tuttavia, percorrendo le strade che ricalcano le vie alzaie del passato, ritroviamo ancora oggi nume­rosi edifici sorti sulle rive di fiumi e canali per ristorare l’anima e il corpo dei naviganti: sono minuscoli oratori di campagna ed osterie, quasi tutti in stato di desolante abbandono, ma evocatori di un mondo ormai lontano in cui per secoli risuonarono i canti, le imprecazioni e i richiami cadenzati dei paroni.

Maria Pia Balboni

Tratto da: Quaderni Della Bassa Modenese – N°51 – Anno 2007

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2 Responses to I “Paroni”della Bassa

  1. gielle says:

    scorrendo gli interessantissimi registri anagrafici del Finale di primo ‘800, si trovano le professioni di parone, marinaro, calafato, marangone, chiusarolo, traficante, tutte legate ai lavori che offriva il canale, come pure le attività gestite dalla fiorente comunità ebraica … a Modena oltre alla via Alzaia esiste tuttora la via Attiraglio che partiva dalla darsena situata dietro al Palazzo Ducale e costeggiava il Naviglio …

    • ida pignatti says:

      Oggi 19/05/23 ho letto questo interessante articolo sui paroni della bassa. Il mio bisnonno FREGNI Riccardo di Camposanto è stato uno degli ultimi paroni (è morto nel 1926): la sua barca si chiamava San Nicolò. Navigando sul Panaro e altri canali arrivava a Chioggia, oppure attraverso il Naviglio, arrivava a Modena, aiutato anche da mio nonno Giuseppe, fino all’inizio della 1^ guerra mondiale
      Anche i suoi antenati diretti erano paroni, infatti, attraverso le mie ricerche, sono risalita fino a Fregni Paolo, nato nella prima metà del 1700, che faceva lo stesso mestiere. C’erano poi anche i Gozzi, sempre di Camposanto (antenati di mia nonna materna), tra i quali l’ultimo è stato Gozzi Ettore, la cui barca si chiamava Tremendo.

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